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La Voce del Vangelo

La VOCE ottobre 2017

Gente presuntuosa fa venire i nervi. È curioso come un arrogante risulti antipatico a tutti tranne che a se stesso. In banca, al bar, al mercato, in TV ci vuole poco per capire se uno si crede migliore degli altri. Ma Dio resiste agli orgogliosi; resiste a chiunque sia persuaso di essere giusto e disprezzi gli altri. Gesù l’ha illustrato in modo eloquente nella sua parabola del fariseo e del pubblicano, in Luca 18:9-14.

  • Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la decima su tutto quello che possiedo”.
    Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
    Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s’innalza sarà abbassato, ma chi si abbassa sarà innalzato.

Potrei metterci la mano sul fuoco che, se sei come me, tra i due, pensi di assomigliare al pubblicano. Anzi, me lo auguro. Ma è ora di riconoscere e stanare il fariseo che si nasconde in noi!

Io sono come te

È nella natura umana paragonarsi agli altri. Impariamo a farlo sin da piccoli. Chi è il più bravo? Chi la più bella? Chi ha più successo? Chi ha più amici? Logicamente io! E se così non fosse, per sentirci migliori, con sorprendente disinvoltura tiriamo in ballo tutti i difetti immaginabili dell’altro. Non necessariamente arriviamo a farlo a parole; il più delle volte ci basta averlo pensato.

Sarebbe riduttivo dire che il problema tocchi solo i nostri rapporti con gli altri. In realtà, riguarda principalmente la relazione che abbiamo con Dio.

Nella sua parabola, Gesù sta mettendo in evidenza non le differenze tra i due personaggi, ma il diverso rapporto che i due hanno con l’Iddio santo dell’universo.

Siamo tutti d’accordo che per poter avere un rapporto con Dio bisogna essere come il pubblicano: bisogna riconoscere il nostro peccato e chiedere che Dio, nella sua grazia, ci perdoni e ci offra la perfetta giustificazione in Cristo. Lo dice la Bibbia e ci crediamo. Ma dobbiamo domandarci se questa convinzione si veda anche nella nostra vita quotidiana.

Giorno per giorno le nostre reazioni, gli sguardi e i commenti rivelano quello che effettivamente pensiamo di noi stessi e degli altri. E, di conseguenza, mostrano la vera natura del nostro rapporto con Dio.

Ovviamente il problema è più grave di quanto ci rendiamo conto!

Basti pensare ai commenti che si fanno sugli altri in famiglia, su Facebook o addirittura in chiesa. Non eccedono certo in grazia. Perfino sui blog e nei libri oggi il tono è negativo rasentando a volte la cattiveria.

A Dio non sfuggono questi atteggiamenti sprezzanti e sa bene quello che si annida nei nostri cuori. Gli altri potrebbero anche non accorgersi dei nostri sentimenti, qualcuno potrebbe perfino incoraggiarci nei nostri modi di fare altezzosi, ma Dio ne è profondamente disturbato.

Sai perché? Perché sentendoci superiori, non disprezziamo solo i nostri simili, stiamo anche disprezzando l’opera di Dio nella nostra vita!

Se abbiamo creduto alla verità, se siamo diventati dei figli di Dio, non è per merito nostro. Paolo lo afferma chiaramente: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:7,8).

Non si è credenti per opere né meriti di alcun tipo. La salvezza è un dono. Non eravamo mica propensi o disposti a credere più di altri!

Infatti Paolo, sotto l’ispirazione di Dio, scrive: “Dio ha vivificato anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli. Nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d’ira, come gli altri” (Efesini 2:1-3).

Eravamo proprio come tutti gli altri; avevamo gli stessi desideri, seguivamo la stessa guida (Satana) e vivevamo anche noi per soddisfare i nostri desideri. Eravamo ribelli, incapaci di desiderare e di fare il bene.

Troppo spesso il nostro pio disdegno per i peccati e il cattivo comportamento degli altri cela la triste realtà che non abbiamo capito che essere nati in Italia, nella nostra famiglia o in un Paese dove c’è libertà religiosa, non è mica merito nostro. Essere stati esposti alla Parola di Dio che ci ha condotti alla fede in Cristo, è opera esclusiva di Dio, senza nostro merito.

È un fatto che dovrebbe spingerci a rivedere il modo in cui parliamo della nostra fede agli altri. Il nostro proclamare le verità divine deve scaturire dalla piena consapevolezza della grazia immeritata che ci è stata data.

Ma magari il nostro peccato fosse solo questo!

Purtroppo c’è un altro aspetto nefasto del nostro orgoglio, che però tendiamo a minimizzare. Anzi, per alcuni è proprio un motivo di vanto. È la critica.

Tra credenti in generale, tra le chiese locali e tra le denominazioni evangeliche siamo sempre pronti a criticare.

Adesso mi dirai: “La verità va creduta e difesa e coloro che si sviano dalla verità e abbracciano l’errore vanno smascherati!” Assolutamente!

Ma aspetta… La verità va certamente studiata, accettata e difesa, quindi non è questo il problema.

Il problema è l’atteggiamento con cui lo si fa. Perché proprio come non è merito mio se sono diventato un credente, non è merito mio neppure quello che ho capito della Parola di Dio!

Paolo scriveva ai corinzi: “Ora, fratelli, ho applicato queste cose a me stesso e ad Apollo a causa di voi, perché per nostro mezzo impariate a praticare il non oltre quel che è scritto e non vi gonfiate d’orgoglio esaltando l’uno a danno dell’altro. Infatti, chi ti distingue dagli altri? E che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l’avessi ricevuto?” (1 Corinzi 4:6,7).

La chiesa di Corinto, divisa in fazioni, con alcuni che si stimavano più spirituali degli altri, aveva bisogno di sentirlo dire chiaro e tondo. E noi oggi dovremmo dirlo a noi stessi proprio così: Chi ti credi di essere? Quello che hai, quello che sai e quello che hai capito non è mica merito tuo!

Ogni volta che ci atteggiamo come se avessimo dei meriti, stiamo di fatto offuscando l’opera di Dio; forse non ce ne rendiamo conto, ma stiamo usurpando il suo posto. Quando cerchiamo di promuovere il nostro valore personale tra i credenti abbiamo dimenticato che è stato Dio, non noi, a cominciare una buona opera in noi e che è Lui che la porterà a compimento (Filippesi 1:6). L’avviamento di questa buona opera, il suo progresso nel tempo e il suo compimento è, dall’inizio alla fine, opera esclusiva di Dio senza merito nostro.

Tra le chiese, si pecca nel modo in cui vengono espresse le critiche una nei riguardi dell’altra, quando si mira a mettere in risalto la propria superiorità piuttosto che l’opera di Dio. E nascono le contese.

Ma non fraintendermi: non sto dicendo che le differenze dottrinali non abbiano importanza. No, dobbiamo tutti ricercare, difendere e proclamare la sana dottrina. Sto dicendo che dobbiamo fare attenzione a non essere farisei nel farlo. Non dobbiamo arrogarci dei meriti che non sono nostri.

Giacomo ci ricorda qualcosa di importante sulla sapienza: “La saggezza che viene dall’alto anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (Giacomo 3:17,18).

Mi sembra che il modo in cui vengono espresse le critiche – o le differenze – non rispecchi l’atteggiamento che Dio richiede: la convinzione che è solo per merito suo se abbiamo capito e creduto alla verità.

Il disprezzo, la mancanza di perdono, la critica, il troncare i rapporti, l’odio (il non amare è una forma di odio!) e qualunque altro atteggiamento che ci fa sentire superiori agli altri sono le caratteristiche del fariseo nella parabola di Gesù.

Voglio essere come il pubblicano e riconoscere di aver peccato ed essere consapevole della grazia di Dio immeritata. La posta in gioco è il mio rapporto con Dio stesso!

Che sia evidente, quando proclameremo e difenderemo la verità, che non abbiamo merito alcuno. E che possiamo essere sempre pronti a tornare alla Parola di Dio per capirla meglio, per non trovarci a difendere con l’orgoglio le nostre tradizioni o posizioni denominazionali.

Che si dia umilmente ogni merito a Dio per quello che abbiamo capito.

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