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La VOCE ottobre 2022

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A casa nostra... "Piccole bocche della verità" 

Quest’anno, cosa impareranno i nostri figli a scuola?

Tra le materie che saranno insegnate quest’anno a scuola ci sono le scienze, la storia e la biologia. Se ne occuperanno gli insegnanti che proprio per il loro ruolo esercitano una certa influenza sui ragazzi. Sicuramente gran parte, se non tutto quello che insegneranno, sarà filtrata dalle loro idee e opinioni, che esporranno come verità assolute.

Sapere questo dovrebbe spingere noi genitori a riflettere seriamente su chi stia forgiando il modo di pensare dei nostri figli. Chi esercita l’influenza decisiva sulle loro scelte di vita? Quali “verità” e soprattutto chi le sta inculcando nelle menti dei nostri piccoli?

Una verità biblica da tenere sempre presente è “Insegna al ragazzo la condotta che deve tenere; anche quando sarà vecchio non se ne allontanerà” (Proverbi 22:6). Chiunque può attestare l’esattezza di queste parole.

La condotta del bambino è plasmata sin dalla tenera età attraverso l’esempio, le istruzioni e le informazioni che riceve durante la crescita.

Perciò è importante che un genitore valuti  bene chi spende più tempo con i suoi figli e in che modo lo fa.

Tra le persone più presenti nella vita dei figli ci sono sicuramente i maestri e i professori, dal nido fino all'università, ma anche i nonni, gli amici, gli allenatori vari, gli insegnanti di danza e di musica ecc. E non bisogna nemmeno sottovalutare l’influenza di tutto quello che i nostri ragazzi assorbono da televisione, internet e social.

Alla luce di tutto questo è evidente che la maggior parte della fetta di tempo non è occupata dal nucleo famigliare. I tuoi ragazzi sono costantemente bombardati da informazioni trasmesse da persone che non credono affatto quello che credi tu, né hanno a cuore quello che per te è sacro e caro. E non facciamoci illusioni: hanno anche scopi e intenti molto diversi dai nostri.

Tanti genitori si sorprendono che i figli, raggiunta una certa età, abbandonino la fede. La realtà mostra con dispiacere che succede spesso ai giovani cresciuti in famiglie di credenti. Arrivati al liceo, all'università o al primo lavoro mostrano sempre meno interesse per le cose spirituali, e alla fine si allontanano del tutto.

A questi genitori mortificati e avviliti non resta che osservare impotenti il loro allontanamento e rassegnarsi, sperando che i discorsi sulla fede, le scuole domenicali e i campeggi che hanno frequentato da piccoli, possano portare un eventuale frutto, e che prima o poi ritornino al Signore.

Poteva andare diversamente? In che cosa hanno sbagliato? Come hanno fatto questi genitori (e questi nonni) credenti a perdere di vista il loro compito?

Le risposte le troviamo nella Bibbia. 

“Questi sono i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che il SIGNORE, il vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nel paese nel quale vi preparate a entrare per prenderne possesso, così che tu tema il tuo Dio, il SIGNORE, osservando, tutti i giorni della tua vita, tu, tuo figlio e il figlio di tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandamenti che io ti do, affinché i tuoi giorni siano prolungati. Ascoltali dunque, Israele, e abbi cura di metterli in pratica, affinché venga a te del bene e vi moltiplichiate grandemente nel paese dove scorrono il latte e il miele, come il SIGNORE, il Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
“Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE.
“Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze.
“Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città.”
—Deuteronomio 6:1-9

 Queste parole della Torah (Pentateuco nella Bibbia ebraica) si ripetono regolarmente, ad alta voce, nelle sinagoghe. Fanno parte della preghiera mattutina e serale del popolo d’Israele. Un padre israelita non doveva mai dimenticare quale fosse il suo compito personale.

Prima di tutto aveva il dovere di vivere in modo da onorare in ogni cosa l’Eterno, l’unico vero Dio e suo SIGNORE.

Il padre doveva essere d’esempio al resto della famiglia nell’osservare tutte le leggi di Dio. La sua vita spirituale doveva essere un libro aperto sotto gli occhi di tutti. Doveva amare Dio con tutte le sue forze, con tutta la sua anima e con tutto il suo cuore. Il bene della sua famiglia dipendeva dal suo cammino col Signore.

Oggi per molti padri la priorità è il lavoro e la carriera, sostenere la propria famiglia e raggiungere una certa comodità finanziaria. Un padre che provvede una casa, il cibo, lo sport e le vacanze ai propri figli sembra per molti aver fatto il suo dovere. Ancora meglio se porta i figli in chiesa dove c’è anche un programma per i bambini. Ma il suo esempio nell’amare Dio non può limitarsi alla preghiera prima dei pasti, magari in occasioni sempre più rare in cui mangiano tutti insieme. E non può delegare alla mamma l’esclusiva di dire una preghierina con i figli prima di metterli a letto. Ci vuole solo un attimo e i bambini sono già grandi, e allora tutto diventa più complicato.

Sembra una descrizione troppo pessimistica? Voglio sperare di sì. Sono certo che molti genitori credenti fanno molto meglio.

Spesso a complicare l’educazione dei figli è il fatto che un solo genitore è credente, magari si converte al Signore dopo il matrimonio. Avere due ottiche diverse sulle questioni importanti produce inevitabilmente conflitti, ed è una realtà su cui non si riflette con la dovuta serietà quando una persona cristiana vuole sposarne una non credente. È la dimostrazione che non si sta pensando affatto al bene dei propri figli.

Il ruolo del padre nel piano di Dio, secondo le istruzioni delle Scritture, è di essere l’influenza spirituale della famiglia, l’insegnante e il teologo di casa.

Per quanto riguarda la moglie, la vita spirituale del futuro marito va osservata durante il fidanzamento: una vita che comincia il giorno che ci si sposa e dura fino alla morte.

Per i figli, l’influenza del padre comincia dalla loro nascita e non finisce mai. È sempre attiva, riempie ogni giorno dal momento in cui ci si alza fino a che non si va a letto.

Per essere efficace non deve essere casuale, ma pensata, preparata con cura.

Il padre e la madre faranno tutto ciò che è necessario per ricordarsi di questo e per pianificare con attenzione l’istruzione dei figli, senza pause e senza tentennamenti.

È significativo che la parola “inculcare” nel passo citato di Deuteronomio nella lingua originale implica il concetto di cesellare, in pratica di dare forma al proprio figlio. Il passo spiega anche come avviene questo cesellare: parlando dei comandamenti di Dio, facendone motivo costante di conversazione.

Trovo interessante che molti bambini imparino presto a tifare la squadra del cuore del papà, e che non mi sia capitato mai di sentire un bambino preferire la squadra del cuore della mamma. Molti papà col loro entusiasmo, l’interesse, le parole, l’abitudine di guardare le partite oppure regalando la maglietta del giocatore preferito hanno cesellato uno spazio nel cuore del bambino per la squadra preferita.

La parola “insegnare” usata nel versetto citato del libro dei Proverbi, è concettualmente diversa dall'inculcare. Oltre il suo significato primario contiene anche l’idea di dedizione e di spendere tempo.

È chiaro che ci preme trovare il tempo per ciò che riteniamo importante, che è tutto ciò che in pratica ha più valore per noi. Quanto tempo invece dedichiamo all'istruzione dei nostri figli?

Siamo partiti domandandoci chi stia esercitando influenza maggiore sui nostri ragazzi. La domanda è legata a quello che noi riteniamo più importante per la loro vita. Se è l’istruzione scolastica li spingiamo a studiare, se è lo sport li incoraggiamo a perseguire questi obbiettivi.

Ma se per noi l’importante è il loro amore per Dio, la loro conoscenza di Lui e della sua Parola, e la loro vita spirituale, dobbiamo allora prendere coscienza del fatto che dobbiamo capire come avere un’influenza maggiore, e come prevenire e correggere tutte quelle informazioni sbagliate e pericolose che i nostri figli stanno assorbendo. Ci sono questioni fondamentali da affrontare, a partire dal ruolo di Dio nella creazione, nel mondo e nella vita dei nostri figli, ma anche le informazioni sul gender, su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, tanto per nominarne alcune.

Dio non ha mai cambiato idea sul ruolo dei padri nella vita dei figli. Quello che l’Apostolo Paolo ha scritto allora vale ancora oggi: “E voi, padri, non irritate i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell'istruzione del Signore” (Efesini 6:4).

La prima istruzione che Paolo dà è quella di non irritare i figli! I genitori che non svolgono bene il loro compito tendono a provocare ed esasperare i propri figli. Scrivendo la stessa esortazione alla chiesa di Colosse Paolo aggiunge: “Padri, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino” (Colossesi 3:21).

In questi due versetti Paolo ha usato due parole diverse, ma che sono tradotte entrambe in italiano con “irritate”. La parola originale include l’idea di sventolare la fiamma per ravvivarla, aizzandoli invece di avere un’influenza calmante su loro.

Il motivo per cui fare attenzione a non irritare i figli è che non si scoraggino, che non si spenga il loro spirito. L’idea è di non portare i figli a pensare che non valgono niente, che tutto quello che fanno è sbagliato.

È facile per i padri pensare che il loro compito principale sia quello di correggere ciò che è sbagliato agendo in modo autoritario, ma il rischio è di aggiustare ciò che è visibile, preoccupandosi delle apparenze, e non curando il cuore dei ragazzi.

Anche se davanti a Dio il capofamiglia è il padre, ed è lui il primo responsabile della crescita spirituale della famiglia, questo discorso è rivolto anche alle madri, perché il compito di allevare i figli è senza dubbio responsabilità di tutti e due.

Irritare e scoraggiare i figli li porterà ad avere atteggiamenti e comportamenti negativi. Prima di tutto gli insegna a essere ipocriti. Richiedere ai figli quello che non si è pronti a fare in prima persona apre la porta alla falsità nel loro rapporto con gli altri.

Poco prima della sua esortazione ai padri Paolo aveva avvisato tutti: “Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. Perciò non siate disavveduti, ma intendete bene quale sia la volontà del Signore” (Efesini 5:15-17).

Un padre saggio e coscienzioso è attento alla sua vita, e prima di mettersi a istruire gli altri cercherà di capire bene quale sia il comportamento che lui stesso deve tenere.

In secondo luogo, la durezza e la cattiveria producono risentimento.

Paolo aveva parlato anche di questo: “Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca, ma, se ne avete qualcuna buona, che edifichi secondo il bisogno, ditela, affinché conferisca grazia a chi l’ascolta” (Efesini 4:29).

Accade spesso di interagire con i figli più per reazione a qualcosa piuttosto che per un nostro progetto educativo. A volte la fretta di risolvere il problema in questione ci spinge a essere duri, a far vedere la propria rabbia invece di mostrare la grazia di Dio. Ma una parola buona detta al momento giusto ha un effetto molto migliore.

In terzo luogo, la mancanza di ammissione dei propri sbagli e non essere pronti a perdonare sono motivi di grande irritazione per i figli. Paolo ha scritto: “Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Efesini 4:32).

Credetemi, chiedere perdono non sminuisce la nostra autorità, piuttosto la rende più credibile. E offrire il perdono è fondamentale per non scoraggiare chi ne ha bisogno.

I genitori devono smettere di esasperare e scoraggiare i figli facendo il contrario di ciò che gli insegnano sulla disciplina e l’istruzione del Signore. Questo ovviamente è alla base della cura di un figlio.

Allevare vuol dire fare tutto il lavoro necessario dalla nascita in poi per avviare il bambino nella direzione giusta. Il punto focale deve essere sempre il Signore.

Quando si tratta della riprensione è facile lasciarsi dominare dal nervosismo e dal malumore. Giacomo invece ci ricorda che l’ira dell’uomo non compie la giustizia di Dio. L’ira spinge i genitori a riprendere i figli in modo sbagliato, esagerato, a sminuirli chiamandoli stupidi, a metterli a disagio sgridandoli davanti agli altri oppure stabilendo regole o punizioni esagerate del tipo “Non ti faccio uscire più con i tuoi amici” e a essere petulanti.

Educare e disciplinare bene e con coerenza biblica è senza dubbio difficile, a volte frustrante, e sempre stancante. L’impegno di influenzare la loro mente e dirigere il loro comportamento non finisce mai. Per farlo bene ci sono alcuni principi che vanno seguiti.

  • Le istruzioni devono essere chiare. Bisogna tenere conto dell’età dei figli e assicurarsi che abbiano compreso bene quello che gli si chiede.
  • Le aspettative non devono essere esagerate. Aspettarsi che un bambino non rovesci mai il bicchiere sul tavolo è eccessivo, incidenti del genere capitano anche a noi adulti.
  • Le nostre reazioni devono essere attente e appropriate. A volte il problema sta nel discernere tra quando si tratta di un comportamento puramente infantile e quando invece è una vera disubbidienza.
  • Dobbiamo essere coerenti. Sempre. Il no deve significare “no” ogni volta che viene pronunciato. Non può volere dire “fai quello che ti pare fino a che non mi esasperi.”
  • Le nostre istruzioni non devono essere arbitrarie, ma avere una spiegazione ragionevole. Non vuol dire che i figli debbano necessariamente essere d’accordo con le nostre motivazioni, ma noi dobbiamo avere chiaro in mente il perché delle nostre istruzioni.
  • Le correzioni e le punizioni devono essere appropriate. Ogni età richiede un approccio diverso. Non applicherai la stessa punizione per qualunque misfatto e a qualunque età, come non esigerai le stesse cose da un bambino e da un adolescente.

Ricordiamoci che lo scopo di tutto questo è dirigere la mente e il cuore del fanciullo o dell’adolescente verso il Signore, perché il nostro figlio conosca Dio e ciò che Lui vuole da noi. La Parola di Dio deve essere il punto di partenza e di arrivo in tutto quello che facciamo.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Timoteo 3:16,17).

Ogni giorno a scuola, al parco e durante lo sport i nostri figli sono molto spesso esposti all’influenza di persone che non amano Dio, che non lo conoscono e non hanno l’intenzione di onorarlo.

Il compito di guidarli verso il Signore è principalmente nostro! Dio ritiene ogni genitore, specialmente il padre, responsabile dell’educazione dei figli. Non sono i parenti, gli insegnanti di scuola domenicale o altri. E fino a che dipenderà da noi, scegliamo con attenzione a chi permettiamo di influenzarli.

Genitori, prendete del tempo per riflettere sulla vostra vita davanti a Dio, e per parlare tra di voi di come essere padri e madri che trasmettono ai loro figli un retaggio spirituale eterno. Vale più di quello che il mondo avrà mai da offrire.

Davide Standridge

 

Le piccole bocche della verità

" A CASA NOSTRA..." Ristampa della VOCE, aprile 1973

A casa nostra ho fatto un piccolo patto con i miei figli. “Mi dovete dire i miei difetti perché li possa correggere.”

Ricordo che quando ero bambina c’erano delle cose che mi facevano proprio arrabbiare. Un amico di famiglia che faceva suoni sibilanti con i denti per togliersi il cibo rimasto nelle fessure dagli ultimi 15 giorni, una signora che mangiava il dolce e a ogni boccone si passava la lingua sul labbro superiore, un ragazzo che appena si cominciava a raccontargli una storia, si metteva a tirare su dal naso.

Appena i figli hanno sentito la proposta mi hanno guardata con gli occhi rotondi come galline spaventate: “Come? Noi dirti i tuoi difetti?”

“Non penserete mica che sia perfetta, no?”

“Ah, certo no!” Su questo punto erano pienamente d’accordo.

“Così mi aiuterete a non prendere delle cattive abitudini. Dopo tutto anche i figli possono aiutare i genitori.”

I primi giorni furono abbastanza penosi.

“Ma lo sai che cammini a papera?”

“Fai attenzione a non fare quelle facce buffe per la strada, come se ti stessi raccontando una storia da sola.”

“Eh, fossero solo le facciate... Non diciamo niente di quando parli da sola. Allora sembri proprio... Beh, lasciamo pure perdere.”

Ma piano piano ho imparato ad apprezzare certe osservazioni. E ho notato che erano di solito giuste.

“Io lo trovo poco rispettoso” mi ha detto una signora. “Io penso che i figli debbano abituarsi a non vedere i difetti dei genitori.”

Povera donna, si sbagliava di grosso. Anche la Bibbia dice che ci dobbiamo correggere a vicenda. E chi lo può fare meglio di chi ci vede da mattina sera?

E poi ho fatto anche una scoperta: prima di dirmi quello che devo correggere io, i figli ora si assicurano di non essere in fallo loro. E così prendiamo due piccioni o tre con una sola fava.

Maria Teresa Standridge

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La VOCE settembre 2022

Rompicapi spirituali

VI RICORDATE IL CUBO DI RUBIK, il rompicapo solitario popolarissimo negli anni ’80? Inventato dal professore di architettura ungherese Ernö Rubik, nel 1974, è stato premiato più volte come gioco dell’anno, e a oggi ne sono stati venduti più di 450 milioni di esemplari.

L’obiettivo del gioco, dopo che tutti i quadratini colorati delle sei facciate sono stati mischiati, è di ruotare i sei lati in modo che ognuno torni a mostrare un solo colore.

Esistono addirittura campionati internazionali dove i partecipanti devono risolverlo nel minor tempo possibile. Il record è 3,47 secondi! Alcuni ci riescono addirittura a occhi bendati dopo averlo osservato solo per qualche momento. Io lo trovo così complicato che non mi ci sono mai cimentato.

A volte, mi sembra che noi credenti trattiamo alcune verità bibliche come il cubo di Rubik, mescolandole impropriamente fino a confonderci. Il risultato è che non ne veniamo mai a capo, e di conseguenza, nel tentativo di trovare un senso nel nostro caos dottrinale, rischiamo di abbracciare concetti e idee estranei alle Scritture, oppure ci arrendiamo, pensando che comprendere la dottrina biblica non sia cosa importante.

In questo numero voglio affrontare una di queste verità bibliche oggetto di molte discussioni.

Il martello non lo risolve!

Il Signore Gesù, prima di andare in cielo, aveva fatto una promessa ai suoi discepoli: “Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Consolatore perché sia con voi per sempre: lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi” (Giovanni 14:15-17).

Nel corso della storia la promessa di Gesù di mandare lo Spirito Santo ha confuso e diviso tanti credenti. 

Chi riceve lo Spirito Santo? Quando lo si riceve? Come si fa a sapere se uno lo ha ricevuto? Come si manifesta? Sono tutte domande valide che i credenti si pongono. Le risposte si trovano tutte nel Nuovo Testamento. A una lettura superficiale però, soprattutto con dei preconcetti in testa, sarà difficile (se non impossibile) riconoscere il chiaro insegnamento delle Scritture.

L’interpretazione sensazionalista di alcuni versetti sullo Spirito Santo ha portato a travisarne la verità, generando divisioni nelle chiese e la nascita di sette e denominazioni.

L’obbiettivo di questo articolo è vedere insieme la promessa di Gesù, indiscutibilmente chiara nelle Scritture, e di confrontarci con essa. Saremo d’accordo sul fatto che ognuno che si definisce cristiano dovrebbe desiderare di conoscere bene ciò che la Bibbia insegna e attenersi solo a quello, senza aggiungervi nulla.  

CHI RICEVE LO SPIRITO SANTO E QUANDO  

Cominciamo la nostra ricerca biblica con le parole ispirate dell’apostolo Paolo ai Romani: “Voi però non siete nella carne ma nello Spirito, se lo Spirito di Dio abita veramente in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, egli non appartiene a lui (Romani 8:9 enfasi aggiunta).

Da notare la chiara accezione di queste parole: avere lo Spirito Santo è un segno determinante dell’essere nati di nuovo. Sei un cristiano o non lo sei, sei un figlio di Dio o non lo sei, sei nato di nuovo o sei ancora morto, hai lo Spirito Santo in te o non appartieni a Dio! Non ci sono vie di mezzo.

Ai credenti di Corinto Paolo scrive: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:19,20 enfasi aggiunta).

Quei credenti facevano parte di una chiesa piena di problemi e contraddizioni, eppure Paolo non chiese loro se avessero ricevuto lo Spirito Santo o meno, ma: “Vi rendete conto di cosa implica l’avere lo Spirito in voi?” Se siamo credenti, lo Spirito di Dio è in noi: questo fatto deve trasformare la nostra vita!

Riguardo a tale trasformazione, Paolo dichiara: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo” (Galati 5:22). 

Queste sono le caratteristiche del vero cristiano, quindi se siamo nati dallo Spirito di Cristo anche noi dobbiamo possederle. Ci sono credenti che pensano di potersi accontentare solo di alcune di queste qualità, ma in realtà sono tutte interdipendenti tra loro, in pratica non si può essere gioiosi ma non avere pace, e non si può avere amore ma non benevolenza, solo per citare alcuni esempi. Si tratta di un unico frutto.

La domanda sorge spontanea: come mai, se lo Spirito Santo in me sta portando il suo frutto, non dimostro queste caratteristiche continuamente?

Non è una domanda fuori posto, né un problema solo nostro. Paolo l’affronta nella sua lettera ai Galati: “Io dico: camminate [vivete, comportatevi, progredite] secondo lo Spirito e non adempirete affatto i desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro; in modo che non potete fare quello che vorreste” (Galati 5:16-18).

“Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo per lo Spirito, camminiamo altresì per lo Spirito” (Galati 5:24,25).

I credenti hanno il dovere di leggere la Parola di Dio e di confrontarsi con essa per fare, con l’aiuto costante dello Spirito, tutto il necessario per uccidere quei desideri contrari alla volontà di Dio e di conseguenza allo Spirito Santo. È un cammino che dura tutta la vita, ma Dio si aspetta che ci sia un progresso costante, un comportamento ogni giorno più giusto e santo, grazie all’opera di Dio nei cuori, come Paolo ha scritto: “E ho questa fiducia: che colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Filippesi 1:6).

Se siamo nati di nuovo non dobbiamo domandarci se abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio, ma piuttosto preoccuparci di come sta andando il nostro cammino sotto la sua guida.

Voglio ribadire che la risposta a questa domanda non è complicata come alcuni pensano, e non è da dimostrare con segni straordinari ed eclatanti. È molto più semplice di quello che si pensa, ma tanto importante da indurci a riflettere e farci un esame di coscienza.

HAI LO SPECCHIO. USALO!

Esaminare regolarmente il nostro progresso nella fede e nell’ubbidienza alla Parola di Dio è una decisione tra le più sagge che possiamo prendere. Dio, infatti, desidera che valutiamo la nostra vita, perché anche i credenti possono vivere sia da stolti che da saggi. E non dobbiamo demoralizzarci se spesso bisogna ammettere che abbiamo fallito. Una verifica onesta serve per spingerci a cambiare. Ecco come:

“Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. Perciò non siate disavveduti, ma intendete bene quale sia la volontà del Signore. Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito, parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore; ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo; sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.” –Efesini 5:15-21

L’apostolo Paolo prima comanda loro di non essere disavveduti e rivalutare le proprie vite, poi gli ordina di essere ricolmi e traboccanti di Spirito Santo.

UN TRIS DI SEGNI INDISCUTIBILI

Abbiamo già visto che tutti i credenti hanno ricevuto lo Spirito Santo nel momento in cui sono stati salvati. Di seguito vedremo tre caratteristiche di chi non è più controllato dai desideri della carne ma è sotto il controllo e la guida dello Spirito che lo riempie, spingendolo a un comportamento che Dio gradisce.

  • La prima caratteristica è bellissima!

...parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore.

Chi ha conosciuto mio papà ricorderà la sua fedeltà e il suo servizio per il Signore. Molti lo hanno apprezzato negli anni per la sua capacità di leggere la Parola di Dio ad alta voce e spiegarla. Aveva il dono d’insegnamento e della predicazione, dono che ancora oggi è un beneficio per tutti attraverso tanti suoi libri e centinaia di articoli sulla Voce del Vangelo che noi di tanto in tanto riproponiamo.

In pochi sanno, però, che amava tanto cantare. Anche quando ormai gli era difficile muoversi, non era insolito trovarlo seduto sulla sua poltrona a cantare inni sia in italiano che in inglese. Lui concludeva così il suo tempo di lettura e meditazione della Parola di Dio, riempiva la stanza di lodi al Signore con la sua voce ancora intonata.

Efesini 5 descrive il primo segno della pienezza dello Spirito Santo che è quello di parlare e cantare attraverso salmi, inni e cantici spirituali.

Quante chiese fanno del canto motivo di divisioni e litigi inutili! I tre diversi termini usati – salmi, inni e cantici spirituali – significano che la pienezza di Spirito ci porta a lodare Dio nel canto in almeno tre modi differenti.

Nella chiesa primitiva i canti di lode a Dio per eccellenza erano i salmi. I primi credenti erano per lo più Ebrei che avevano l’abitudine di cantare i salmi dell’Antico Testamento. Quale modo migliore di esprimere le verità eterne di Dio se non cantando direttamente la sua Parola così com’è! Ma questi non sono l’unica espressione della nostra adorazione. 

La parola inni si riferisce a componimenti poetici cantati. 

Dato che gli inni seguono una metrica precisa e hanno una struttura chiara, è facile impararli a memoria. 

Paolo e Sila, carcerati a  Filippi per aver liberato una ragazzina da un demonio, cantavano inni. Era indice della loro continua pienezza dello Spirito anche in circostanze avverse. Questo perché il credente nel canto esprime soprattutto la consapevolezza della presenza di un Dio sovrano nella sua vita, e non solo riconoscenza quando tutto va bene. 

Il terzo termine che Paolo usa è cantici spirituali. Questa parola esprime l’idea di cantare una preghiera e delle espressioni di lode, gioia e sottomissione al Signore.

Alcune chiese hanno abbracciato l’idea che il canto debba seguire il più possibile la moda. Uno sguardo al panorama della musica evangelica contemporanea rivela che c’è il grande rischio che diventi più importante delle parole. Si fa molta più attenzione al ritmo, al feeling, alla bravura dei musicisti e dei cantanti piuttosto che ai testi.

Così, però, trasmettiamo la falsa idea che la musica nella chiesa debba intrattenere, trasportare ed evocare chissacché. In realtà i canti devono avere un testo che sia teologicamente sano, profondo e chiaro nel significato, e la loro struttura dev’essere adatta a imprimere nella mente le verità espresse. Il canto serve ad attirare i cuori a Dio, e suono e ritmo dovrebbero collaborare con le parole sottolineandole. 

Altrimenti può capitare che andiamo via dal culto pensando di aver avuto un’autentica esperienza spirituale quando, in realtà, la musica ha solo cibato la nostra carnalità sollecitando le emozioni. In questo le guide della chiesa hanno una seria responsabilità: devono valutare bene quello che si canta e come lo si suona durante la scuola domenicale, le riunioni dei giovani e il culto.

Qualunque sia la nostra preferenza musicale, cantare rimane un’espressione dell’opera dello Spirito Santo in noi:

Esultate, o giusti, nel SIGNORE; la lode s’addice agli uomini retti. Celebrate il SIGNORE con la cetra; salmeggiate a lui con il saltèrio a dieci corde. Cantategli un cantico nuovo, suonate bene e con gioia. Poiché la parola del SIGNORE è retta e tutta l’opera sua è fatta con fedeltà.
—Salmo 33:1-4

I giusti, cioè coloro che Dio ha giustificati in Cristo, fanno attenzione a come si comportano, e non possono fare a meno di esaltare Dio, la sua Parola, le sue opere e il suo carattere col canto.

Ciò che cantiamo con la chiesa o per conto nostro rivela ciò che sta avvenendo nel nostro cuore, e quello che per noi conta davvero. Rivela il lavoro dello Spirito Santo che spinge il credente a focalizzare il suo amato Signore Gesù per ascoltarlo, obbedirgli e per assomigliargli.

  • La seconda caratteristica è toccante

...ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.

Una delle storie più sorprendenti della Bibbia l’ha raccontata Gesù, ed è quella di un giovane sprecone che è andato dal padre dicendogli: facciamo finta che tu sia morto, dammi ora la mia eredità! 

È il ritratto della più sfacciata ingratitudine di chi vuole avere tutto ed essere padrone di sé, e non sentirsi più dipendente dalle cure e dall’autorità del padre.

In quale miseria è dovuto cadere prima di rendersi conto che con il padre stava meglio!

La gratitudine verso Dio è importante, infatti è la seconda caratteristica del credente ricolmo dello Spirito.

Non è un tipo di riconoscenza casuale né una semplice emozione, ma è la consapevolezza di chi è Dio. Ecco perché è un’espressione della pienezza dello Spirito.

Amarezza, rabbia, lamentela, insoddisfazione e ribellione sono l’opposto della gratitudine. Spesso proviamo a scusare questi atteggiamenti negativi davanti alle circostanze avverse o a persone ostili. Lo Spirito però ci ricorda che Dio è sovrano su tutto e tutti, per cui l’ingratitudine è, in effetti, un’accusa contro di Lui.

Paolo scrive: “La pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti. La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando Dio Padre per mezzo di lui” (Colossesi 3:15-17).

Essere sempre più consapevoli dell’opera di Cristo nella nostra vita produce riconoscenza. Questo accade quando la Parola di Dio ci influenza trasformando il nostro modo di ragionare e di comportarci.

Se torniamo al versetto di Efesini 5:20 ci rendiamo conto che lo Spirito ci spinge a essere grati tutto il tempo, e per ogni cosa.

Ma dato che le difficoltà, le malattie, i momenti tristi toccano tutti, ovviamente per i cristiani non è più facile che per gli altri essere sempre grati. Anzi, Gesù ha predetto proprio il contrario, e cioè che avremmo avuto tribolazioni, e che il mondo ci avrebbe trattati male. L’espressione più cristallina e sorprendente di gratitudine, infatti, nasce dall’affrontare i momenti più difficili. Chi dice che il credente non s’ammala e non soffre sta mentendo.

La gratitudine, segno della pienezza dello Spirito, mette in evidenza il nostro rapporto con Dio Padre e la nostra dipendenza da Lui, e la sottomissione al Signore Gesù. Nulla succede nella nostra vita che non sia voluto, governato e guidato dal nostro Padre celeste perché Lui ci ama.

Vuoi sapere se sei ripieno di Spirito Santo? Considera quanto sei grato a Dio e sottomesso alla sua Parola. Non è complicato, ma farlo sicuramente ci spinge a una profonda riflessione.

  • La terza caratteristica è sorprendente!

...sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

La vita terrena di Gesù, Dio incarnato, è stata straordinaria sotto tutti i punti di vista: ha vissuto senza peccato, ha fatto miracoli incontestabili, ha parlato come mai nessun altro, ha dimostrato di conoscere ogni cosa, è morto solo perché l’ha voluto lui, ed è risorto gloriosamente. Alla luce di tutto questo c’è un evento particolare che assume un grande significato, e dovrebbe sorprenderci e sfidarci.

Durante l’ultima cena con i suoi discepoli Gesù ha fatto un discorso, concludendo con queste parole: “Se sapete queste cose, siete beati se le fate” (Giovanni 13:17).

Di cosa stava parlando? Cosa dobbiamo sapere? Cosa dobbiamo fare? 

Gesù, consapevole che stava per arrivare il momento più tremendo della sua vita, si umiliò davanti ai suoi discepoli che più volte avevano litigato su chi fosse il più importante tra loro, si cinse di un asciugatoio e lavò i loro piedi, un compito umile che spettava agli schiavi. Alla fine, disse: “Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io” (Giovanni 13:15).

Da lì a pochi giorni la vita degli apostoli sarebbe cambiata drasticamente: dopo l’assunzione in cielo di Gesù, lo Spirito Santo sarebbe venuto ad abitare in loro e li avrebbe guidati, sorretti e resi capaci di svolgere il compito affidato a loro: portare il vangelo a ogni creatura. Ma avrebbero anche seguito l’esempio di Gesù e si sarebbero sottomessi gli uni agli altri.

I discepoli di Gesù devono, dunque, servirsi umilmente gli uni gli altri di propria volontà.

Noi, duemila anni più tardi, non solo dobbiamo servire come ha fatto Gesù ma dobbiamo camminare, cioè vivere la vita di tutti i giorni in ubbidienza a Cristo, sottomettendoci gli uni agli altri.

Il terzo segno indubbio della pienezza di Spirito Santo è espresso quindi dalla frase: “sottomettetevi gli uni agli altri.”

Diciamoci la verità: è un concetto che non piace, ci prende in contropiede e cozza con i nostri diritti e la nostra dignità.

Infatti sottomettersi si contrappone al desiderio umano di ribellarsi. Partendo dai nostri progenitori Adamo ed Eva, l’umanità è in continua ribellione contro Dio. Oggi viviamo in un mondo che si oppone con veemenza all’ordine e alle leggi stabilite da Dio.

La Bibbia, invece, non solo comanda la sottomissione, ma la esorta, la loda e la premia. Ci ordina di sottometterci prima di tutto a Dio e a Cristo, poi alle autorità governative, la moglie al marito, i figli ai genitori, i lavoratori ai datori di lavoro, i credenti alle guide della chiesa.

La sottomissione è diversa dall’obbedienza, e non la si può imporre a nessuno. L’obbedienza può essere comandata, ma la sottomissione no, perché riguarda l’atteggiamento del cuore, ed è volontaria. Deriva da un termine militare, e presupponeva due decisioni da parte di una persona: il riconoscimento dell’autorità in comando e la prontezza a mettersi sotto le decisioni di essa.

L’essere ripieni dello Spirito è dimostrato perciò dalla nostra relazione con le autorità preposte da Dio stesso. Quando la Bibbia parla della sottomissione (circa 80 volte) ha sempre a che fare con il rapporto con un’autorità superiore.

Le uniche due eccezioni alla sottomissione comandata dalle Scritture sono quando l’autorità 1) comanda di fare quello che Dio vieta o 2) vieta di fare quello che Dio comanda (Atti 4:18-20; 5:29).

La sottomissione alle autorità preposte è una dimostrazione della pienezza dello Spirito proprio perché senza il suo aiuto non ci viene naturale attuarla. In ogni modo, il punto focale non sono le autorità, ma è Cristo che ha stabilito l’ordine delle cose e ha costituito le autorità esistenti (Romani 13:1).

Vuoi sapere se sei ripieno dello Spirito? Esamina se la tua sottomissione è conforme a quella che comandano le Scritture.

Nelle lettere di Paolo abbiamo visto la descrizione di un credente ripieno dello Spirito Santo. Non deve fare miracoli, profetizzare o parlare in lingue sconosciute, ma deve vivere ogni giorno in modo da portare lode al suo Dio, con gratitudine e con sottomissione nel timore di Cristo.

Sapere se si è ripieni dello Spirito è molto meno complicato che cercare di risolvere il cubo di Rubik. E la chiave per uscire dalla confusione dottrinale è semplice e alla portata di tutti: la Sacra Bibbia, che è la Parola di Dio. Allora serviamoci delle sue parole. 

—Davide Standridge

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La VOCE luglio 2022

Cercasi tesoro

La maggior parte degli americani abitano nei quartieri residenziali, in case unifamiliari con giardino privato e garage. Ogni tanto, specialmente durante il week-end, si leggono cartelli con la scritta “garage sale” o “yard sale”. Sono i mercatini privati dell’usato, molto popolari negli Stati Uniti.

Chiunque, per un motivo o per l’altro, voglia disfarsi di quello che non serve più, può organizzare un garage sale mettendo gli oggetti in vendita in bella vista sul prato o nel garage che apre al pubblico.

Questi mercatini privati sono molto popolari, e certa gente ha l’abitudine di alzarsi presto il sabato per andare alla ricerca dell’affare. Per questo il famoso detto “One man’s trash is another man’s treasure” (la spazzatura di uno è il tesoro di un altro) è molto azzeccato. Questo ricorda un fatto recentemente accaduto...

La scoperta

Ecco il fatto a cui mi riferivo nella pagina precedente, così com’è riportato dal quotidiano La Stampa. 

Vincenzo Di Mauro, un trentatrenne titolare dell’officina torinese “Il ricambio”, ha trovato la bellezza di quasi centomila euro in buoni fruttiferi postali, abbandonati nell’isola ecologica di via Como a Settimo Torinese. La straordinaria scoperta è stata fatta domenica mattina, e il tesoro è stato consegnato ai carabinieri.
I buoni fruttiferi erano in una cartellina nascosta in un mobile che una certa signora di 68 anni, proprietaria di quel vecchio comò, aveva abbandonato vicino ai bidoni della spazzatura. Il mobile aveva fatto gola a Vincenzo e a suo zio Vito, e avevano intenzione di restaurarlo, ma non avrebbero mai immaginato che al suo interno fosse custodito un vero e proprio tesoro. 

Fin qui la cronaca.

C’è una morale in tutto questo: viviamo in un mondo dove certe cose sono considerate inutili o addirittura spazzatura, quando in realtà sono dei tesori.

Quando si parla di soldi, si presume che tutti ne conosciamo il valore, ma non ci viene sempre facile riconoscere quanto valgano le persone e le cose, concrete o astratte che siano. 

Il valore che diamo a qualcosa dipende dal bisogno che ne abbiamo, ma questo potrebbe anche cambiare nel tempo. Per esempio, si può dare poco valore a un farmaco fino a quando non ne avremo effettivamente bisogno.

Pensiamo alla chemioterapia con tutti i suoi effetti collaterali: perdita dei capelli, anemia, stanchezza, nausea e vomito, diarrea, infezioni e formazione di lividi o piccole emorragie, talvolta anche problemi cognitivi. Nessuno si sognerebbe di iniziare un ciclo di chemioterapia se non fosse sicuro di averne assolutamente bisogno o senza la certezza che i benefici sorpassano gli effetti negativi.

Un Gesù che non serve

Durante la vita terrena di Gesù l’Impero romano aveva occupato Israele, e gli Ebrei, oppressi e tassati pesantemente, cercavano un liberatore nazionale, un re che li guidasse in un’insurrezione, liberandoli dagli invasori. 

Gesù, però, non sembrava corrispondere al tipo di personaggio che i capi del popolo avevano in mente. Era un Galileo di umili origini, figlio di un falegname. È vero che discendeva dal lignaggio del re Davide, ma era un dettaglio che forse gli uomini al potere ignoravano di proposito. Più che altro vedevano in lui un rivale.

Ma tutti erano rimasti meravigliati dai suoi miracoli, come per esempio guarire la gente da ogni malattia, moltiplicare il cibo per sfamare migliaia di persone usando pochi pani e alcuni pesci. 

In fin dei conti si sarebbero potuti accontentare di lui; avrebbe risolto il problema dei loro bisogni quotidiani. Ma Gesù non era venuto per organizzare una insurrezione né tanto meno per provvedere a tutte le necessità del popolo.

A quelli che gli correvano dietro dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù disse chiaramente: “In verità, in verità vi dico che voi mi cercate, non perché avete visto dei segni miracolosi, ma perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati. Adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà; poiché su di lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio sigillo” (Giovanni 6:26,27).

Ovunque andava, il Signore faceva tanti miracoli e la sua fama si spandeva sempre di più, ma il suo obiettivo non era curare il corpo, bensì la condizione spirituale delle persone. Ai capi religiosi, che si sentivano a posto davanti a Dio, rimproverava l’ipocrisia, motivo per cui continuavano a respingere lui e il suo messaggio. “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori” (Marco 2:17) affermava Gesù.

Gli Ebrei non avevano capito chi fosse Gesù realmente, e non sentivano il bisogno di lui. Non era il “tesoro” che cercavano, perché non si consideravano malati. Al contrario, erano fieri di appartenere all’etnia privilegiata, di professare la religione giusta e di apparire giusti agli occhi del popolo. Quindi, se Gesù non era disposto a soddisfare i loro bisogni materiali, allora a che altro poteva servire?

Non ho mai fatto male a nessuno!

Dio aveva mandato Giovanni Battista a preparare la gente per l’arrivo di Gesù. Il suo compito era quello di predicare e di convincere tutti che erano dei peccatori. Aveva un messaggio duro da proclamare alle folle che andavano da lui per essere battezzate: “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l’ira futura? Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento, e non cominciate a dire in voi stessi: «Noi abbiamo Abraamo per padre!» Perché vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere dei figli ad Abraamo. Ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero dunque che non fa buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Luca 3:7-9).

Di certo non usava le tecniche persuasive degli influencer per conquistarsi il pubblico.

Similmente, Gesù non era venuto nel mondo per mettere a proprio agio le persone o per diventare l’amicone di tutti. Non si proponeva come colui che ti rende la vita perfetta, migliorando le condizioni economiche, matrimonio e relazioni. Era venuto per risolvere il problema principale dell’uomo: la condanna a trascorrere l’eternità all’inferno a causa del peccato, una condanna che pende sulla testa di ogni essere umano. 

La soluzione garantita c’era, ma avrebbe richiesto il sacrificio più grande: dare la sua vita. È questo ciò che ha portato Gesù a morire sulla croce! Lui ha aperto la via del cielo a chiunque crede in lui.

Eppure, oggi, come duemila anni fa, non è questo il Gesù che il mondo cerca. 

Le persone continuano a ignorare la gravità e le conseguenze del loro peccato. La religione “nazionale” stessa ha contribuito a sminuire il peccato nelle menti e nelle coscienze delle persone. Sembra che quasi tutti i peccati siano considerati solo degli sbagli veniali, e che le eventuali conseguenze si potranno risolvere patteggiando con Dio. Pensano di poter compensare le loro mancanze con delle buone opere, e contano sulla comprensione di Dio. I nostri sbagli non sono mica tanto gravi, e poi Dio lo sa che siamo fondamentalmente buoni. Lo slogan che mette a posto la coscienza è “Non ho mai fatto male a nessuno!”

È ora di farsi una domanda

È naturale che chi non conosce Dio ragioni così, ma quando i credenti non fanno più una chiara distinzione tra il bene e il male, allora dobbiamo preoccuparci.

Oggi la tendenza dei predicatori non è sicuramente quella di emulare Giovanni Battista. Nessuno infatti direbbe mai: “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l’ira futura?” Sarebbe controproducente stizzire la gente con espressioni troppo severe e dure. Bisogna conquistare le persone, accattivarsele e non alienarle.

Stranamente, però, anche le intenzioni di Giovanni Battista erano quelle di avvicinare le persone a Gesù. È possibile che fosse un Gesù diverso da quello che vogliamo presentare noi oggi?

Secondo te, di quale tipo di Gesù hanno bisogno i tuoi amici e parenti non credenti? Un amicone che fa felici tutti o uno che ci mostra la nostra vera miseria spirituale per poterci salvare? 

Serve un Gesù che risolve i problemi sulla terra o uno che risolve il destino eterno che ci siamo meritati offendendo Dio con il nostro abominevole peccato? Pensiamo bene a quale dei due vogliamo avvicinare le persone.

È veramente necessario farlo?

L’apostolo Paolo ha detto ai credenti di Efeso: “Non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre; piuttosto denunciatele; perché è vergognoso perfino il parlare delle cose che costoro fanno di nascosto. Ma tutte le cose, quando sono denunciate dalla luce, diventano manifeste; poiché tutto ciò che è manifesto, è luce. Per questo è detto: «Risvegliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti inonderà di luce»” (5:11-14).

Guardiamoci intorno: ormai la società non solo accetta il peccato, ma addirittura approva ed elogia le persone che lo commettono (Romani 1:32).

Noi di certo non lo approviamo. Ma non è che stiamo diventando sempre più muti e meno pronti a reagire a ciò che è definito peccato nella Bibbia?

Ciò che era scandalo alcuni anni fa, oggi è normale. Si convive, si fanno figli senza il vincolo del matrimonio, si tradisce il partner e nessuno inarca le sopracciglia. 

La società è influenzata da uomini e donne malvagi che vogliono forzare tutti ad accettare come naturale e giusto quello che non lo è, particolarmente nella sfera sessuale. Ma Paolo avverte i credenti: “Come si addice ai santi, né fornicazione, né alcuna impurità, né avarizia, sia neppure nominata tra di voi” (Efesini 5:3).

I tempi sono cambiati, ma lo standard di santità e di purezza che Dio esige è sempre lo stesso.

Paolo scrive agli Efesini ancora: “Non siate dunque loro compagni; perché in passato eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Comportatevi come figli di luce – poiché il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità – esaminando che cosa sia gradito al Signore” (5:7-10). 

I figli di Dio devono essere luce. Ma cosa vuol dire praticamente? 

Una responsabilità che fa paura

Temo che ci siano cristiani per i quali è sufficiente vivere una vita morale, riempita ogni tanto da esclamazioni tipo “Se Dio vuole!” Nessun credente e nessuna chiesa si accontenti di questo!

Sicuramente un cristiano si comporta in modo diverso dal resto del mondo, separandosi da ogni sorta di male, ed esamina continuamente la propria vita alla luce delle Scritture per vivere in modo che onori Dio.

Ma Paolo ha scritto: “Non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre; piuttosto denunciatele.”

 “Non partecipate”, “non siate loro compagni” sono dei comandi chiari e, in generale, i credenti li mettono in pratica per essere luce. Infatti, che tipo di credibilità può avere un credente se non si comporta come si addice a un figlio di Dio? Ma è la fine della frase di Paolo che ci lascia perplessi e ci spaventa, perché potremmo restare emarginati e subire l’opposizione degli altri.

Sia come sia, è un imperativo inequivocabile: “Denunciatele!”

Denunciare significa dire, rivelare, smascherare, parlare ad alta voce, mettere in evidenza, e questo fa arrabbiare o provare vergogna al “denunciato”. 

Ecco che l’essere luce diventa un fatto serio. Il comando in pratica è di non far finta di niente, non partecipare infatti è un’azione passiva, mentre il denunciare è certamente attiva.

Forse ti domandi perché denunciare ed esporsi in questo modo. Ci sono tre motivi validi per farlo. Ma prima di esaminarli, ricordiamoci che questo compito, la denuncia, non va fatto con arroganza o senso di superiorità. 

Nella prima parte della sua lettera Paolo aveva già ricordato ai suoi lettori credenti che ognuno di loro, inclusi noi che leggiamo oggi, in precedenza viveva nel peccato cercando di soddisfare i propri desideri, seguendo il diavolo e le persone intorno a lui, esattamente come oggi fanno tutti (Efesini 2:1-3). 

Ecco perché bisogna fare attenzione a non essere arroganti e senza umiltà o misericordia! 

Il primo motivo per denunciare il peccato è perché è vergognoso: “è vergognoso perfino il parlare delle cose che costoro fanno di nascosto” (Efesini 5:12).

L’uomo che giustifica il proprio peccato ha perso di vista la sua gravità. 

“Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balìa della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente; ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calunniatori, maldicenti, abominevoli a Dio, insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati. Essi, pur conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette” (Romani 1:28-32).

L’uomo vive in ribellione a Dio, commette peccati, li giustifica e li approva. Agli occhi del Signore ciò è vergognoso, e l’uomo deve saperlo e sottomettersi a Lui. Se non lo diciamo chiaramente l’uomo non capirà la gravità del suo peccato, e non si renderà conto del suo bisogno del Salvatore, il Gesù che è rivelato nella Bibbia.

Farlo è diventato difficile perché l’umanità sta perdendo il comune senso del pudore, non sapendo più distinguere tra il giusto e l’errore. Le persone soffocano la propria coscienza ostentando azioni e comportamenti vergognosi, e attaccano chi denuncia il peccato, affibbiandogli l’etichetta di bigotto, ignorante e incapace di amare, come se fosse quest’ultimo a doversi vergognare.

Il secondo motivo per denunciare il peccato all’altro è perché il colpevole deve essere smascherato. “Ma tutte le cose, quando sono denunciate dalla luce, diventano manifeste; poiché tutto ciò che è manifesto, è luce” (Efesini 5:13,14).

Quello che dobbiamo fare non è solo parlare in modo generico del peccato, ma è importante collegare la persona alla sua colpa e specificarla.

La denuncia deve impedire all’altra persona di dire:

• Non ho mai fatto male a nessuno
• Sono una brava persona
• Quello che faccio non è mica peccato
• Alla fine, Dio deve salvare tutti
• Nessuno va all’inferno

Infatti, Dio è stato molto categorico facendo scrivere da Paolo: “Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sètte, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio” (Galati 5:19-21).

Le parole di Paolo ai Romani “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” e “Il salario del peccato è la morte” (3:23; 6:23a) hanno senso e possono colpire al cuore solo dopo una denuncia personale e chiara.

Hanno veramente bisogno del tuo Gesù?

Con queste dichiarazioni dirette faremo senza dubbio arrabbiare alcune persone. Infatti a Giovanni Battista è costata la vita parlare così.

Forse temiamo che farlo ci precluderà la possibilità di fare amicizia con le persone a cui vogliamo parlare. Allora ecco: 

il terzo motivo da ricordare: la denuncia è la premessa alla salvezza: “Risvegliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti inonderà di luce” (Efesini 5:14).

È il presupposto per un invito altrettanto chiaro e personale alla salvezza.

Molti avevano seguito Gesù per i motivi sbagliati. Altri si erano illusi, immaginando che lui fosse diverso da quello che realmente era. Lo avevano seguito per un po’ di tempo, sembravano essere sinceri. Ma Gesù li aveva smascherati:

“«Tra di voi ci sono alcuni che non credono.» Gesù sapeva infatti fin dal principio chi erano quelli che non credevano, e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre»Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Perciò Gesù disse ai dodici: «Non volete andarvene anche voi?» Simon Pietro gli rispose: «Signore, da chi andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio»” (Giovanni 6:64-68).

I veri discepoli non cercavano Gesù perché fosse il loro nuovo leader politico, per risolvere i loro problemi quotidiani o per essere guariti fisicamente. Lo cercavano perché aveva parole di vita eterna.

Denunciare all’altro il suo peccato, è un modo biblico per essere la vera luce ed è un segno d’amore. Non possiamo proporre a una persona in piena salute di fare la chemioterapia. Ed è ugualmente inutile invitare a credere in un Gesù che salva dalla condanna eterna chi non si riconosce un peccatore, perché costui non crede di meritare alcuna condanna.

Non sia mai che le persone a cui parliamo vedano il Salvatore come inutile come gli oggetti dei garage sales, o peggio ancora diventino, per causa nostra, seguaci del Gesù sbagliato!

Gesù non diventerà mai il tesoro inestimabile di chi non si confronta con il proprio peccato e capisce di meritare la condanna, e che non si riconcilia con Dio.

—Davide Standridge

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La VOCE giugno 2022

E che sarà mai?!

A Roma, il proprietario di un appartamento è stato portato all’ospedale per gravi ustioni sul corpo. “Mi sono preso il caffè, ho acceso una sigaretta ed è esploso tutto” ha spiegato a quelli dell’ambulanza. Secondo gli investigatori, a provocare l’incidente che ha fatto collassare la palazzina, ferendo l’uomo e altre due persone, è stata appunto l’accensione di una sigaretta e la perdita di gas all’ultimo piano dello stabile.

Non è la prima volta che la cronaca riporta notizie di incendi innescati da un gesto banale come addormentarsi con la sigaretta accesa, buttare un mozzicone nel bosco senza spegnerlo o lasciare una candela accesa troppo vicina alle tende.

Anche una piccola fiammella può attivare una forza distruttiva senza pari! 

La Bibbia avverte: “Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta!” (Giacomo 3:5). Se solo le persone facessero più attenzione! 

L’avvertimento di Giacomo, si sa, non riguarda gli incendi, e nonostante si avvicini la stagione più arida col rischio più alto per foreste intere, non è di quello che vogliamo parlare. Il tema riguarda piuttosto l’uso della lingua, perché le nostre parole possono fare danni irreparabili.

Quello che preoccupava l’apostolo Giacomo non era soltanto il danno che possono procurare le parole dette male, ma anche il fatto che provengono da una fonte che invece dovrebbe essere incapace di pronunciarle. Lui ammonisce: “Dalla medesima bocca escono benedizioni e maledizioni. Fratelli miei, non dev’essere così. La sorgente getta forse dalla medesima apertura il dolce e l’amaro? Può forse, fratelli miei, un fico produrre olive, o una vite fichi? Neppure una sorgente salata può dare acqua dolce” (Giacomo 3:10-12).

Onestamente, siamo tutti colpevoli su questo punto. Di solito parliamo di getto, senza pensarci.

Siamo anche talmente indulgenti verso noi stessi che scusiamo il nostro modo di parlare come un difetto del nostro carattere. Casomai sono gli altri che devono imparare a essere meno permalosi. E se ci capita di dire cose sbagliate è perché reagiamo di pancia alle provocazioni degli altri. 

Così nella nostra mente giustifichiamo i sassi acuminati che ci escono dalla bocca: non è mica un peccato come rubare, l’adulterio o l’omicidio. Tanto più che i pugni li teniamo comunque nascosti in tasca. Non stiamo affatto esagerando quindi, in fondo sono solo parole...

Che sorpresa, però, scoprire nella Parola di Dio che certe cose non devono essere mai dette da un credente.

Il punto di Giacomo è che se un seguace di Cristo proferisce parole malvagie, deve sapere che lo sta facendo contro la volontà di Dio, e agisce anche al contrario di come dovrebbe, dato che ora ha una nuova natura in Cristo. Il credente, infatti è una nuova creatura, costituita da Dio per portare frutti buoni. Le cattiverie, le frecciate e le parole amare sono in realtà frutti marci e puzzolenti del suo “vecchio uomo”, quindi della sua vecchia natura.

Il nostro problema, però, è che forse non ne siamo del tutto convinti. Così, con la stessa lingua proferiamo parole di guerra e di pace, di vendetta e di conciliazione, di lamento e di gratitudine, di rabbia e di intesa, di disprezzo e di incoraggiamento, di odio e di amore. Anche se tutto questo ci sembra normale, addirittura inevitabile, per Dio non lo è affatto. 

Ora, però, davanti alla chiara Parola di Dio, non possiamo più sottovalutare le nostre parole ma dobbiamo guardarle come Dio le vede. 

Paolo avvisa i credenti di Efeso: “Come si addice ai santi, né fornicazione, né alcuna impurità, né avarizia, sia neppure nominata tra di voi; né oscenità, né parole sciocche o volgari, che sono cose sconvenienti; ma piuttosto abbondi il ringraziamento. Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore o impuro o avaro (che è un idolatra) ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani ragionamenti; infatti, è per queste cose che l’ira di Dio viene sugli uomini ribelli” (Efesini 5:3-6).

In questi versetti Paolo parla di due tipi di peccati, ma nel nostro articolo ci soffermeremo solo sull’uso della lingua.

Va da sé che la nostra società non solo minimizza il peccato in generale, ma lo giustifica, e a volte ne parla come se fosse normale. Anzi, a volte lo esalta. Più ci avviciniamo al ritorno di Cristo più il senso morale delle persone degenera. Ma Dio non cambia e il suo senso morale è sempre lo stesso, e ogni credente deve pensarla come Lui. 

Infatti, Paolo nella stessa lettera agli Efesini dice così: “Questo, dunque, io dico e attesto nel Signore: non comportatevi più come si comportano i pagani nella vanità dei loro pensieri, con l’intelligenza ottenebrata, estranei alla vita di Dio, a motivo dell’ignoranza che è in loro, a motivo dell’indurimento del loro cuore. Essi, avendo perduto ogni sentimento, si sono abbandonati alla dissolutezza, fino a commettere ogni specie di impurità con avidità insaziabile” (Efesini 4:17-19). 

La denuncia è chiara: i non credenti, senza intelligenza spirituale ed estranei a tutto ciò che è spirituale, si abbandonano sempre di più a ogni sorta d’impurità senza freni, perché non conoscono Dio e lo disonorano. Al contrario invece, Dio comanda a ogni suo figlio di comportarsi nel modo degno del suo nome. Anche se una volta si comportava male come tutti gli altri, oggi deve fare l’opposto. È un ordine chiaro ed esplicito, non è né un consiglio né un’opzione!

Questo cambiamento si deve vedere anche nell’uso della lingua del credente. 

In teoria siamo tutti d’accordo su questo, ma in pratica spesso consideriamo i peccati della nostra lingua come un vizio secondario, solo una cattiva abitudine che fatichiamo a controllare. Ed è proprio questo il nostro problema: se non ne comprendiamo la gravità, siamo sconfitti in partenza e non saremo mai motivati a voler cambiare.

Se lo ritenessimo davvero un peccato grave, faremmo senz’altro come dice Giacomo: “Avvicinatevi a Dio, ed egli si avvicinerà a voi. Pulite le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d’animo! Siate afflitti, fate cordoglio e piangete! Sia il vostro riso convertito in lutto, e la vostra allegria in tristezza! Umiliatevi davanti al Signore, ed egli v’innalzerà” (Giacomo 4:8-10).

Dire cose che dispiacciono a Dio dovrebbe provocare in noi una tale tristezza e un turbamento così profondo da spingerci a non volerlo ripetere mai più.

Questa è la “tristezza secondo Dio che produce un ravvedimento che porta alla salvezza” del quale non c’è mai da pentirsi (vedi 2 Corinzi 7:8-11). 

Troppo spesso succede, invece, che siamo rattristati più per le conseguenze del nostro peccato che per il fatto di aver offeso Dio. Si, perché quando pecchiamo offendiamo Lui per primo. Se ci rendessimo conto che abbiamo prima di tutto recato disonore a Dio, la nostra sufficienza sparirebbe in un attimo. 

Quali sono, allora, le parole che offendono Dio? 

Paolo ha citato qualche esempio in Efesini 5:4 e sono oscenità, parole sciocche e volgari.

Il presupposto è che i credenti non pronuncino mai determinate parole. Ma il significato di questi tre vocaboli elencati da Paolo è più esteso di quello che si pensa.

Nella lingua originale con “oscenità” si intendono parole sporche, brutte, vergognose, che danno scandalo, ma anche parole normali che producono quel tipo di effetto. 

Sono “oscenità” i pettegolezzi, che non sono necessariamente sempre falsi, ma sono detti per fare del male, per rovinare la reputazione di qualcuno, indiscrezioni raccontate a persone che non hanno il bisogno di saperle. I pettegolezzi non hanno mai uno scopo sano. 

“Le parole del maldicente sono come ghiottonerie, penetrano fino nell’intimo delle viscere” avverte l’autore del libro dei Proverbi in 26:22. 

È triste ammetterlo, ma a volte riusciamo a mascherare i pettegolezzi come motivi per cui pregare.

Della stessa categoria delle parole sporche e vergognose fanno parte anche le calunnie. Calunniare è asserire cose su qualcuno che non sappiamo essere vere o false. Il modo più comune di calunniare è giudicare i motivi per cui le persone hanno fatto o detto una certa cosa. 

Quanto è facile cadere in questo peccato! Pensiamo di poter vedere dentro le menti e nei cuori degli altri. Noi, che non conosciamo a fondo neanche le motivazioni del nostro cuore insanabilmente maligno! Eppure, pretendiamo di saper giudicare con oggettività quelle altrui. 

In questa lista di Paolo di parole oscene sono comprese anche le lamentele. 

Hai mai riflettuto sul fatto che quando ci lamentiamo di qualcosa, stiamo in realtà parlando in modo sconveniente di Dio? Lui che è sovrano su tutte le cose, incluse le circostanze che non ci vanno bene, è possibile che si sia distratto? È possibile che all’Onnipotente sia sfuggito qualcosa della nostra vita? È ovvio che no.

Bisogna renderci conto che le nostre parole sono più gravi di quello che fino a ora siamo stati disposti ad ammettere. 

Ma la lista di Paolo non è finita ancora. Lui dice che dobbiamo evitare anche le parole sciocche, quelle che fanno parte del parlare senza intelligenza, parole inutili, stolte e vuote. 

Noi uomini ci cadiamo spesso, specialmente quando vogliamo avere per forza ragione durante una discussione e scivoliamo nel litigio. La nostra bocca diventa un fiume in piena, che raccoglie qualsiasi idea e la butta fuori di getto. E così, sperando di sopraffare il nostro interlocutore con le nostre opinioni, cominciamo battaglie che producono divisioni e dolori, spesso sproporzionate e sicuramente ingiustificabili pensando alla vera causa del dissidio.

L’ultima sulla lista di Paolo è la parola volgare. 

Si tratta di parole sconvenienti, le parolacce, ma il significato può includere anche il concetto del sarcasmo. Il sarcasmo è definito come “una forma di ironia amara e pungente, volta a schernire o umiliare qualcuno o qualcosa. Può essere sottolineato anche attraverso particolari intonazioni della voce, enfatizzando così alcune parole o parti dell’affermazione.” 

La parola deriva dal greco antico, da sarkazein – mordersi le labbra per la rabbia – che a sua volta è una derivazione di sarx, carne. Sarcasmo letteralmente può essere reso con “tagliare un pezzo di carne da qualcuno”. È quindi sempre sconveniente, e non produce mai risultati che piacciono a Dio.

Tutti questi tipi di parole sono sconvenienti, dice Paolo. Sono inutili. Non vanno d’accordo con la nostra vita di cristiani, perché siamo imitatori di Dio. Non rappresentano né Cristo né Dio. Non sono amorevoli e di conseguenza contravvengono alla nostra responsabilità di amare Dio prima di tutto, e poi di amare il nostro prossimo come noi stessi.

Il versetto ci disarma da ogni giustificazione sull’usare male la nostra lingua. Quella parola puzzolente che pensavamo fosse arguta o buffa quando l’abbiamo detta, dovrebbe produrre invece cordoglio e tristezza, perché abbiamo offeso il nostro Dio.

La fucina nascosta

Dobbiamo però considerare un altro aspetto importante: il motivo per cui diciamo le cose, che sta dietro a tutto quello che esce dalla nostra bocca. 

La Bibbia parla della fabbrica dove si creano le parole: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore tira fuori il bene, e l’uomo malvagio dal malvagio tesoro del suo cuore tira fuori il male; perché dall’abbondanza del cuore parla la sua bocca” (Luca 6:45). La fabbrica delle nostre parole è il nostro cuore. 

Il problema è molto più grande e profondo di quello che vogliamo ammettere. Abbiamo un cuore malvagio e duro, un terreno fertile per pensieri malvagi che si traducono in parole.

Di conseguenza non si tratta solo di parole innocue, ma di espressioni di un cuore malato, che non è stato trasformato dalla Parola di Dio.

Gesù ha sempre sottolineato che le parole sono molto più importanti di quanto generalmente si pensi.

“Voi avete udito che fu detto agli antichi: «Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale»; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: «Raca» sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: «Pazzo!» sarà condannato alla geenna del fuoco. Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta” (Matteo 5:21-24).

Le cattive parole (anche quelle dette per scherzo) nascono da radici malvagie. Chiamare qualcuno pazzo ha radici che sorgono dal nostro disdegno, odio o risentimento per quella persona. Quelle, poi, dette contro un fratello distruggono la nostra relazione di comunione con Dio. Il Signore non ha nessun piacere nelle nostre offerte, nelle nostre eloquenti preghiere fino a che non abbiamo messo a posto le parole sconvenienti che abbiamo detto.

Gesù ha anche affermato che “ciò che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è quello che contamina l’uomo. Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni. Queste sono le cose che contaminano l’uomo; ma il mangiare con le mani non lavate non contamina l’uomo” (Matteo 15:18-20).

Le nostre parole ci contaminano, ci fanno diventare sporchi. 

È implicito che dobbiamo confessarle e chiedere perdono a Dio e a coloro ai quali le abbiamo rivolte.

Duemila anni fa gli uomini facevano il nostro stesso errore, cioè quello di dare più importanza alle azioni esteriori che alle proprie parole. Ma l’avvertimento di Dio è chiaro: “O fate l’albero buono e buono pure il suo frutto, o fate l’albero cattivo e cattivo pure il suo frutto; perché dal frutto si conosce l’albero. Razza di vipere, come potete dir cose buone, essendo malvagi? Poiché dall’abbondanza del cuore la bocca parla. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, e l’uomo malvagio dal suo malvagio tesoro trae cose malvagie. Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Gesù in Matteo 12:33-37).

È questa l’ipocrisia che l’apostolo Giacomo smaschera e denuncia parlando del cattivo uso della nostra lingua: “Con essa benediciamo il Signore e Padre; e con essa malediciamo gli uomini che sono fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca escono benedizioni e maledizioni. Fratelli miei, non dev’essere così. La sorgente getta forse dalla medesima apertura il dolce e l’amaro? Può forse, fratelli miei, un fico produrre olive, o una vite fichi? Neppure una sorgente salata può dare acqua dolce” (Giacomo 3:9-12).

Siamo un controsenso vivente:
> Crediamo in un Dio sovrano, ma ci lamentiamo delle circostanze.
> Crediamo in un Dio che perdona, ma noi non perdoniamo.
> Crediamo in un Dio creatore, ma malediciamo le sue creature.
> Crediamo in un Dio che provvede, ma siamo ansiosi del futuro.
> Crediamo in un Dio che ci conosce, ma rifiutiamo la sua guida.
> Crediamo che Dio può tutto, ma non può cambiare le persone.

Se ci sono attriti nei nostri rapporti con gli altri, ricordiamoci che, se continuiamo a essere superficiali nella nostra vita spirituale permettendo alla nostra lingua di esprimersi in modo incontrollato, creeremo ancora più pasticci.

Ricordiamoci anche che la gratitudine è il grande antidoto a un cuore che produce pensieri e parole malvagie, come scrive Paolo agli Efesini.

Un cuore grato produce parole buone.

Viviamo in un mondo dove abbondano l’ingratitudine e la ribellione verso Dio. Sono atteggiamenti che saturano ogni strato della società e si riscontrano nell’arte, nella politica, nell’educazione, nel governo. C’è il rischio che i credenti e la chiesa vengano sedotti da questi ragionamenti. Paolo, avverte: “Nessuno vi seduca con vani ragionamenti; infatti, è per queste cose che l’ira di Dio viene sugli uomini ribelli” (v. 6).

Non c’è dubbio che una persona grata a Dio non può contemporaneamente essere ribelle a Lui.

Le parole digitate

E c’è da dire ancora un’altra cosa sull’uso delle parole. Ormai non comunichiamo solo a voce, ma anche sui social, che da un lato offrono una preziosa possibilità di raggiungere persone che altrimenti non raggiungeremmo mai. Dall’altro, però, si prestano troppo facilmente a lasciare dichiarazioni e commenti assolutamente non in linea con la santità che si addice ai seguaci di Cristo.

Chi si definisce tale non deve lasciarsi andare a espressioni sconvenienti nemmeno sui social. Non facciamoci ingannare dal falso senso di libertà o dell’anonimato come se non dovremmo rendere conto al Signore di ogni parola scritta su internet. 

Nessun figlio di Dio deve proferire né scrivere parole sconvenienti che offendono Lui, le sue creature o la sua sovranità. Smettiamola di giustificare e accettare le nostre parole malvagie, perché provocano solo la sua giusta ira.

Quanti incendi abbiamo acceso nella nostra avventata superficialità!

Per evitare di ripetere lo stesso errore prendiamo sul serio l’ammonimento di Dio: “Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete qualcuna buona, che edifichi secondo il bisogno, ditela, affinché conferisca grazia a chi l’ascolta. Non rattristate lo Spirito Santo di Dio con il quale siete stati suggellati per il giorno della redenzione. Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Efesini 4:29-32).

Le nostre parole devono aiutare, edificare, promuovere la vita spirituale, evangelizzare i non credenti, spingere i fratelli verso la santificazione. 

Per essere così, devono essere sature della verità della Parola di Dio. “Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia” (2 Timoteo 3:16).

Le nostre parole devono essere appropriate, “secondo il bisogno,” cioè non solo buone e utili ma anche dette al momento giusto.

Le nostre parole devono portare grazia. Chi ci ascolta deve poter riconoscere la misericordia di Dio in quello che diciamo.

Prima di parlare facciamo pulizia nei nostri cuori.

Non sminuiamo le nostre parole né i motivi che ci spingono a dirle. Il Signore, di certo, non lo fa!

—Davide Standridge

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La VOCE maggio 2022

Oggi, come mai prima, la guerra è davanti ai nostri occhi. I mass media la portano nelle nostre case con una crudezza e con un realismo scioccante. Ci si spezza il cuore nel vedere uomini, donne e bambini che muoiono senza avere colpa, se non quella di essere nati in una certa nazione.

Il Nuovo Testamento aveva predetto che il mondo sarebbe stato colpito da guerre, terremoti, carestie e catastrofi sempre più gravi. Se da un lato questo è per il credente un segno del glorioso ritorno di Cristo, dall’altro è chiaro che le guerre e i terremoti producono molto dolore per tutti gli esseri umani.

Il Signore Gesù ci ha comandato di essere pronti per il suo ritorno. Un aspetto importantissimo di questa prontezza nel mondo in cui regna il male è essere dei testimoni della grazia di Dio, del suo perdono, della sua salvezza e del suo giudizio .

Lui vuole anche che siamo il “sale della terra”, in pratica che la nostra vita serva ad arginare ogni sorta di male che si manifesta intorno a noi.

In questo numero della VOCE ristampiamo un articolo pubblicato nel 1971 che è ancora molto attuale per noi mentre seguiamo gli ultimi sviluppi degli eventi mondiali. 

Davide Standridge

I doveri del credente in uno Stato moderno

Gli scrittori del Nuovo Testamento indicarono quali fossero gli obblighi dei cristiani verso le autorità costituite del loro tempo, cioè sotto una dittatura. Ma i principi da essi dettati sono ugualmente validi anche per i cittadini di una moderna democrazia. 

Quali sono dunque, le nostre responsabilità oggi? 

1. Il rispetto 

Nella sua lettera ai credenti di Roma Paolo ha scritto: “Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: … l’onore a chi l’onore” (Romani 13:7). E Pietro ha scritto: “Onorate il re” (1 Pietro 2:17). Rispettare il governo e i suoi rappresentanti significa prenderli sul serio – di solito più sul serio di quanto essi stessi non si prendano – come ministri di Dio (Romani 13:1) che devono rendere conto a Lui della responsabilità solenne che Egli ha data loro, e che perciò li riveste di grande dignità. 

Il rispetto spesso significa trattare con stima uomini che in loro stessi non sono rispettabili, per via della loro carica, senza per questo diventare servili e ipocriti. 

Questo rispetto non impedirà l’uso di qualsiasi mezzo legale e diritto che i cittadini abbiano per opporsi al governo, come Paolo che non mostrò disprezzo verso le autorità di Filippi, ma piuttosto dimostrò di rispettarle veramente, insistendo che facessero osservare i suoi diritti e perciò usassero l’autorità che era stata loro conferita (Atti 16:35 e segg.). 

E quando i capi e i loro agenti si comportano indegnamente e commettono ingiustizie, il rispetto comporterà, da parte di chi ne abbia il diritto, il rimprovero. 

Un esempio di questo è il rimprovero fatto da Giovanni Battista a Erode (Marco 6:18; Luca 3:19) sul quale Calvino commenta: “Da questo passo comprendiamo di quale coraggio fermo debbano essere armati i servi di Dio quando hanno a che fare con re e principi; poiché in quasi ogni corte prevalgono l’ipocrisia e l’adulazione. E siccome le orecchie dei principi sono state abituate a sentire sempre discorsi lusinghieri, esse non riescono a tollerare una voce che riprenda con severità uno qualsiasi dei loro vizi […] Giovanni così, col suo esempio, ha fornito un modello chiarissimo per ogni predicatore timorato di Dio, affinché non chiuda un occhio davanti ai peccati dei principi, in modo da ingraziarsene il favore, per quanto vantaggioso ciò possa sembrare.” 

2. L’ubbidienza, a meno che non comporti la disubbidienza a Dio 

È importantissimo comprendere che la parola upostàsesthai, usata da Paolo, che di solito significa ubbidire, in alcuni pochi casi, non lo significa affatto. 

In Tito 3:1 le parole “che siano sottomessi ai magistrati” sono seguite da “siano ubbidienti” (peitharchein). 

Il credente in Cristo ha l’obbligo di ubbidire al governo di cui è cittadino, ai suoi vari funzionari, e alle leggi finché queste non interferiscano con dei precisi ordini di Dio, come appare chiaro ad esempio dai passi di Atti 4:19 e 5:29 in cui gli apostoli e Pietro dissero chiaramente di dovere ubbidire a Dio anziché agli uomini. 

3. Il pagamento delle tasse 

Il testo base in cui è trattato il soggetto del tributo a Cesare è, ovviamente, Marco 12:13-17. 

In Romani 13:6 e segg. si legge: “È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio.” Il credente ha il dovere di pagare “l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore, l’onore a chi l’onore.” Infatti, egli beneficia di certi privilegi che lo Stato gli offre, della sua protezione e di certe agevolazioni. Perciò le sue tasse non sono altro che un contraccambio per ciò che riceve. 

Bisogna pagare le tasse, perché nessuno Stato può funzionare senza finanze. Rifiutare di pagare le tasse equivale, in pratica, a dire “no” allo Stato in quanto tale. 

4. La preghiera per coloro che sono in autorità 

Ecco che cosa insegnava Paolo a Timoteo: “Esorto dunque, prima di ogni altra cosa, che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono costituiti in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità. Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità” (1 Timoteo 2:1-4).  

Questa preghiera ardente, perseverante e fatta con fede è una parte essenziale del debito che ogni credente ha verso lo Stato, sia esso indifferente dal punto di vista religioso o antireligioso, giusto o ingiusto. 

5. La testimonianza per Cristo 

Una parte essenziale dei doveri di un cristiano verso lo Stato di cui è cittadino è quella di essere un buon testimone di Cristo, sia nella vita privata che in quella collettiva della chiesa. 

Spesso questa testimonianza comporterà sofferenza. A volte la morte. Cristo ha detto: “Badate a voi stessi! Vi consegneranno ai tribunali, sarete battuti nelle sinagoghe, sarete fatti comparire davanti a governatori e re, per causa mia, affinché ciò serva loro di testimonianza” (Marco 13:19). 

Questo è veramente il servizio essenziale che il credente deve allo Stato e ai suoi rappresentanti. Per mezzo di esso, egli testimonia di tre cose: la vera dignità dell’autorità conferita loro da Cristo, i limiti della loro autorità e le promesse alle quali sottostanno. 

Nei paragrafi precedenti sono stati elencati i cinque elementi che compongono la sottomissione del cristiano allo Stato e che sono chiaramente elencati nel Nuovo Testamento. Ma gli scrittori del Nuovo Testamento vivevano sotto una dittatura, durante la quale il cittadino non aveva alcuna possibilità di condividere le responsabilità del governo. Perciò è necessario trasferire ciò che essi hanno scritto nel nostro contesto moderno se vogliamo cercare di applicare le Scritture alla nostra esperienza senza torcerle. 

È chiaro da quanto detto sopra, che il cristiano che vive in una dittatura può solo cercare di mantenere lo Stato a un certo livello di giustizia. Il credente che vive sotto una democrazia può fare molto di più e ha l’obbligo di collaborare perché lo Stato sia giusto e sia mantenuto tale. Questa è una parte essenziale del suo dovere di essere soggetto alle autorità in carica. Se si rifiuta di farlo si rende colpevole di ribellione contro i principi dettati da Dio. 

Ecco, perciò, altri quattro obblighi che il credente sincero deve comprendere vivendo in uno Stato democratico.   

6. Una partecipazione seria e responsabile alle votazioni 

Il diritto di voto deve essere esercitato spinti dal timore di Cristo e dall’amore per il prossimo. Non votare significa rinunciare alla possibilità di mantenere uno Stato giusto o di migliorare uno Stato che possa essere governato meglio. Tuttavia, si potrebbero presentare delle circostanze in cui il credente dovrebbe astenersi dal voto. 

7. Uno sforzo attento e continuo di tenersi informato sulla politica e sugli avvenimenti del giorno 

Non si può votare in maniera coerente e consapevole senza una base di conoscenza adeguata. Naturalmente secondo il suo grado di cultura, ogni cittadino potrà informarsi più o meno. A volte alcuni si sentiranno addirittura costretti a seguire più canali d’informazioni aggiornandosi sui vari argomenti per mezzo di libri, di rapporti governativi ecc. 

8. Critica del governo, delle sue leggi e delle sue decisioni alla luce del vangelo e della legge di Dio 

Si è visto che, perfino sotto una dittatura, il cittadino non deve ubbidire ciecamente, ma deve usare discernimento. In uno Stato democratico questa possibilità è accresciuta e facilitata poiché è uno dei diritti precisi del cittadino. Perciò il credente dovrà continuamente valutare le azioni del governo alla luce della Parola di Dio. Per fare ciò, naturalmente avrà bisogno di una buona conoscenza della Bibbia e dei principi spirituali contenuti nelle Scritture. 

9. Per questo cercherà sempre di approvare e sostenere le decisioni giuste e umane del governo e si opporrà a quelle che non lo sono 

Per questo il credente farà bene a servirsi di ogni mezzo legale messo a sua disposizione dallo Stato per appoggiare certe decisioni o opporsi a esse. 

Si devono poi ricordare a questo punto due altri possibili elementi della sottomissione dovuta dal cristiano allo Stato, elementi molto discussi e fortemente controversi. Essi non possono essere esauriti in un breve paragrafo, perciò mi dovrò limitare a esprimere la mia personale opinione, comprendendo che ognuno deve seguire la propria coscienza senza però contravvenire ai chiari mandati biblici. 

10. Partecipare a azioni militari, in certe circostanze e entro certi limiti, in ubbidienza alle decisioni del governo 

Il Nuovo Testamento non fornisce in nessun punto una risposta precisa alla domanda che tormenta oggi tanti credenti: “Il vero credente deve rifiutare di partecipare a azioni militari?” 

Questo non deve sorprendere, perché i giudei del primo secolo non avevano alcun obbligo militare nell’Impero romano e perché, sebbene a volte le autorità dovessero ricorrere alla coscrizione obbligatoria, di solito avevano adeguate scorte di volontari per formare i loro eserciti. Tocca a noi, perciò, il compito di scoprire le risposte implicite date dal Nuovo Testamento, e questo è notoriamente molto difficile. 

Mi sembra – per quello che ora posso capire – che il fatto che il Nuovo Testamento descriva lo Stato come un’istituzione divina implichi anche l’ubbidienza nel servizio militare. Un “no” categorico mi sembra implicare anche categoricamente un “no” all’istituzione del governo. 

In Romani 13:4 Paolo dice chiaramente che l’uso della forza è una parte delle funzioni del governo. D’altra parte, nessun passo del Nuovo Testamento indica che si debba considerare la guerra come una normale attività dello Stato, e non vi è nessuna base biblica per accettare indiscriminatamente l’ordine di combattere e uccidere solo perché il governo ha preso la decisione di dichiarare una guerra. 

Il credente deve rifiutare di partecipare a azioni militari quando è convinto di essere usato per una causa ingiusta, o quando la sua coscienza glielo vieta.

11. Essere pronto, in certe circostanze, a partecipare a una ribellione armata per sopprimere un governo che sia intollerabilmente ingiusto 

Anche su questo punto il Nuovo Testamento non dice nulla di preciso. E neppure l’atteggiamento del nostro Signore riguardo agli zeloti, né Romani 13:2 risolvono la questione. 

L’opposizione del Signore agli zeloti non esclude la ribellione in qualsiasi possibile circostanza. 

È abbastanza facile comprendere perché gli zeloti non furono approvati: prima di tutto il governo romano non era così insopportabilmente ingiusto e, in secondo luogo, essi volevano stabilire il regno di Dio sulla terra. In terzo luogo, era facile prevedere che la rivolta sarebbe stata senza speranza di riuscita. 

Alla luce di Romani 13:2 dovremmo chiederci: “Sarebbe possibile che un governo diventi così ingiusto e così cattivo da non poter essere più considerato come un’autorità? Sarebbe giustificabile l’uso della forza per reprimere un tale governo?” 

Personalmente, e sottolineo la parola personalmente, non riesco a disapprovare l’azione di quei credenti tedeschi nel 1944 che attentarono alla vita di Hitler. Mi pare che un credente non prenda sul serio il suo governo e che venga meno ai suoi doveri di sottomissione presentati nel Nuovo Testamento, se non è pronto anche a usare la forza come estremo rimedio a un male estremo. 

Allora, che cosa insegna il Nuovo Testamento sull’atteggiamento che il credente deve avere nel cercare di adempiere alle sue responsabilità di cittadino? 

Mi pare che si debbano dire essenzialmente tre cose: 

  • l) Il credente deve cercare di adempiere i suoi doveri con serietà e impegno in quanto doveri impostigli direttamente da Dio. Essi sono una parte del suo obbligo di amare Dio e il suo prossimo e perciò non sono facoltativi, ma categorici. 
  • 2) Egli deve anche cercare di adempiere i suoi doveri di cittadino con sobrietà e realismo. 

Per questo dovrà tenere conto di ciò che il Nuovo Testamento insegna. Infatti dovrà sempre tenere presente che lo Stato è passeggero e temporaneo. Perciò non dovrà attribuire a esso un valore maggiore di quello che ha. 

Dovrà ricordare anche che la chiesa non potrà mai stabilire il regno di Dio sulla terra con i suoi sforzi morali e neanche con quelli spirituali. 

Non dovrà mai dimenticare neppure la realtà tragica del peccato che investe ogni uomo e che spinge ognuno ad approfittarsi e a sfruttare il suo simile. Il credente, perciò, dovrà sempre ricordare che governanti, funzionari, impiegati, amministratori sono peccatori in qualsiasi nazione si trovino. Perciò sarà pronto a riconoscere e a valutare ogni abuso e cercherà di vedere la realtà dietro agli slogan altisonanti. Egli poi farà attenzione a non sostenere mai un partito che, andando al potere, finirebbe con l’opprimere e impedire l’espressione dei propri diritti a un segmento della popolazione.

Conoscendo il Nuovo Testamento e ciò che esso predice, il credente sarà conscio delle limitazioni di ogni sforzo politico umano. Perciò potrà rallegrarsi anche quando scopi limitati saranno stati raggiunti. Spesso, al cristiano, rimarrà solo la scelta fra il minore di due mali. Ma a volte è molto importante che il minore di essi si avveri anziché il maggiore. 

Con lo stesso realismo, il credente saprà che non potrà mai vedere stabilirsi sulla terra una società perfetta, ma contribuirà affinché almeno una società limitatamente giusta venga stabilita nel suo paese. 

Infine, con lo stesso realismo, comprenderà che ogni governo ha lo scopo di proteggere una sua popolazione composta di uomini, donne e bambini per i quali 

Cristo è morto. Sentirà la responsabilità di interessarsi di coloro che sono oppressi in altri paesi e di coloro che soffrono nel suo. Terrà sempre conto che la vita umana è sacra e, in tempo di guerra, non dimenticherà che anche le vite dei nemici hanno grande valore. 

  • 3) Infine, il credente dovrà adempiere ai suoi doveri di cittadino con fiducia e speranza. 

Sapendo che Dio ha stabilito e istituito le autorità, saprà anche che esse sono controllate, in ultima analisi, da Dio. Esse perciò, volenti o nolenti, consciamente o inconsciamente, direttamente o indirettamente saranno usate da Dio per adempiere i suoi piani. Il credente terrà sempre presente l’esempio biblico di Pilato, il quale pure essendo pagano e indifferente alla volontà di Dio, con la sua decisione collaborò allo svolgimento del piano di Dio per la redenzione dell’umanità. 

Il credente comprenderà poi che, passando dal piano religioso a quello politico, non cambia Signore. Cristo è tanto Signore della chiesa quanto del mondo sebbene la sua signoria si manifesti in maniera diversa in queste due sfere. Perciò servendo Dio sia nell’una che nell’altra, sentirà tutto il peso della sua responsabilità di testimone di Cristo. 

Infine il vero credente saprà che il fine verso il quale si muove la storia è la venuta del Signore Gesù Cristo, il quale un giorno stabilirà in maniera decisiva, assoluta e senza compromessi il Regno di Dio e il suo ordine. In questo avvenimento egli vede non solo i limiti dei governi umani, ma anche le promesse che li riguardano. 

Infatti verrà il momento in cui “la voce di una gran folla e come il fragore di grandi acque e come il rombo di forti tuoni” dirà: “«Alleluia! Perché il Signore, Dio, l’Onnipotente, ha stabilito il suo regno… Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra vi porteranno la loro gloria” (Apocalisse 19:6, 21:24).

—C.B.C.

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La VOCE aprile 2022

 

Negli anni ho visitato molte chiese e ho conosciuto credenti in diverse parti del mondo. Entrati un po’ più in confidenza, alcuni mi hanno confessato il proprio risentimento verso la loro assemblea. La cosa strana, a prescindere se la comunità che frequentavano fosse grande o piccola, progressista o tradizionalista, l’accusa era sempre la stessa: in questa chiesa non c’è amore! 

A volte era una sola persona a essere arrabbiata, ma altre volte lo erano intere famiglie o gruppi coalizzati contro qualcuno o qualcosa che non andava nella chiesa. 

Uno sdegno e un disprezzo che nel tempo hanno consumato queste persone, portandole al punto di scagliare le loro pesanti accuse e andar via dalla chiesa sbattendo la porta. Non hanno mai dato agli accusati possibilità di difesa: processo terminato e verdetto sentenziato! E alla fine hanno tagliato ogni contatto con i fratelli. In molti casi hanno agito senza un confronto aperto con le guide della chiesa, ritenute le prime colpevoli. 

Chi lascia la propria comunità in questo modo non è quasi mai disposto a mettersi in discussione né si chiede quanto amore abbia sparso lui nella vita di chiesa. E ciò è molto triste.

È facile accusare gli altri della mancanza d’amore nei nostri confronti ma, in fin dei conti, sappiamo davvero cosa significa amarsi nella chiesa? 

Come posso misurare l’amore dei fratelli per me? Centra forse il bisogno di sentirmi considerato e importante, oppure voglio solo che si facciano le cose come voglio io?

Gesù ha detto: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

È un bel trampolino di lancio questo versetto! Sta dicendo, senza mezzi termini, che il mondo ostile che ci giudica, ci riconoscerà discepoli di Cristo dal modo in cui ci amiamo tra fratelli. 

Ma le parole di Gesù dovrebbero far riflettere anche noi aiutandoci a esaminarci: credo in Gesù? Sono un suo discepolo? Frequento una chiesa di discepoli? Qual è la mia caratteristica più evidente? E quella della mia chiesa?

L’apostolo Giovanni, che nel suo Vangelo è presentato come il discepolo che Gesù amava, ha scritto sotto ispirazione dello Spirito Santo uno dei versetti più belli sull’amore di Dio: “Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16). 

Sono parole che hanno attirato migliaia di persone a Dio, e sono tanto care ai credenti. 

D’altro canto, Giovanni ha anche scritto: “Chi dice: «Io l’ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo. Da questo conosciamo che siamo in lui: chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò (1 Giovanni 2:4-6).

Un discepolo deve camminare come ha camminato il suo maestro Gesù! 

La chiesa locale dovrebbe essere formata da individui che credono col cuore alla Parola di Dio e sono imitatori genuini di Cristo. Ma non è sempre così. Non tutti quelli che si professano cristiani sono salvati, e non tutti quelli che dicono di essersi convertiti vivono in sottomissione alla signoria di Cristo. 

A volte la colpa è della predicazione poco chiara sul fatto che Gesù è il Signore e che noi credenti siamo suoi servi (leggi schiavi). Messaggi superficiali tendono a produrre più simpatizzanti che conversioni. Ma un messaggio che non predica pentimento, ubbidienza e consacrazione non è un messaggio biblico. 

Se tutti i credenti camminassero come Gesù, le chiese sarebbero il fulcro dell’amore sulla terra. Ogni chiesa locale sarebbe un’oasi d’amore, totalmente diversa da tutto quello che il mondo offre.

A complicare tutto è il fatto che ogni credente si trova a un punto diverso di maturità, sia spirituale che caratteriale. Non siamo quindi sempre amabili, portiamo ancora con noi mentalità e modi di fare che non piacciono a Dio e che dovremmo abbandonare. Siamo spesso orgogliosi, permalosi, egocentrici e poco amorevoli. È un problema che riguarda tutti, e che non si risolve in un istante. 

Da un certo punto di vista, dire che c’è poco amore nelle chiese è vero, dato che sono formate da persone propense al peccato. Ma non possiamo usarlo come un pretesto per continuare nella nostra carnalità.

Dio ci ha destinati a essere simili al suo Figlio anche nei nostri affetti, nelle ambizioni e negli atteggiamenti. 

L’apostolo Paolo ci ricorda com’è l’amore di Cristo che noi dobbiamo imitare:

“Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione” (Romani 5:6-11).

Gesù non cercava persone facili da amare. Noi, forse, proviamo empatia e pietà davanti a scene di sofferenza, dove vediamo vittime o persone che hanno bisogno di aiuto. Ma il suo era un amore mirato, era verso persone cattive, indegne, incapaci di fare il bene. Quelle che avrebbero reagito male a ogni suo gesto e parola tradendolo e rifiutando l’amore vero e compassionevole di Dio.

Qualsiasi giustificazione alla nostra mancanza d’amore nella chiesa è invalidata dall’obbligo che abbiamo di imitare l’amore di Gesù. 

Non abbiamo alternative, perché le parole di Cristo sono chiare e perentorie:

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio. Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga; affinché tutto quello che chiederete al Padre, nel mio nome, egli ve lo dia. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Giovanni 15:12-17).

Gesù ci ha scelti e ci ha amati quando non eravamo amabili. Ci chiama suoi amici e ci comanda di amarci gli uni gli altri. Amare Gesù implica che dobbiamo ubbidire a questo suo comando: amarci gli uni gli altri.

A questo punto dovremmo chiederci se siamo veramente pronti a ubbidire a Gesù in tutto.

La risposta per me non è complicata, ma è difficile da applicare quando penso al comando “devo amare i fratelli”! 

Non posso sbattere la porta e andarmene con aria altezzosa come giudice degli altri credenti. Anzi, se lo faccio, do prova della mia stessa incapacità di amare, il ché mi squalifica automaticamente dal giudizio veritiero sullo stato spirituale della mia chiesa.

Siamo amici di Gesù, ovvero suoi discepoli se facciamo le cose che Lui ci comanda e il suo comando è di amare i fratelli nella fede. Non ne possiamo fare a meno. 

Ma cosa significa in pratica amare i credenti? 

Vuol dire salutarli con piacere e baciarli quando si entra in sala? Oggi il Covid l’ha reso impossibile. 

Vuol dire invitarci a casa a turno? I due anni di pandemia ci hanno disabituati anche a quello! A essere onesti, già da prima non si vedeva molta ospitalità tra le famiglie, schiacciate dagli impegni e dalle responsabilità fuori e dentro casa — e le porte di alcune case sono rimaste ermeticamente chiuse. 

Ognuno ha una sua idea su come l’amore debba essere espresso in una chiesa, ma quello che conta, però, è la spiegazione che dà Dio su come fare.

“L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno” (1 Corinzi 13:4-8).

Questa è la definizione di questo amore, ed è importante notare che riguarda esclusivamente il nostro atteggiamento verso le persone davanti a noi. Non importa come sono, conta piuttosto il modo in cui le avviciniamo, cosa pensiamo di loro, il modo in cui camminiamo accanto a loro. 

Questo passo non è la nostra cartina tornasole per giudicare l’amore degli altri e promuoverli o bocciarli, ma ci serve per valutare il nostro amore, i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti. Effettivamente il problema grande non sono gli altri, ma siamo noi!

Quante volte abbiamo sbattuto la porta dentro di noi, nel nostro intimo, senza uscire dalla sala.

Delusi dall’atteggiamento nei nostri confronti, pensiamo di “amare” gli altri più di quanto loro amino noi. Ci mostriamo cordiali, ma lo facciamo a denti stretti e per pura formalità “evangelica”. 

Il Signore ci chiama a ravvederci e a esaminare i nostri cuori. 

Il problema più grande risiede proprio negli atteggiamenti, e non nelle azioni. Quando impariamo ad amare come Cristo ci ama, anche le nostre azioni saranno pure.

Questo non vuol dire che amare i credenti diventerà facile. E può essere pericoloso ignorare questa dura realtà. Se amare non fosse difficile non servirebbero tanti versetti che ne parlano. 

La difficoltà persiste perché siamo limitati e perché non tutti siamo amabili.

Paolo ci ricorda: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Filippesi 2:2-4).

Scrive ancora agli Efesini: “Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti” (Efesini 4:1-6).

Alla chiesa di Colosse dice ancora: “Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione” (Colossesi 3:12-14).

È evidente quanto dobbiamo ancora lavorare con l’aiuto di Dio su noi stessi. 

Il nostro carattere deve essere trasformato, le reazioni carnali devono sparire e devono essere rimpiazzate da quelle bibliche, che piacciono a Dio e lo onorano, che riflettono il nostro cammino nelle orme di Cristo.

Dio deve sviluppare in noi tutte quelle virtù che Paolo elenca nell’ultimo passo citato, perché spesso le persone, già difficili da amare, a loro volta non ci amano come dovrebbero. Che bisogno ci sarebbe di essere pazienti, misericordiosi, benevolenti e pronti a perdonare se non esistessero credenti difficili, se nessuno ci facesse dei torti?

Prendiamo, per esempio, il perdono. A tutti piace essere perdonati. Ogni volta che confessiamo i nostri peccati a Dio ci aspettiamo che Lui ci perdoni. Ci aspettiamo di essere perdonati anche per le offese che non ricordiamo e di cui non abbiamo coscienza, perché Gesù è morto per tutti i nostri peccati, passati, presenti e futuri. Ci aspettiamo di essere perdonati persino dei peccati che continuiamo a ripetere, quelli che in qualche modo abbiamo accettato come facenti parte del nostro carattere di cui non possiamo fare nulla. Da Dio ci aspettiamo un perdono continuo, ma quando tocca a noi…

Eppure, perdonare è indispensabile se si vuole avere un rapporto duraturo con qualcuno. Lo stesso vale per le nostre relazioni in chiesa che vanno protette.

Ma c’è anche un altro elemento fondamentale senza il quale non si può essere perfetti nell’amore. Lo troviamo nelle parole di Giovanni: “ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo” (1 Giovanni 2:5).

Non puoi essere un discepolo di Cristo senza conoscere la Parola di Dio e senza desiderare di metterla in pratica. Amare la chiesa comincia con l’ascoltare e osservare la Parola di Dio, perché le sacre Scritture producono nel vero discepolo un profondo desiderio di assomigliare a Cristo.

L’apostolo Paolo ha testimoniato: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte” (Filippesi 3:7-10).

Per il vero credente diventare come Cristo non è un vago desiderio irraggiungibile, ma una priorità assoluta. Solo chi è trasformato dalla Parola di Dio può veramente amare, può veramente essere usato da Dio.

È giusto farsi delle domande a questo punto:

  • Leggo la Parola di Dio regolarmente, e cerco di capire sempre meglio quale sia la volontà di Dio per me?
  • Per me è una priorità frequentare le riunioni della chiesa dove la Parola di Dio è insegnata accuratamente? Forse ci sono delle chiese che dovrebbero essere lasciate non per mancanza d’amore, ma per mancanza di un insegnamento sano!
  • Cosa faccio per ricordarmi quello che ascolto o leggo nella Parola di Dio per metterla in pratica? La lettera di Giacomo avverte che chi ascolta soltanto, senza che qualcosa cambi in lui, è un illuso. Illuso anche riguardo a cosa vuol dire amare ed essere amati.
  • Leggo dei buoni libri che mi aiutano nella mia crescita spirituale?

La mia capacità di amare è legata proporzionalmente alla mia disciplina nel diventare sempre più simile a Cristo: più tendo a questo obiettivo, più sarò capace di amare.

La Bibbia parla di fare del bene a tutti, ma specialmente a coloro che sono della famiglia di Dio. La chiesa è formata da persone molto diverse fra loro, adulti, bambini, anziani, persone singole, adolescenti, di diverse culture, etnie e anche di diverse possibilità economiche. Tutti questi individui, che normalmente nel mondo non avrebbero nulla in comune, sono unti soprannaturalmente da Dio stesso. Tutti i credenti fanno parte di un solo corpo, hanno un solo Spirito, hanno una sola mèta, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo e un solo Dio e Padre (Efesini 4:4,5).

Amarsi nella chiesa vuol dire prima di tutto curarsi spiritualmente a vicenda. La Parola di Dio afferma che lo Spirito Santo dà a tutti i credenti nella chiesa uno o più doni per la crescita spirituale degli altri (1 Corinzi 12 e Romani 12). Non solo Dio dà dei doni, ma ha già preparato le buone opere per ogni credente. In altre parole, il modo per eccellenza di amare i credenti nella chiesa sta nell’usare i doni che Dio ha dato per il beneficio e la crescita spirituale dei credenti. 

A volte nelle chiese i credenti affermano di non conoscere i loro doni, il che fa capire che non li stanno usando. Altri si sono convinti che se hanno un dono è solo per la loro crescita personale. Ma Pietro afferma sotto ispirazione di Dio: “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri. Se uno parla, lo faccia come si annunciano gli oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (1 Pietro 4:10-11).

Quando nelle chiese non si vede l’amore di Dio all’opera, non sarà forse perché i credenti sono troppo pigri nell’usare i doni che il Signore gli ha dato per la cura reciproca?

Una chiesa sana è formata da credenti veri che crescono nella conoscenza della Parola di Dio, che sono assidui nel diventare sempre più simili a Cristo, aiutandosi a vicenda. E quando ci sono problemi si affrettano a metterli a posto per non avere nulla che possa minare l’unità del corpo di Cristo.

In conclusione, la prossima volta che cominci a pensare che nella tua chiesa non c’è amore, prima di tutto esamina la tua vita. Stai amando bene, con lo stesso zelo e atteggiamento con cui Gesù ha amato te? Sei pronto a soffrire come ha sofferto lui per te? Probabilmente dovrai rivalutare le tue reazioni.

La tua chiesa dimostra un amore per la parola di Dio nell’insegnarla e applicarla con accuratezza? Se la risposta è sì, fidati dell’opera di Dio nella vita dei fratelli. 

Davide Standridge

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La VOCE marzo 2022

È difficile pensare a un aspetto della nostra vita che non sia stato influenzato in qualche misura dal coronavirus. Molte attività che davamo per scontate sono state sospese o rese più difficili da svolgere. Una di queste è l’evangelizzazione. Per paura di essere esposti a un possibile contagio, ci siamo abituati a limitare i contatti all’indispensabile, soprattutto con gli estranei, con meno possibilità di parlare di argomenti più profondi con chi non ci conosce. 

Il nostro approccio è cambiato, ma la realtà che le persone senza Cristo continuano a morire e ad andare all’inferno è sempre la stessa.

Pensando a questo calo di contatti con la gente, non posso fare a meno di ricordare le parole di Paolo: “Io sono debitore verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti; così, per quanto dipende da me, sono pronto ad annunciare il vangelo anche a voi che siete a Roma” (Romani 1:14,15).

Qui Paolo usa un termine forte: dice che è un debitore. Il vocabolario definisce il debitore colui che “è tenuto a dare o a fare qualcosa a qualcuno; con definizione più tecnica, in diritto, il soggetto passivo del rapporto obbligatorio, tenuto, in quanto tale, ad adempiere una prestazione in favore del soggetto attivo creditore.” L’idea è espressa in modo piuttosto complicato, ma il concetto è semplice: il debitore deve dare o fare qualcosa per saldare il suo debito.

Paolo si riteneva in debito verso chi non conosceva Dio. Ora dobbiamo chiederci se questo suo debito sia dovuto anche da tutti gli altri credenti, o se solo lui – e qualcun altro con una “chiamata” particolare – fosse l’unico ad avere il compito di evangelizzare, considerandolo un vero debito. La nostra risposta a questa domanda ci accusa o ci scusa.

Se non è un debito vero e proprio, ma qualcosa che è bene fare quando si può, non abbiamo altra responsabilità che cogliere l’occasione quando si presenta (cioè raramente) e di dire una frase o due sulla nostra fede.

Spesso questo si traduce in poche parole ingarbugliate in gergo “evangelichese” che per il credente possono avere un grande significato, ma restano incomprensibili per chi credente non lo è. 

Essendo come siamo distratti dalle responsabilità varie e dalle faccende quotidiane, tendiamo a pensare sempre meno a come testimoniare di Cristo a chi non lo conosce. A volte anche le attività di chiesa sembrano soffocare (di certo non intenzionalmente!) anziché spronare le iniziative che mirano a sensibilizzare il credente all’evangelizzazione. Il fatto è che questi due anni hanno messo ostacoli che sembrano insormontabili. 

L’apostolo Paolo scrive: 

“infatti l’amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così. Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove. E tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Infatti Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe, e ha messo in noi la parola della riconciliazione. Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio. Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2 Corinzi 5:14-21).

Una delle prime frasi, infatti, che impara a memoria chi si converte è quella espressa nel passo di sopra: “Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove.” Sono parole belle e vere, ma cosa vogliono dire? Cosa vuol dire essere diventati nuove creature, essere cioè veri cristiani? E cosa significa che le cose vecchie sono passate?

Significa anzitutto che la nostra natura è cambiata, e che anche il nostro destino eterno è cambiato. Ma il contesto nel discorso di Paolo mette in evidenza che è cambiato anche il nostro compito. 

Proprio perché siamo stati cambiati abbiamo ricevuto nuove responsabilità. 

Credere in ciò che Gesù ha fatto morendo e risuscitando ci costringe a cambiare il nostro modo di vivere, come vediamo le persone intorno a noi e di conseguenza come percepiamo il nostro nuovo compito.

L’amore di Cristo ci costringe. È impensabile che dopo aver conosciuto l’incredibile, immeritato e immenso amore di Dio siamo rimasti nello stato in cui eravamo prima. 

La nostra gratitudine per essere stati perdonati e salvati dall’inferno ci spinge a volere servire il Salvatore, e a obbedire a Cristo che è ora il nostro Signore. 

Dio in Cristo, avendoci amati da prima della fondazione del mondo, ci ha comprati a un prezzo altissimo e incalcolabile. È morto per riconciliarci con sé, e noi dobbiamo morire a noi stessi. Significa che non possiamo più vivere nell’egoismo per appagare unicamente i nostri desideri e le nostre concupiscenze. Siamo nuove creature, create per servire Cristo, non per vivere per noi stessi.

Ma che significa praticamente servire il Signore e vivere per Lui?

La risposta è sorprendentemente semplice. Ti ricordi in che modo sei arrivato a conoscere il vangelo e alla fede in Cristo? Qualcuno si è avvicinato a te e ti ha spiegato la gravità del tuo peccato, per il quale eri destinato a subire l’ira di Dio nell’inferno. Ti ha fatto capire che la tua situazione era disperata perché non potevi salvarti da solo, e che c’era un’unica soluzione per il tuo problema. 

Ti ricordi come ti sei sentito? È proprio così che dovremmo vedere le persone intorno a noi: pecore perdute senza pastore, disperate e senza speranza.

Dato che tutti gli esseri umani si trovano nella stessa condizione di essere sotto l’ira di Dio, Paolo scrive che il compito di spiegare alle persone come essere riconciliati con Dio, ci è stato affidato da Dio stesso. 

Ti rendi conto che il tuo compito primario è essere testimone di Cristo? E che Dio ha scelto di usare noi per parlare alle persone? Nulla di scontato o normale, piuttosto di grande peso: in definitiva, noi dobbiamo essere la voce di Dio nel mondo! 

Abbiamo cambiato lavoro dal giorno della nostra conversione, ora siamo ambasciatori! 

È chiaro che se la nostra professione è fare l’insegnante, continueremo a farlo, se siamo impiegati o operai, studenti, casalinghe, disoccupati o pensionati, continueremo a svolgere le nostre mansioni, ma facendo allo stesso tempo da ambasciatori di Dio. 

È importante che la nostra condotta sia impeccabile, ma non è sufficiente: dobbiamo usare anche le parole perché, come dice Paolo, dobbiamo supplicare le persone.

Supplicare qualcuno, infatti è tutta un’altra cosa che dire due frasi in gergo evangelico (che forse capiamo solo noi). Non lo si fa di sfuggita, nemmeno improvvisando. 

Supplicare è implorare, chiedere fervidamente, scongiurare. Richiede sforzo e impegno. Non lascia spazio allo scoraggiamento, e non si può essere sbrigativi nello svolgere questo compito. Se Gesù stesso è “diventato peccato per noi”, come ricambiare quello che Lui ha fatto se non con il nostro impegno più grande?

Tornando alla mia domanda iniziale, e cioè se anche noi siamo debitori come Paolo verso i non credenti, la risposta ce l’ha data lui stesso nel passo che abbiamo esaminato: anche noi siamo in debito perché qualcuno a sua volta ci ha parlato di Cristo.

Non importa se ci sentiamo in debito o meno; resta il fatto che Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Cominciamo quindi a pensare ai nostri famigliari, ai nostri vicini, ai nostri colleghi, ai nostri concittadini e a come sdebitarci con loro.

Ti sei mai chiesto come poteva resistere Paolo andando di città in città ed essere battuto, imprigionato, lapidato? Come ha fatto a passare tutta la sua vita soffrendo per portare avanti il suo compito? Lui scrive: “Ecco perché sopporto ogni cosa per amor degli eletti, affinché anch’essi conseguano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna” (2 Timoteo 2:10). Egli aveva preso seriamente il suo debito. Era pronto a sopportare ogni cosa per supplicare le persone a convertirsi.

Oggi, 2000 anni più tardi, come abbiamo preso noi il nostro debito? Fino a che punto siamo pronti a sopportare le difficoltà e a superare gli ostacoli?

La pandemia e le restrizioni varie hanno reso il nostro compito più difficile, ma non hanno estinto il nostro debito. Ognuno di noi deve riflettere personalmente su come pagare il proprio.

Senza dubbio si comincia col pregare che Dio ci offra delle opportunità per parlare di Lui. E noi dobbiamo essere attenti e pronti alle occasioni che Dio senz’altro ci darà. Ma dobbiamo avere delle strategie per agire saggiamente nelle situazioni che viviamo.

Soltanto parole?

Come tutti gli anni, anche questa volta abbiamo preparato un opuscolo evangelistico dal titolo SOLTANTO PAROLE?, che puoi leggere CLICCANDO QUI. La nostra preghiera è che sia uno strumento che tu possa usare per portare il messaggio del vangelo alle persone intorno a te.

Puoi ordinare copie personalizzate per te o per la tua chiesa, con il vostro indirizzo e con il messaggio personalizzato che ci indicherai. Vedi le informazioni su quantitativi e prezzi, e su come fare l’ordine, alla quarta pagina dell’opuscolo stesso!

E proprio per le circostanze che stiamo vivendo, abbiamo preparato anche una versione digitale dell’opuscolo che può essere inviata tramite WhatsApp. È gratuita, ma non personalizzabile. Puoi farne richiesta scrivendoci a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. e indicandoci il tuo numero di cellulare dove vuoi che te la inviamo. 

Ormai facciamo tutti parte di chat e gruppi sui nostri smart-phone, e questo potrebbe essere un ottimo strumento per aiutarti a parlare della tua fede. Non costa nulla, se non un po’ di tempo.

Tanti credenti agguerriti postano le loro opinioni appassionate sulle circostanze attuali. Che il Signore ci aiuti a riflettere e a essere saggi in quello che pubblichiamo sui social. Che possa insegnarci a usare il tempo e ogni mezzo a nostra disposizione per parlare del messaggio più importante che esiste!

Davide Standridge

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La VOCE febbraio 2022

Tanto di cappello a papà!

Questo mese mio papà, Guglielmo Stand-ridge, avrebbe compiuto 95 anni. Ormai è da due anni col Signore, ma l’influenza che ha avuto sulla mia formazione come uomo la sento ancora.

Papà era venuto in Italia per fare il missionario nel 1949, subito dopo la guerra. Aveva lasciato tutto quello che aveva conosciuto fino ad allora: la famiglia, gli amici, il paese dove era cresciuto, la sua cultura e la prospettiva di un lavoro redditizio con la laurea che aveva conseguito. 

Senza conoscere nessuno in Italia, e non conoscendo l’italiano, era partito su una nave che in due settimane lo portò a Napoli. Solo una cosa sapeva: gli italiani avevano bisogno di ascoltare il messaggio del vangelo, quel messaggio che cambia la vita.

Il suo era un biglietto di sola andata: tornare indietro sarebbe stato difficile, e l’unico modo per comunicare con la famiglia era attraverso lettere che arrivavano a destinazione dopo settimane.

Oggi è diverso. 

Per venire in Italia basta un volo, e grazie a internet i missionari moderni si fanno già una idea realistica su ciò che li aspetterà. Il distacco è vissuto in modo meno traumatico e drastico. I contatti con la famiglia, gli amici e la chiesa non sono interrotti  grazie alle video-chiamate. 

La distanza è sempre la stessa, ma le comunicazioni e la possibilità di tornare indietro esistono e sono molto più veloci e realizzabili. 

Su molti aspetti la vita in generale oggi è più agevole ma, riflettendo sull’esperienza di papà, mi chiedo se il prezzo che si paga dedicandosi totalmente alla missione oggi sia meno alto di allora.

Da lui ho imparato molto su una vita al servizio del Signore.

Alla domanda sul perché avesse scelto proprio l’Italia, papà raccontava che intorno ai 14 o 15 anni di età era molto ribelle, non gli interessavano le cose spirituali, aveva una fidanzatina e non desiderava altro che una vita comoda. Ma poi Dio era intervenuto nel suo cuore attraverso alcune predicazioni e delle letture bibliche, e questo lo aveva portato a cambiare i suoi obiettivi.  

Era sicurissimo che non avrebbe mai fatto il missionario; eppure, soltanto qualche anno dopo aveva già deciso di andare in missione in Africa, per poi cambiare destinazione e approdare in Italia, un paese ugualmente sconosciuto per lui.

Il Dio che era intervenuto per cambiare ciò che era nel suo cuore da adolescente è lo stesso che lo ha accompagnato per tutta la sua vita, e Guglielmo lo ha servito con fedeltà nei momenti facili ma specialmente in quelli difficili.

Dopo aver fatto il missionario per oltre settant’anni, papà è morto durante questa  attuale difficile fase della storia umana, segnata dalla pandemia mondiale che ha reso complicato tutto ciò che davamo per scontato.  

Rinchiuso in una struttura medica a Milano, interdetta alle visite a causa del covid, nessuno dei suoi figli ha potuto stargli accanto durante i suoi ultimi giorni.

Alla sua sepoltura eravamo presenti solo mia moglie e io, perché erano vietati gli assembramenti quindi non abbiamo potuto celebrare un funerale in sua memoria insieme a tutti quelli che lo avevano conosciuto e amato.

Nonostante queste circostanze avverse, la sua vita sulla terra è terminata con le stesse certezze che lo avevano accompagnato su quella nave che lo aveva portato la prima volta in Italia. Ed erano le stesse certezze che lo hanno tenuto saldo tutti questi anni. 

Ultimamente mi è capitata fra le mani la sua Bibbia personale e il libro di meditazioni sui salmi che avevo scritto in inglese che gli avevo regalato.

Papà lo aveva letto e riletto tante volte, sottolineando molte frasi e scrivendo le sue note a margine. Sfogliandolo, ho trovato suoi commenti su quasi ogni pagina. 

Nel capitolo sul Salmo 62:5-7 aveva sottolineato alcune parole chiave del brano:

5 Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza.
6 Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.
7 Dio è la mia salvezza e la mia gloria; la mia forte rocca e il mio rifugio sono in Dio.

Ha sottolineato anche una parte del mio commento:

Ognuno di noi ha vissuto delle sconfitte. Forse ti stai chiedendo in questo momento come si fa a tenere sotto controllo cuore e sentimenti. Il Signore, attraverso questo salmo, ci invita a pensare a Lui, a distogliere lo sguardo dalle persone e dalle circostanze.

Com’è ovvio, papà non ha imparato queste verità dal mio libro sui Salmi, ma  leggendo assiduamente la sua Bibbia e camminando giorno per giorno con il Signore, sia in tempi facili che in quelli difficili.

 

Sapevamo che l’ultimo anno per papà era stato particolarmente difficile, ma non si era mai lamentato della struttura dov’era. Noi figli cercavamo di visitarlo il più possibile, specialmente Daniele che viveva vicino a Milano lo andava a trovare tutti i giorni. Ma dopo tutta una vita – dopo anni di servizio per il Signore, di predicazioni e di tante persone che aveva conosciuto – alla fine le parole del Salmo 62 erano molto reali per lui.

Dio era veramente il suo rifugio, la sua rocca. 

La certezza che Dio fosse la sua salvezza sicura ed eterna lo aveva spinto a venire in Italia per portare lo stesso messaggio a un popolo che parlava anch’esso di Dio e della fede, ma senza alcuna certezza concreta.

 

Papà aveva una relazione vera e personale con Dio. Era un uomo di altri tempi, cresciuto in un periodo in cui dimostrazioni pubbliche d’affetto non erano viste di buon occhio. Infatti dubito che suo padre lo avesse mai abbracciato o baciato. L’amore si affermava con la fedeltà, la cura e la presenza. 

Ma quando siamo nati il mio gemello e io, so che papà ha dovuto aiutare nostra mamma. Ci cambiava il pannolino e ci dava il biberon più di quanto abbiano fatto tanti altri padri dell’epoca. Sicuramente più di quanto suo padre avesse fatto con lui.

A me piaceva tenere per mano mio papà. Ricordo che quando una volta (ero grande ormai) per strada gli presi la mano, lui me lo permise con una certa titubanza, ma tenne la presa lo stesso. Io l’avevo fatto perché ero fiero di lui e volevo che tutti sapessero che ero suo figlio. 

Anche mio padre ha vissuto tutta la sua vita fiero di essere figlio di Dio, coraggioso nel proclamare il suo Signore, attento nell’onorarlo, sicuro della sua cura.

Con questa fierezza lo ha servito in tanti modi. Andava in piazza a predicare il vangelo. Predicava sotto le tende di evangelizzazione, e per lui era un onore. Si preparava sempre con cura per esporre la Parola di Dio la domenica e durante i convegni. Visitava le persone che avevano bisogno di essere incoraggiate, e per lui era una gioia.

 

Nel tempo ho potuto osservare da vicino la sua dedizione al Signore. La cosa che mi colpisce di più è che lui e mamma non si lamentavano mai. Sono sicuro che si stancavano anche loro, e parecchio, e papà soffriva pure di emicranie, ma non lasciava che le circostanze bloccassero il suo servizio. Dio era realmente il suo rifugio. 

Spesso era rattristato dai litigi e dalle divisioni tra credenti, dalla durezza con cui alcuni trattavano gli altri fratelli in fede. Aveva le sue convinzioni che non tutti  condividevano, ma non per questo era pronto a compromettere la comunione o il dialogo. 

Ho visto persone che papà aveva curato e servito parlare male di lui e criticarlo. So  che è stato ferito profondamente da molti, ma è rimasto fedele al Dio che è sempre stato la sua forte rocca, e non mai ha parlato male di nessuno. 

Sulla sua copia del libro di meditazioni sui Salmi, papà aveva cambiato il titolo del capitolo 10 mettendolo al personale. Il capitolo è una meditazione sul salmo 103, e anche qui aveva sottolineato alcune parole importanti.

1 Benedici, anima mia, il SIGNORE; e tutto quello ch’è in me, benedica il suo santo nome. 
2 Benedici, anima mia, il SIGNORE e non dimenticare nessuno dei suoi benefici
3 Egli perdona tutte le tue colpe, risana tutte le tue infermità; 
4 salva la tua vita dalla fossa, ti corona di bontà e compassioni
5 egli sazia di beni la tua esistenza e ti fa ringiovanire come l’aquila.

È evidente che anche davanti alle crescenti difficoltà legate alla salute di papà e all’isolamento, la sua lode per il Signore continuava a essere più presente. Ormai passava molte ore da solo, non aveva più la compagnia della mamma, fisicamente dipendeva dall’aiuto di altri, ma lodava Dio.

Quando ancora abitava con me e mia moglie, spesso prendeva l’innario e cominciava a intonare un canto dopo l’altro. La sua voce che lodava Dio risuonava forte per tutto l’appartamento. 

La vecchiaia può offuscare la visione della bontà di Dio nei propri confronti: nuove necessità possono renderci miopi sulla percezione di quanto il Signore sia generoso verso i suoi. Ma a papà non è successo. Non lo ha permesso perché vedeva che Dio gli dava beni a sazietà, così continuava a lodarlo per ogni cosa.

Ogni volta che mi sedevo con lui ero incoraggiato, perché aveva piacere nel raccontare come il Signore lo benediceva in tanti modi. Aveva parole gentili per tutti, e non si lasciava trascinare dalle lamentele degli altri.

Lui mi ha insegnato che si può invecchiare bene, anche quando fisicamente non si è più come prima. La chiave sta nel capire che non si arriva a una vecchiaia serena e felice tutt’a un tratto, ma bisogna costruirla già da adesso, sviluppando giorno dopo giorno una viva gratitudine verso Dio! Ricordare regolarmente, anche ad alta voce, le benedizioni di Dio era stata una delle sue abitudini che portava avanti da quando era giovane.

Quante ne conosciamo  di persone che invecchiano male, diventando sempre più amareggiate e lamentose. Grazie a Dio per papà non è stato così. 

Il 23 gennaio, 2020 ha sottolineato queste parole: 

La sua grazia è infinita, e il suo perdono è assoluto.

Certo, qualche volta anche lui si è sentito scoraggiato, e ha avuto momenti in cui si è chiesto perché Dio lo tenesse ancora in vita. Erano pensieri che lo assalivano nella sua solitudine, ma sapeva dove trovare le risposte nella Parola di Dio. Quella Parola che aveva insegnato con fedeltà per circa 70 anni, che aveva proclamato a persone scoraggiate e deluse, e aveva invitato coloro che non conoscevano il Signore a credere in Lui.

Nel suo ufficio, come anche nel suo salotto, sono passate decine e decine di missionari e servitori del Signore che gli hanno raccontato le loro difficoltà. In lui trovavano un orecchio attento, parole di conforto e preghiere sincere.

Mi ripeteva spesso che se avesse potuto tornare indietro avrebbe cercato di fare meglio, di amare Dio di più e di servirlo meglio. Eppure, nell’ultimo anno della sua vita ripeteva spesso che stava imparando a conoscere il Signore più profondamente, e che ne era felice.

Il 21 gennaio, circa due mesi prima di andare col Signore, ha sottolineato nel libro 31 giorni nei salmi queste parole:

Re Davide non dubitava della potenza del suo Signore, infatti aveva imparato che la potenza di Dio manifesta la sua gloria, e non è a servizio dei desideri umani. Che il Signore ci dia la stessa convinzione e lo stesso desiderio di Davide, affinché, sostenuti dalla sua grazia, possiamo vivere consapevoli della sua infinita potenza, e portargli sempre gloria.

Ho imparato tanto da papà, e il suo esempio ha segnato la mia vita. Le sue convinzioni e il suo amore per il Signore continuano a fare eco anche nelle stanze degli uffici della Voce del Vangelo, mentre continuiamo a raggiungere il nostro prossimo con la Parola di Dio.

Imitatori imitabili

L’apostolo Paolo esortava i credenti dicendo: “Le cose che avete imparate, ricevute, udite da me e viste in me, fatele; e il Dio della pace sarà con voi” (Filippesi 4:9).

Non si considerava un supereroe della fede, anzi aveva ammesso senza falsa modestia: “Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata: che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo” (1 Timoteo 1:15).

E diceva ancora: “perché io sono il minimo degli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio” (1 Corinzi 15:9).

Paolo ripeteva spesso che qualunque cosa facesse era per grazia e per mezzo delle forze che Dio gli dava e per questo poteva dire anche: “Siate miei imitatori, fratelli, e guardate quelli che camminano secondo l’esempio che avete in noi” (Filippesi 3:17).

Invitava le persone a imitarlo perché la sua vita era spesa a imitare Cristo. 

Noi, a volte, al contrario di Paolo, ci tiriamo indietro pensando che sono parole che non potremmo mai pronunciare. E forse abbiamo ragione. Ma hai mai pensato che, comunque sia, sia che le pronunciamo oppure no, non potremo evitare di essere osservati o imitati?

Capita che mi dicano che assomiglio a papà nei modi di fare. La stessa cosa succede a mio figlio: vedono qualcosa di me in lui. Ma la gente, cosa vede in noi del nostro Padre celeste? È inevitabile avere una certa influenza sugli altri, sia nel bene che nel male. Però, se il mio esempio è negativo è ora di cambiare!

Seguendo il modello di Paolo, facciamo giornalmente questi passi che ci possono rendere imitabili. 

  • Prima di tutto teniamo d’occhio le nostre priorità. “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo” (Filippesi 3:7). ello che era stato importantissimo prima di diventare seguaci di Cristo adesso non ha più alcun di valore.
  • In secondo luogo, abbandoniamo tutto ciò che ci frena dall’imitare Cristo. “Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo” (Filippesi 3:8). Valutiamo ogni cosa alla luce dello scopo della nostra vita.
  • Terzo, sviluppiamo una consapevolezza giusta del nostro status davanti a Dio. Come Paolo, il nostro traguardo è “di essere trovato in [Cristo] non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3:9). Sapeva che tutto quello che faceva era per grazia di Dio, e che non erano le buone opere che lo rendevano giusto davanti a Lui.
  • Quarto, abbiamo un solo obiettivo: “Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte,per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti” (Filippesi 3:10,11). Paolo sapeva che un giorno avrebbe incontrato Cristo faccia a faccia, e voleva a tutti i costi essere perfetto per quel momento.
  • Quinto, il nostro cammino dura tutta la vita. “Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti” (Filippesi 3:12,13). Come Paolo, non permettiamo che né vittorie né fallimenti passati frenino il nostro progresso.
  • Sesto, qualunque cosa facciamo, facciamolo per piacere a Dio: “corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Filippesi 3:14). La vita cristiana non è una passeggiata ma una corsa, con sofferenze, gioie e certezze. Possiamo anche noi affermare come Paolo che “Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno” (Filippesi 1:21)?

A essere onesti, è possibile che non siamo degli esempi positivi da imitare, ma Dio vuole che sia così. Volenti o nolenti le persone ci osservano, perciò faremmo bene a seguire l’esempio di Paolo.

Quando incontreremo il Signore che cosa ci dirà? 

Paolo, un credente normale consacrato al Signore, ha detto: “Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione” (2 Timoteo 4:7,8). Potremo dire altrettanto di noi?

Che Dio ci aiuti ad essere imitatori di Cristo, e persone da imitare!             

Davide Standridge

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