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La VOCE agosto2020

In questi ultimi mesi abbiamo tutti seguito con una certa ansia i bollettini dei contagi e dei decessi quotidiani sui telegiornali.

Le difficoltà fanno emergere la vera consistenza della nostra fede: è un principio spirituale.

Nel Vangelo di Luca un episodio fa riflettere su come possiamo affrontare la pandemia del COVID-19 con il dovuto equilibrio, senza cadere nel sentirci troppo o troppo poco spirituali. Luca racconta di una tempesta che si abbatté su Gesù e i discepoli in mezzo a un lago. 

“Un giorno egli salì su una barca con i suoi discepoli, e disse loro: «Passiamo all’altra riva del lago». E presero il largo. Mentre navigavano, egli si addormentò; e si abbatté sul lago un turbine di vento, tanto che la barca si riempiva d’acqua, ed essi erano in pericolo. I discepoli, avvicinatisi, lo svegliarono, dicendo: «Maestro, Maestro, noi periamo!» Ma egli, destatosi, sgridò il vento e i flutti, che si calmarono, e si fece bonaccia. Poi disse loro: «Dov’è la vostra fede?»” (Luca 8:22-25).

In questa storia, ti sarebbe mai venuto in mente che Gesù potesse essere colto di sorpresa dalla tempesta? O che si trovasse per caso sulla barca con i discepoli proprio in quelle circostanze? 

Oppure che non gli importasse nulla di loro perché si era messo a dormire, mentre la situazione precipitava?

Certamente no! 

Niente di ciò che accadde era stato lasciato al caso, ma ogni dettaglio era stato pianificato con uno scopo ben preciso. 

Quel giorno, infatti, doveva servire da lezione pratica e indimenticabile per i discepoli. 

Avrebbero appreso come reagire nelle difficoltà. 

Avrebbero realizzato cosa pensavano realmente di Gesù. E semmai fossero entrati un’altra volta nel panico, sarebbero stati capaci di identificare subito il vero problema.

 

A questo punto del ministero pubblico di Gesù, i discepoli avevano già trascorso molto tempo con lui, lo avevano visto fare miracoli e guarire tantissima gente da ogni tipo di malattia. Ma, per quello che ne possiamo sapere, non si erano ancora mai trovati in una situazione del genere, in pericolo di vita. 

Erano pescatori esperti. Sapevano valutare bene le condizioni del tempo. Nulla faceva loro presagire una bufera. Quel turbine li ha colti di sorpresa.

Il loro grido diceva tutto: “Maestro, Maestro noi periamo!” Matteo dice che esclamarono: “Signore, salvaci, siamo perduti!” e Marco precisa che gli dissero anche: “Maestro, non ti importa che moriamo?”

Era una reazione legittima dal punto di vista umano. Erano in balia degli elementi e non sapevano se sarebbero sopravvissuti.

È normale sentirsi spaventati e preoccuparsi per la propria incolumità davanti al pericolo della morte. Ma bisogna anche sapere come affrontare e gestire questa paura, senza diventarne succubi. 

Era questa la lezione che i discepoli dovevano ancora imparare.

Il loro problema era legato a una piccola parola di quattro lettere: “fede”. Infatti, Gesù gli domandò: “Dov’è la vostra fede?” e Matteo ci racconta che 

Gesù aggiunse: “Perché avete paura, o gente di poca fede?”

I discepoli, fino a quel momento, non avevano ancora capito che Gesù era Dio incarnato, e che per lui nulla è impossibile. E sembra che non avessero capito nemmeno le sue intenzioni e i suoi sentimenti verso di loro, perché preoccupati esclamarono: “Non ti importa?!”

 

Il COVID-19 si è abbattuto sul mondo come un turbine inaspettato. Eravamo tutti impreparati. Possiamo facilmente identificarci con i discepoli nella loro angoscia. Ma Dio non è mai sorpreso né dagli eventi né dalle nostre reazioni, e tantomeno dalle nostre paure.

E la domanda che Gesù rivolge a noi, nelle nostre circostanze, è la stessa: dov’è la tua fede? Perché hai così poca fede?

Il coronavirus ha messo a nudo quello che pensiamo realmente su Dio.

Alcuni hanno espresso apertamente i loro dubbi sulla responsabilità di Dio in questa pandemia e sulla sua disposizione nei loro confronti: “Se Dio fosse davvero buono… se fosse davvero sovrano… se mi amasse davvero, sarebbe intervenuto.”

Ma se abbiamo tentennato, se la nostra fiducia in Dio si è dimostrata debole, una cura c’è. E funziona! La cura è lo studio della Parola di Dio. 

Dio si rivela nella Bibbia, perciò noi impariamo a conoscerlo leggendola, studiandola e mettendola in pratica. Più noi ubbidiamo a quello che Egli dice nelle Scritture, più lo conosceremo, e più convinti saremo della sua onnipotenza, dei suoi pensieri di pace e della sua cura verso noi (Geremia 29:11; Luca 12:22-32). 

Conoscere Dio fa maturare la mia fede e affrontare più serenamente anche le avversità, ed era questo ciò che ancora mancava ai discepoli. 

Ma attenzione! Non dovevano “avere fede che la tempesta si sarebbe calmata”, perché poteva anche non essere nei piani di Dio. Nemmeno dovevano pensare di riuscire a salvarsi per la “loro fede”. Non dovevano “dichiarare per fede” che un qualche miracolo, che Dio non aveva promesso, li avrebbe tirati fuori dal pericolo. Non è questa la fede che onora Dio.

Dovevano piuttosto avere fede in Dio che, qualunque cosa fosse accaduta, Egli avrebbe guidato e coordinato ogni cosa secondo i suoi scopi eterni.

 

Durante il lockdown, tante chiese, per non interrompere del tutto la comunione tra i credenti, hanno spostato gli incontri settimanali su piattaforme come Facebook, ZOOM, Skype e altre. Questo ha fatto sì che si potessero raggiungere anche persone che non erano mai venute in chiesa, o poco attratte dalle cose spirituali. 

La Parola di Dio è entrata in diverse case dove non era stata mai predicata prima, e non è poco! 

Ma anche se gli incontri virtuali sono serviti, e servono, per la propagazione del vangelo in questo nuovo contesto, non sono come incontrarsi di persona. Anzi, a lungo andare, possono addirittura rappresentare un impedimento per una crescita spirituale sana. 

Mi spiego. Non dover uscire di casa, ma poter assistere al culto con una tazza di caffè, seduti comodamente a casa in pantofole (spero non in pigiama!) può avere reso pigri e svogliati i credenti.

Ricordo quando mi ero rotto il legamento crociato e dovevo usare le stampelle per mesi. Menomale che ce le avevo, almeno mi potevo muovere. Ma non era la stessa cosa che camminare!

La vera chiesa non è virtuale. La chiesa sana è formata da un gruppo di credenti che si incontrano di persona, si conoscono, si amano, si curano. 

Ha bisogno di tempo, dedizione, sforzo e tanto lavoro, ed è il piano di Dio per la nostra crescita.

Può darsi che continueremo a incontrarci in gruppi ridotti, e che porteremo ancora le mascherine, e che dovremo astenerci dall’abbracciare e salutare gli altri come prima, ma spero pure che non sentiremo la nostalgia di vivere la chiesa virtualmente e isolati. 

 

I credenti continuano ad avere bisogno di cura. Il discepolato è, purtroppo, ancora un concetto poco praticato nelle chiese. Molti non capiscono di cosa si tratta, altri non sanno come fare, e altri ancora lo rifiutano in partenza. 

Ma discepolare qualcuno non è altro che seguire da vicino e curare personalmente la sua crescita spirituale. Questa cura personale e individuale è parte integrante della vita di una chiesa.

Il Nuovo Testamento è pieno di espressioni del tipo “gli uni gli altri”. 

Forse questa pandemia ha portato qualcuno ad apprezzare l’isolamento, e a sviluppare un nuovo piacere nello stare per conto proprio. Ma se siamo diventati lavativi e pigri trascurando pure chi ha bisogno di essere discepolato, non è certo quello che Dio desidera da noi.

Se dovessimo trovarci di nuovo nella condizione di dover restare chiusi in casa, faremmo bene a impegnarci al massimo, anche essendo creativi, nel curarci gli uni gli altri. 

Il distanziamento sociale può esserci imposto, ma non dobbiamo permettere a nessuno di obbligarci al distanziamento spirituale!

 

Quante cose “necessarie” non sono state possibili! Ho scoperto negli ultimi mesi che tante cose che ritenevo necessarie si sono dimostrate piuttosto inutili. 

Forse una tra queste è il calcio, che non è qualcosa di vitale. Siamo onesti: ne abbiamo sentito la mancanza così tanto? A pensarci bene, siamo riusciti a sopravvivere anche senza.

Le restrizioni imposte alla nostra “normalità” avrebbero dovuto farci riflettere sulle nostre priorità abituali. 

Normalmente ci sembra che non abbiamo mai il tempo di frequentare lo studio infrasettimanale, di fare la nostra meditazione biblica quotidiana, di leggere un buon libro… Ci manca il tempo per stare in famiglia e avere un impatto spirituale nella 

vita dei nostri figli. Adesso che le restrizioni si stanno allentando torneremo a permettere che siano la società e le abitudini a prendere il controllo del nostro tempo?

L’apostolo Paolo ha scritto: “Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore” (Efesini 5:15-17).

Impiegare il mio tempo secondo la volontà di Dio non accadrà mai per caso, ma sarà il frutto di un ragionamento attento e coscienzioso.

La morte ha colpito molti di sorpresa! L’apostolo Paolo ha scritto: “Pregate nello stesso tempo anche per noi, affinché Dio ci apra una porta per la parola, perché possiamo annunciare il mistero di Cristo, a motivo del quale mi trovo prigioniero, e che io lo faccia conoscere, parlandone come devo. Comportatevi con saggezza verso quelli di fuori, ricuperando il tempo. Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come dovete rispondere a ciascuno” (Colossesi 4:4-6).

Quante persone sono entrate in ospedale e non ne sono più uscite vive! Isolate da parenti e amici, prigioniere della loro solitudine e della paura. 

Quanti di loro avranno avuto l’opportunità di ricordare in quei momenti il messaggio della salvezza che forse un vicino di casa, un collega, un parente o un amico aveva presentato loro?

Sono sicuro che, mentre la loro capacità di respirare diminuiva, hanno pensato alla morte e alle sue conseguenze.

 

Spero tanto che questa pandemia ci abbia fatto riflettere sulla nostra responsabilità di parlare del vangelo alle persone intorno a noi. Come ascolteranno, se non c’è chi predichi?

Non possiamo tornare indietro nel tempo e rifare tutto, ma possiamo andare avanti con nuovi propositi e nuova determinazione a parlare di Cristo a coloro che Dio mette intorno a noi. 

Questo è il motivo per cui abbiamo ideato le quattro pagine interne di questo numero della VOCE come un opuscolo da passare a un amico non credente. Se vuoi altre copie per la distribuzione, scrivici o chiamaci e saremo felici di inviartele gratuitamente!

Ordina altre copie:
Associazione Verità Evangelica
Via Pozzuoli 9 - 00182 Roma
Telefono: 06-700.25.59
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N.B.: Puoi leggere l'opuscolo "Il coronavirus ha cambiato la mia vita" cliccando sull'immagine qui sotto oppure cliccando QUI!

 

 

La VOCE luglio 2020

Il 30 Marzo 2020, all’età di 93 anni, Guglielmo Standridge, il fondatore nonché direttore della VOCE del VANGELO e dell’Associazione Verità Evangelica, è andato con il Signore.  

William Carl Standridge Jr., conosciuto da molti anche con il suo diminutivo inglese Bill, è nato a Flint in Michigan, negli Stati Uniti, il 19 febbraio 1927, ed è morto a Milano. 

Aveva solo 22 anni quando è arrivato a Napoli, nel 1949, e da allora l’Italia è diventata la sua casa, la sua missione, la sua vita. 

Guglielmo è nato in una tipica famiglia rurale di quei tempi. Suo padre era un pastore di una piccola chiesa evangelica, e sua madre un’insegnante di scuola, fino a quando non sono arrivati Bill, il primogenito, e le due sorelle; da allora era rimasta a casa per accudire la famiglia.

Da bambini, quando Guglielmo ci raccontava della sua gioventù, noi figli rimanevamo spesso a bocca aperta, come quando ci disse che una sua antenata era una principessa degli indiani d’America, e che un suo trisnonno era uno sceriffo che aveva arrestato uno dei malviventi della famosa banda di Jesse James. E ci raccontò pure che la sua scuola era così piccola che aveva una sola aula dove tutti gli studenti, di ogni età, studiavano insieme con un’unica insegnante. 

Nel dopoguerra molti in Europa volevano emigrare negli Stati Uniti in cerca di una vita migliore. L’Italia stava ancora subendo le conseguenze della Seconda guerra mondiale, e non era certo una meta per le vacanze né il paese dove tutti sognavano di vivere. 

Cosa ha spinto allora il ventiduenne ragazzo di campagna a fare un viaggio al contrario, a passare due settimane su una nave per attraversare l’Atlantico e sbarcare a Napoli completamente solo? 

Tutto ebbe inizio da qualcosa che era successo a mio nonno. 

I BAMBINI DI CATANZARO

Nel 1948 mio nonno, William Sr., aveva vistato diversi paesi del mondo tra cui l’Italia. Ricordo ancora come, con il suo forte accento americano, ci raccontava del suo tempo a Catanzaro, una città devastata economicamente dalla guerra, dove i bambini che giocavano in strada accorrevano per accerchiare gli “americani” sperando di ricevere qualcosa da loro. 

Quell’esperienza aveva colpito fortemente mio nonno; si era reso conto che l’Italia aveva bisogno del vangelo, l’unica vera speranza per quei bambini, e quella nazione così lontana.

Tornato negli Stati Uniti e spinto da quello che aveva visto, il nonno aveva radunato un gruppo di pastori evangelici e alcuni giovani, tra cui anche suo figlio Bill, per pregare per l’Italia. 

Durante uno di questi incontri, Bill cominciò a pregare e chiedere al Signore se fosse la sua volontà che lui andasse in Italia come missionario. Dopo un mese di preghiera aveva preso la sua decisione: sarebbe andato in un paese straniero, dove non conosceva nessuno, di cui non capiva la lingua, né conosceva la cultura, per parlare loro del Signore. 

La sua non fu una decisione basata sull’entusiasmo del momento. Qualche anno prima gli era successo qualcosa che aveva cambiato la sua vita…

LA BACHECA DELLA SVOLTA

A Guglielmo piaceva scrivere, era una cosa che gli veniva naturale. 

Aveva scoperto presto che era il modo in cui riusciva a comunicare con chiarezza le sue idee, la sua fede. I lettori della Voce del vangelo lo hanno potuto apprezzare negli anni. Ma pochi, forse, sanno che già all’età di 15 anni, come editore del giornale del suo liceo, gli era stato assegnato il premio del miglior giornale scolastico di tutti gli Stati Uniti. 

La stessa cosa si ripeté più tardi con il giornale della Wheaton University, di cui era diventato il caporedattore: vinse il premio come miglior giornale delle università degli Stati Uniti. 

Scrivere ha sempre continuato a essere una parte importante della vita di Guglielmo anche in Italia. Di solito scriveva per un pubblico generico, ma alcuni anni fa aveva a cuore di scrivere un libretto dedicato ai suoi nipoti. In quelle pagine ha raccontato di quell’evento che da giovane aveva cambiato e segnato la sua vita. 

Lui scrive: “Un pomeriggio, mentre camminavo lungo il corridoio della mia università, senza pensare a niente di particolare, mi sono fermato a leggere gli annunci degli studenti affissi su una bacheca.

“Tra i vari annunci di libri usati in vendita e offerte di piccoli lavori occasionali ho notato qualcosa di nuovo. Era una breve poesia. Ha cambiato la mia vita per sempre. 

“Non ricordo se fosse scritta a macchina o a mano, ma era su un cartoncino. Le sue parole semplici erano chiare: «Solo una vita: ben presto passerà. Solo ciò che è fatto per Cristo durerà.»

“Avevo 17 anni. Avevo creduto a Gesù come mio Salvatore quando ero molto giovane. Avevo ascoltato molti, direi centinaia, di sermoni, avevo imparato a memoria molti versetti della Bibbia, ero convinto che fosse una buona cosa essere un buon cristiano. Ma quella poesia ha cambiato la mia vita.”

un amore nato in cielo

Coloro che l’hanno conosciuto, sanno che Guglielmo ha vissuto tutta la sua vita con quelle parole incise nel suo cuore.

Arrivato in Italia, si era messo a studiare con diligenza la cultura e la lingua italiana. 

Amava l’Italia e gli italiani, e ne aveva trovata una che amava più di tutti e l’aveva sposata. 

Guglielmo e Maria Teresa erano uniti dallo stesso desiderio: quello di conoscere Dio meglio per poterlo servire e per adoperarsi per le cose che hanno un valore eterno, perché sono fatte per Cristo.

Sarebbe impossibile elencare uno a uno le centinaia di opuscoli, le decine di libretti, gli oltre 650 numeri della Voce del vangelo, le centinaia di predicazioni e le innumerevoli inserzioni evangelistiche nei giornali, scritti da Guglielmo e Maria Teresa. Oppure le numerose conferenze e i campeggi in cui lui è stato oratore. Quanti viaggi, quante visite, quante migliaia di conversazioni col solo desiderio di servire Cristo!

È chiaro che tutto questo non sarebbe stato possibile senza la mano amorevole di Dio nella vita di Guglielmo e Maria Teresa. Loro sono stati fedeli, ma Dio lo è stato ancora di più, e ha benedetto la sua opera al di là delle loro capacità umane. 

l’efficacia delle piccole cose

Guglielmo e Maria Teresa hanno avuto grande influenza su tante vite – lo testimoniano i numerosi messaggi di condoglianze e di ricordi che ci sono giunti di recente – ma l’impatto maggiore lo hanno avuto sui loro figli e le loro famiglie.

Guglielmo è andato col Signore durante la pandemia del COVID-19, quando non si poteva viaggiare e non si potevano celebrare funerali. Così tutta la famiglia, dai figli ai nipoti, fino ai bisnipoti, si è riunita in videoconferenza, tramite internet, per commemorarlo insieme. 

Con il suo esempio, papà ha influito sulle nostre vite senza che avesse mai cercato di forzare nessuno a seguire le sue orme. Come pastore, era soddisfatto dell’idea che ognuno servisse il Signore in qualsiasi cosa facesse. Dei suoi figli infatti Daniele guida una chiesa a Milano, Stefano a Firenze e Davide a Roma, mentre Deborah serve fedelmente nella chiesa che frequenta in Svizzera. 

Di noi quattro, io sono quello che ha lavorato accanto a lui più da vicino, per cui riconosco l’evidente grande influenza che ha avuto su me. E, pensandoci, mi accorgo che sono le “piccole cose” che mi hanno insegnato di più.

Papà e mamma hanno scritto tanto sull’educazione dei figli. Ne hanno parlato nei loro libri, negli articoli sulla Voce del vangelo e nelle rubriche come “Un pizzico di sale” e “A casa nostra”, che si basavano su piccoli episodi vissuti in famiglia. Tutto quello che hanno scritto sui miei fratelli e mia sorella è vero. Nel mio caso (Davide) probabilmente hanno ritenuto più saggio non raccontare tutte le mie bravate.

Sin da piccoli papà ci aveva sempre coinvolti, in qualche misura, nel suo ministero. Ci portava con sé quando andava a Piazza San Giovanni a Roma a fare le riunioni all’aperto. Noi cantavamo e lui predicava. È così che è cominciata quella che poi è diventata la chiesa Berea a Roma, una chiesa energica, che a sua volta ha avuto un impatto non indifferente in tutta Roma e in Italia.

Ricordo quando da bambino papà mi svegliava alle cinque di mattina per accompagnarlo in sala ad accendere le stufe, in modo che il locale fosse caldo per l’arrivo dei credenti. Lo ha fatto fedelmente per anni. C’erano altri che avrebbero potuto dargli il cambio, ma non l’ho mai sentito lamentarsi, e io, francamente, ero felice di andare con lui, specialmente da quando aveva cominciato a permettermi di accendere le stufe da solo!

Ricordo anche quando andavamo insieme per strada a distribuire foglietti di evangelizzazione, e le ore interminabili in ufficio ad aspettarlo mentre si incontrava con qualcuno venuto a parlargli dei problemi che stava affrontando. 

Mi ricordo quando portava tutta la famiglia a fare degli studi biblici in casa di persone che stava curando, e noi piccoli, immancabilmente, ci addormentavamo. 

Una volta ha accolto in casa nostra dei bambini che avevano perso il padre, nella speranza di poter avere un’influenza spirituale sulla loro vita. 

Diventati più grandi, papà pagava Daniele e me per spedire LA Voce del vangelo. In quegli anni la spedizione richiedeva un bel po’ di lavoro. In questo modo mio fratello e io potevamo osservare la fedeltà di Dio nel lavoro dei nostri genitori e la loro fedeltà a Lui.

Papà amava scrivere, ma non gli piaceva la parte amministrativa del lavoro in ufficio. Non se n’era mai lamentato, ma quando avevo visto andar via, per motivi personali, alcuni dei suoi collaboratori che si occupavano della contabilità, presi una decisione. Dopo l’università, se Dio lo avesse permesso, sarei tornato in Italia e me ne sarei assunto io la responsabilità, in modo da lasciare papà libero di dedicarsi a quello che amava.

verità, senza compromessi

Nel 1986, dopo i miei studi negli Stati Uniti, sono rientrato in Italia a lavorare in ufficio con papà. A volte lo chiamavamo l’Associazione Verità Evangelica, a volte l’Istituto Biblico Bereano, ma più spesso semplicemente La Voce del Vangelo. È stato proprio in quegli anni che ho potuto osservare con più attenzione e più cognizione di causa il ministero di Guglielmo.

La sua grande passione era che il vangelo fosse annunciato con chiarezza. 

Desiderava che le persone non solo comprendessero bene la buona notizia, ma che potessero anche crescere nella loro fede, e nella loro conoscenza delle Scritture. Gli premeva che ogni credente e tutte le chiese evangeliche in Italia fossero fedeli all’insegnamento biblico, cominciando da lui stesso, dal suo ministero e dalla chiesa di cui era il pastore.

Guglielmo è conosciuto in Italia per la sua purezza dottrinale e per il suo attaccamento semplice, ma profondo, alla Parola di Dio. Ha condotto le sue battaglie, ma lo ha fatto sempre con rispetto, con umiltà. Era uno che studiava a fondo gli argomenti ed era preparato in quello che affermava e insegnava. Ma non ha mai cercato di mettersi in mostra. 

Non parlava mai male delle persone che avevano una posizione dottrinale diversa dalla sua. Infatti, mi stupivo quante volte riusciva a non reagire in modo negativo quando gli altri lo criticavano e lo denigravano. Per la verità, molti di quelli che non condividevano le sue convinzioni dottrinali lo rispettavano per questo suo atteggiamento sobrio e non ostile.

 Durante il suo lungo ministero, Guglielmo godeva dell’amicizia che aveva con altri ministri e servitori di Dio, e parlava spesso di loro con molta ammirazione. Uomini di fede di diverse estrazioni, cultura e esperienza, come Abele Biginelli, Gian Nunzio Artini, Giona Prencipe, Samuele Negri, Pasquale Di Nunzio, René Pache, George Werver, Francis Schaeffer, Richard Wumbrand, John MacArthur e tanti altri. Alcuni lo hanno preceduto in cielo, altri continuano a servire Dio. 

Guglielmo aveva a cuore non solo questi, ma in modo specifico tutti quelli che si impegnano per il Signore con semplicità, lontani dai grandi riflettori, ed era preoccupato che fossero fedeli alla Parola di Dio.

Servire. Non primeggiare

“Solo ciò che è fatto per Cristo durerà” era il leitmotiv anche del modo in cui Guglielmo conduceva la chiesa che Dio gli aveva permesso di fondare a Roma. Servendo accanto a lui, ho potuto osservare la sua dedizione e l’accuratezza con cui insegnava. Ha fatto di tutto per assicurarsi che non esponesse mai idee sue, ma che tutto il suo insegnamento onorasse pienamente Cristo e la sua Parola.

Con l’aiuto del Signore, ha potuto formare altri uomini desiderosi di dedicarsi all’opera di Dio, come lui. Alcuni di questi sono andati a servire come anziani in altre chiese, altri hanno fondato nuove chiese e altri ancora sono rimasti nella chiesa Berea. Guglielmo pregava per tutti loro e, negli ultimi anni, quando era giunto il momento di ritirarsi e lasciare la conduzione della chiesa agli altri, ha continuato a pregare per le guide. 

Questa sua ferma fiducia in Dio nel pregare lo caratterizzava. Se, per esempio, osservando l’andamento della chiesa, vedeva che non tutto veniva fatto esattamente come lui si sarebbe augurato, pregava per la saggezza delle guide. 

Così era anche con me nel lavoro in ufficio: sono sicuro che non ho fatto tutto esattamente come papà avrebbe voluto, ma non si lamentava di questo. Anzi, mi incoraggiava quando scrivevo gli articoli per La VOCE, e quando bisognava cambiare qualcosa, in uno scritto o nel nostro lavoro in ufficio, era pronto al cambiamento.

Uno strappo doloroso

La vita di Guglielmo cambiò drasticamente con la morte della sua amata moglie Maria Teresa, nell’agosto del 2013. 

Mamma e papà dicevano sempre che desideravano morire insieme; non riuscivano a immaginare una vita l’uno senza l’altra. 

Non penso che mamma conoscesse la poesia che aveva cambiato la vita a papà prima che si incontrassero, ma è stato certamente anche il suo motto, prima da nubile e poi da sposata. La colla del loro matrimonio era proprio il condiviso desiderio di fare tutto per Cristo. 

Noi figli, pensando alla loro vecchiaia, dicevamo che mamma avrebbe fatto meno fatica ad andare avanti da sola se fosse rimasta vedova, ma non era nei piani di Dio. 

La calma, la pace e la risolutezza con cui papà ha continuato a servire il Signore, in mezzo al suo lutto, è stato un esempio per mia moglie e me nei quattro anni che ha vissuto con noi. Con l’aiuto del Signore, quelle parole “Solo una vita: ben presto passerà. Solo ciò che è fatto per Cristo durerà” hanno continuato a ispirare papà infondendogli determinazione e desiderio.

L’ultima stagione

Verso la fine del 2017, diventando sempre meno indipendente e vedendo le sue forze affievolirsi, papà si è trasferito a Milano per vivere con Daniele e la sua famiglia. Lasciare la sua chiesa, il ministero, e la città dove aveva servito per settant’anni, non è stato facile per lui. Ma anche in questa nuova stagione il suo amore per il Signore non si è affievolito, e desiderava ancora che Dio lo usasse. Amava parlare di come ognuno dei suoi figli serve il Signore, e pregava per noi e per ognuna delle chiese in cui lavoriamo. 

Guglielmo ha vissuto il suo ultimo anno in una casa di cura, e benché le sue forze e la sua autosufficienza fossero ridotte, il suo desiderio di servire il Signore non lo era affatto. Quando andavo a trovarlo, mi chiedeva continuamente come procedeva LA Voce del vangelo. Era tanto contento che LA Voce fosse di nuovo composta da otto pagine come lo era stata per i primi 50 anni. Parlavamo anche dei soggetti e temi che riteneva importanti per i nostri lettori, e che voleva che fossero trattati in un prossimo futuro. 

Poi la conversazione volgeva su come Dio voleva servirsi di lui in quella struttura. Mi raccontava di ogni occasione che aveva avuto di dare un libretto o dire una parola a qualcuno. 

Parlava anche del fatto che era pronto e desideroso di andare in cielo, ma era una decisione che spettava a Dio. Nel frattempo voleva solo essere usato dal Signore, voleva che la sua vita potesse ancora influenzare qualcuno. 

Sono convinto che il 30 marzo, quando è andato col Signore, Guglielmo ha sentito il Signore pronunciare le parole: “Ben fatto, fedele servitore!” In un certo senso, noi che siamo rimasti, siamo la dimostrazione che “solo ciò che è fatto per Cristo durerà”. A cominciare dai suoi quattro figli e tutti coloro che sono stati toccati dal Signore attraverso la sua vita.

Nuovi germogli

Negli ultimi mesi, papà aveva due letture preferite: la Bibbia, e un libro di meditazioni su salmi che avevo scritto in inglese. La sua copia era piena di sottolineature e note sui margini della pagina. Desiderava tanto che il libro fosse tradotto anche in italiano. Perciò era felicissimo, quando, in occasione del suo 93° compleanno, febbraio scorso, mi sono seduto con lui e gli ho potuto dare la notizia che stavamo completando la traduzione. 

Ho chiesto se se la sentisse di scrivere una prefazione, e gli si sono illuminati gli occhi. Ci siamo lasciati con l’intesa che alla mia prossima visita mi avrebbe dettato la sua prefazione. 

Non ci siamo più visti! Mi domando cosa direbbe oggi se potesse dettarla adesso che la fede è finalmente diventata visione per lui, alla gloriosa presenza di Cristo, colui per il quale ha vissuto la sua vita. È certamente passata in fretta, ma l’ha vissuta per le cose eterne.

Con la morte di Guglielmo, circa dopo 7 anni dalla morte di Maria Teresa, se ne va una parte importante della storia del mondo evangelico in Italia. 

Noi dell’Associazione Verità Evangelica ci impegniamo a continuare l’opera con lo stesso attaccamento alla Parola di Dio, e con lo stesso desiderio di provvedere materiale utile per l’evangelizzazione e per la cura dei credenti. 

E spuntano già i primi germogli di quest’opera del 2020: nuovi progetti editoriali di libri, corsi biblici, libretti e foglietti di evangelizzazione che vogliamo mettere a disposizione dei credenti. Vi chiediamo di pregare per noi mentre li stiamo preparando. Come potete immaginare, questo periodo del coronavirus ha avuto un impatto anche sul nostro ministero e sulle finanze necessarie per portare avanti il lavoro.

Siamo grati al Signore di poter continuare a servirlo col vostro sostegno. 

– Davide Standridge

 

Avviso ai nostri lettori 

A  causa delle restrizioni del Covid-19, non è stato possibile pubblicare La Voce del Vangelo a maggio e giugno. Ci scusiamo con voi.

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La VOCE aprile 2020

Più di 3000 anni fa, l’intera nazione d’Egitto fu messa in ginocchio da un’escalation di calamità, che ha raggiunto il suo culmine quando in una sola notte morirono tutti i primogeniti, uomini e animali, dell’intero paese. 

La morte colpì ogni famiglia. Molti dovettero affrontare più di un lutto quando perirono padri, figli, fratelli e parenti tutti in una volta. 

Non faceva differenza se uno era ricco o povero, nobile o mendicante.

“A mezzanotte, il SIGNORE colpì tutti i primogeniti nel paese d’Egitto, dal primogenito del faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame. Il faraone si alzò di notte, egli e tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e vi fu un grande lamento in Egitto, perché non c’era casa dove non vi fosse un morto” (Esodo 12:29,30).

Il paese fu invaso dal panico.

Il faraone, sapendo che queste morti facevano parte dell’ultimo dei flagelli di Dio, chiamò Mosè e Aaronne, di notte, e disse: “Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d’Israele. Andate a servire il SIGNORE, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto; andatevene, e benedite anche me!” 

“Gli Egiziani fecero pressione sul popolo per affrettare la sua partenza dal paese, perché dicevano: «Qui moriamo tutti!» 

“Il popolo portò via la sua pasta prima che fosse lievitata; avvolse le sue madie nei suoi vestiti e se le mise sulle spalle.

“I figli d’Israele fecero come aveva detto Mosè: domandarono agli Egiziani oggetti d’argento, oggetti d’oro e vestiti; il SIGNORE fece in modo che il popolo ottenesse il favore degli Egiziani, i quali gli diedero quanto domandava. Così spogliarono gli Egiziani” (Esodo 12:31-36).

LA PAURA non fu abbastanza

Fa riflettere la reazione degli Egiziani davanti a questa gravissima sciagura. 
Non si piegarono. Non si pentirono. 
Non vollero avere a che fare né con gli Israeliti né con il Signore. 

Esodo 12:38 dice che “una folla di ogni specie” partì con gli Ebrei, senza specificare chi fossero. Può essere che ci fosse qualche egiziano tra loro, ma più avanti nella storia, in Numeri 11:4, questa “accozzaglia di gente” provocò su se stessa un terribile flagello che la sterminò presso il luogo chiamato eloquentemente “i sepolcri della concupiscenza”. 

Sembra che nessuno di loro si sia convertito al Dio di Israele. 

Al contrario loro, quando Dio in altre simili occasioni aveva fatto conoscere la sua ira contro il peccato, un gran numero di pagani si era rivolto a Lui, invocando perdono. 

I Niniviti, un popolo spietato, temuto per la loro ferocia disumana, sotto la minaccia di un’ecatombe per l’intera città proclamato da Giona, credettero a Dio. Si erano pentiti ed erano divenuti veri seguaci del Dio d’Israele. Nel giorno del giudizio essi giudicheranno e condanneranno gli Ebrei che hanno rigettato il Messia, la sua morte e la sua resurrezione (Matteo 12:41).

LA FINE è DIETRO L’ANGOLO

Oggi molta gente si fa prendere dall’ansia a causa delle notizie sul numero di morti per il Coronavirus, ma si dimentica che in un passato, neanche troppo lontano, ci sono state altre piaghe molto più devastanti. 

Circa 500 milioni di persone sono morte a causa del vaiolo.
Ogni anno muoiono 30.000 persone a causa della febbre gialla.
La tubercolosi infetta una persona ogni secondo, e nel 2012 sono morte 1.300.000 persone per questo.
Il morbillo in Africa e in Asia procura 22 morti ogni ora.
Il cancro più letale, quello ai polmoni, miete 1.380.000 morti all’anno.
Una delle più devastanti epidemie della storia contemporanea è quella della febbre spagnola tra il 1918 e il 1919; il numero dei morti sarebbe stato tra i 30 e i 50 milioni. 
Si calcola che l’HIV abbia sterminato 39 milioni di persone. 

La morte è la conseguenza del peccato, decretata da Dio. 

Noi tutti moriremo. Ma viviamo la nostra vita come se non fosse così. 

Ci alziamo la mattina e andiamo a letto la sera aspettandoci che domani sarà uguale. Fino a che non capiti una situazione come il Coronavirus, che ci costringe ad aprire gli occhi sulla nostra mortalità. 

Ci sarà un tempo in cui miliardi di persone sulla terra moriranno! 

In un primo momento un quarto della popolazione terrestre morirà, poi addirittura un terzo (Apocalisse 6:8; 9:18). Ma oggi, la mano di Dio non è ancora venuta con tutta la sua forza per uccidere gli uomini.

Peggio del Coronavirus

Luca, nel suo Vangelo, capitolo 22, racconta che Gesù desiderò grandemente celebrare quella che sarebbe stata la sua ultima Pasqua con i suoi discepoli. In una grande stanza privata, insieme ai suoi amici più intimi, la celebrò in un momento estremamente difficile per lui. Da lì a poco, infatti, avrebbe affrontato la prova più dura della sua esistenza eterna: la separazione da suo Padre.

Quella sera lui instaurò “la cena del Signore” servendosi di due elementi tradizionali della celebrazione giudaica della Pasqua: il calice e il pane non lievitato. Sarebbe divenuto una parte importante dell’adorazione dei veri credenti, attraverso la storia della chiesa.

In tutto il mondo cristiano si celebra la cena del Signore. Per moltissimi è poco più che un rito sterile e formale, forse un po’ mistico. Sicuramente non ne comprendono il significato. 

Per chi, invece, conosce Dio e fa parte della sua famiglia non è affatto così. È una celebrazione solenne che richiede il giusto atteggiamento.

La cena del Signore acclama la vittoria sulla principale causa di morte per l’essere umano: il peccato. 

Ogni essere umano morirà di qualcosa, ma sempre a causa del suo peccato. 

La morte fisica è la logica conseguenza della morte spirituale dell’uomo, alienato dal suo Creatore, per il suo peccato per il quale l’ira di Dio risiede sopra di lui.

Cristo, il Figlio incarnato di Dio, ha vissuto la vita moralmente perfetta che nessuno di noi è capace di vivere. Non avendo peccato non doveva morire. Ma ha scelto di addossarsi la colpa del peccato di tutti coloro che avrebbero creduto in lui, ed è morto sulla croce per riconciliare il peccatore con il suo Creatore. 

Dio Padre ha accettato questo sacrificio risuscitando Gesù e dandogli il nome che è al di sopra di ogni nome affinché noi lo riconoscessimo come Signore e ricevessimo, per fede nei suoi meriti, la vita eterna (Filippesi 2:5-11).

I credenti che leggono e studiano la Bibbia conoscono bene queste verità, ma forse a volte si perde di vista la vera portata di ciò che Gesù ha fatto. 

Ci teniamo aggiornati su come il virus stia diffondendosi nel nostro paese, chiedendoci allarmati che effetto avrà sulla nostra vita. Ma mentre partecipiamo alla cena del Signore dimentichiamo che stiamo celebrando l’incredibile soluzione di Dio al peggiore virus che esista, e che ha già infettato ogni essere umano molto prima del sorgere del primo batterio al mondo. È stato Adamo il paziente zero che ha infettato tutti i suoi discendenti.

FATELO IN MEMORIA DI ME!

È per questa nostra tendenza di partecipare disattenti e superficiali alla commemorazione del sacrificio di Cristo che Paolo ci ha lasciato, in 1 Corinzi 11, le istruzioni su come fare.

Prima di tutto la cena del Signore ci ricorda che Gesù è morto. 

Nel gesto e nelle parole di Gesù non c’era nulla di mistico. Il pane che egli spezzò e distribuì ai suoi discepoli rappresentava il suo corpo che da lì a poco sarebbe morto realmente sulla croce. 

Era pane, e pane restò anche quando i discepoli lo mangiarono. 

Nessuna transustanziazione.

Gli elementi più importanti della cena del Signore non sono infatti il pane e vino, che sono solo dei simboli, come lo erano la “porta” e la “luce” o la “vite” nei discorsi di Gesù. Quello invece che importa davvero è la sua morte sul Golgota, duemila anni fa.

Il pane e il vino non hanno nessuna virtù intrinseca e non portano nessun beneficio a chi mangia e beve. 

È la morte del Figlio di Dio quella che ha reso possibile essere perdonati dei nostri peccati. 

Il secondo motivo per cui Gesù ha instaurato la santa cena riguarda il fatto che ci ricorda la gravità del peccato. 

Dopo aver reso grazie, Gesù ruppe il pane e disse: “«Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me” (1 Corinzi 11:24,25).

Il problema del peccato non può essere sorvolato né dev’essere minimizzato. 

Non si risolve la colpa mettendo su un piatto della bilancia i nostri peccati e sull’altro le buone opere. Un singolo peccato è sufficiente per condannare l’uomo alla morte eterna nell’inferno. Cosa mai potresti fare di così nobile ed eccezionale da revocare questa condanna? 

Per risolvere il nostro peccato Dio ha dovuto prendere l’iniziativa. È sceso in terra nella persona di Gesù Cristo. 

Nel Getsemani, quella stessa notte in cui istituì la cena del Signore, Gesù era in un’agonia tale che dal forte stress sudò grosse gocce di sangue per la rottura dei suoi capillari. Pregò Dio con voce straziata, chiedendogli, se fosse stato possibile, di risparmiarlo da quella imminente separazione da Lui (Luca 22:39-46). L’eterno Figlio di Dio non era mai stato separato dal Padre, non aveva mai conosciuto l’ira di Dio.

Ma il Signore ha voluto stroncarlo con i patimenti. Ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti (Isaia 53:5-11). 

Colui che non ha conosciuto peccato, Egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui (2 Corinzi 5:21).

Partecipare alla cena del Signore significa riconoscere la gravità del nostro peccato. Ma non è solo provare rimorso per quello che abbiamo fatto. Dovrebbe spingerci a odiare il peccato in tutte le sue manifestazioni, e a crocifiggere le nostre passioni e le nostre tentazioni. 

Ogni volta che ci accostiamo ai simboli del sacrificio di Cristo dovremmo essere nuovamente risoluti nel non voler peccare più, e smettere di considerare certi peccati come normali nella nostra vita.

La terza cosa da ricordare è che c’è un patto eterno nel sangue di Cristo. 

Un patto nelle Scritture è un accordo particolare tra due parti, per garantire pace, alleanza e aiuto reciproco, stabilito in presenza di testimoni, ratificato con un giuramento, quindi immutabile e inviolabile (Galati 3:15), celebrato con doni e banchetti, a volte con dei sacrifici, e in qualche caso si ergevano dei monumenti per stabilirne un ricordo perenne.

Il nuovo patto di cui Gesù è il mediatore è tutto questo, e molto di più (Ebrei 8:6-13).

- Il suo è un sacrificio fatto una volta per sempre, e per questo non può essere ripetuto (Ebrei 7:23-27; 9:24-28). 

- In virtù di esso siamo stati santificati una volta per sempre (Ebrei 10:10), e resi perfetti per sempre (v. 14). 

- La morte di Cristo è stata sufficiente per un perdono completo dei nostri peccati passati, per quelli presenti e per quelli futuri (Ebrei 10:18).

- Il suo sacrificio è l’unico che purifica le coscienze, ci permette di servire Dio ed è garanzia di un’eredità eterna in cielo (Ebrei 9:11-15).

Una volta per sempre, per l’eternità! C’è da celebrare! C’è da festeggiare!

Cosa proclami?

Dio, però non voleva che fosse solo un ricordo, ma anche una proclamazione: “Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Corinzi 11:26). 

Il verbo “annunciare” nel testo originale in greco è la stessa parola che altrove viene tradotta con “proclamare, predicare”. 

La commemorazione passa così dall’essere una comunione intima e privata con il Signore, a un annuncio personale e pubblico.

Ogni volta che partecipi alla Santa cena, affermi che Cristo è morto sulla croce. Che è morto al posto tuo, a causa dei tuoi peccati. Affermi che hai creduto personalmente, che hai messo la tua fede in quello che Cristo ha fatto sulla croce. 

Affermi anche che la tua non è una fede solo mentale, ma che Gesù è diventato effettivamente il tuo salvatore e Signore. Come ha detto l’apostolo Paolo: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:19,20).

Affermi pubblicamente che non vivi più per te stesso, ma per il Signore. Giorno per giorno in piena comunione con Dio e con i tuoi fratelli in fede. Senza rancori o dissidi con nessuno. 

Il costo della superficialità

Fin qui pare chiaro che la cena del Signore deve essere considerata come un momento solenne, fonte di gioia e consolazione per il credente. Ma è anche un severo monito per non vivere la fede alla leggera. 

Non si può mentire a Dio che conosce tutto. Anania e Saffira l’hanno fatto e questo gli è costato la vita.

A Corinto, evidentemente, c’erano dei credenti che pensavano che, a motivo di Cristo, Dio fosse diventato più indulgente verso il loro peccato. Avrebbe chiuso un occhio.

“Perciò, chiunque mangerà il pane o berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ora ciascuno esamini se stesso, e così mangi del pane e beva dal calice; poiché chi mangia e beve, mangia e beve un giudizio contro se stesso, se non discerne il corpo del Signore. Per questo motivo molti fra voi sono infermi e malati, e parecchi muoiono” (1 Corinzi 6:27-30).

È partecipare indegnamente quando si resta aggrappati al peccato, a quell’idea, gesto, parola o atteggiamento infernale che ha portato il Signore a subire l’ira di Dio. 

Invece dobbiamo esaminarci, giorno per giorno, per essere sicuri che quello che celebriamo e annunciamo sia veramente vero nella nostra vita.

Trascurare questo esame può portarci addosso il giudizio. Con questo Paolo non stava alludendo che si possa perdere la salvezza, ma al fatto che Dio possa decidere piuttosto di far morire un suo figlio. 

Che non ti sia successo ancora, non è la garanzia che Dio approvi quello che fai. Egli ha promesso di riprendere, correggere, punire e disciplinare ogni figlio che ama (Ebrei 12:4-6; Apocalisse 3:19). 

Alcuni credenti, a causa di queste parole, evitano di andare in chiesa quando si celebra la cena del Signore, o si astengono dal parteciparvi. 

Per quanto sia giusto astenersi se ci sono peccati non confessati e non abbandonati, o se non si è in piena comunione con tutti, il piano di Dio non prevede che i suoi figli evitino di partecipare alla cena del Signore, ma che la cena stessa sia un continuo ammonimento a progredire in una vita di santificazione come discepoli in modo da piacere al Maestro.

La mia speranza è che in questo periodo in cui tanti celebrano la Pasqua, e tanti altri sono in ansia per il virus molto meno pericoloso del peccato, di cui tutti siamo affetti, possiamo emanare una pace e una serenità decisamente diverse da quelle con cui i nostri amici affrontano le loro difficoltà e le loro paure.  

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La VOCE marzo 2020

Andate! Predicate!

Le temperature cominciano a salire e si avvicina il momento di fare il cambio stagione. Alcuni vestiti degli anni passati non li indosseremo più. Si ha voglia di qualcosa di nuovo.

Anche nella vita cristiana ci sono stagioni che si susseguono e introducono nuovi modi di fare. Un tempo bastava una chitarra, e la chiesa cantava col suo innario in mano. Ora ci sono i gruppi di lode, i testi proiettati e altri effetti speciali per rendere l’esperienza più intensa e forte.

Ma ci sono cose che sono insostituibili.

Pensa per esempio a come ciascuno di noi è venuto alla fede. È perché qualcuno ci ha parlato o fatto leggere qualcosa su Cristo. 

Qualcuno ci ha evangelizzato! E questo non può essere né trascurato né sostituito da altro.

Può darsi che non si facciano più campagne con la tenda, con il megafono in mano in piazza o con lo sketch board. Ma il bisogno della gente di sentire il vangelo non è affatto passato né è diminuito. 

Quest’anno non relegare la tua responsabilità di evangelizzare a qualche GIF, e nemmeno alle frasi fatte su facebook o instagram. La parola stampata non è soggetta agli algoritmi dei social in modo da scomparire sotto nuovi post ogni minuto che passa. Rimane nel tempo e può essere riletta più volte. 

In questo numero della VOCE ti presentiamo il nuovo opuscolo per la distribuzione. Leggilo e fallo conoscere ai responsabili della tua chiesa.  

Costringetegli a entrare

“Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:18-20).

Il grande mandato che Gesù ha dato ai suoi discepoli non era legato solo a quell’epoca apostolica, ma è quanto mai attuale ancora oggi.

È un comando chiaro accompagnato da due verità. La prima è che questa missione è possibile proprio perché Gesù ha il potere per renderla fattibile. La seconda è che quando obbediamo non siamo mai soli perché Egli è con noi.

Il pensiero di dover evangelizzare, però, potrebbe farci prendere da un certo sconforto, e forse anche da un senso di disagio. 

Quanto ammiro le persone che riescono a parlare con chiunque, che fanno amicizia con tutti! Io non sono così. Per rompere il ghiaccio posso certo parlare di cose banali, ma quando è il momento di virare il discorso verso questioni spirituali, mi trovo a non saperlo fare facilmente e con naturalezza. Ed ecco che la conversazione si arena sulla spiaggia del disinteresse del mio interlocutore.

So di non essere l’unico ad avere questi pensieri. 
D’altra parte, ho conosciuto credenti che conversano con tanta disinvoltura di tutto, ma che non arrivano mai a parlare della fede.

La costruzione grammaticale del comando di Gesù nel testo greco fa capire che l’evangelizzazione dev’essere uno stile di vita. Infatti, “andate” sarebbe tradotto meglio con “mentre andate”. “Mentre vivete la vostra vita di tutti i giorni” parlate del vangelo ed esortate le persone a credere. 

Il comando però non si ferma lì. Non è sufficiente che proclamiamo solo il vangelo. 

Quando dice di battezzare le persone è implicito che la persona si sia prima convertita. E dopo il battesimo bisogna addestrare il credente, e insegnargli a osservare tutte le cose comandate da Gesù. Si inizia col vangelo e si continua con il discepolato.

Eh già, è un compito impegnativo, e non ce ne liberiamo con la scusa di essere introversi né perché ci sentiamo impreparati a dare risposte precise alle domande difficili della gente. 

Se è una questione di indole, dobbiamo lavorare sul nostro carattere, e se è una questione di impreparazione, allora dobbiamo prepararci. 

Qualsiasi sia l’ostacolo che ci frena non ne facciamo una scusa, ma prendiamolo come una sfida, e chiediamo al Signore di aiutarci. È proprio questo il motivo per cui Gesù ha premesso e concluso il suo comando con le due verità: la potenza è sua, e Lui è con noi!

Trovo interessante il fatto che non esista un lasso di tempo prima che questo comando ci tocchi personalmente. È nostra responsabilità parlare di Cristo sin dal momento che cominciamo il nostro cammino con Lui. 

Non è necessario sapere tutto per essere testimoni efficaci come dimostra la storia dell’uomo nato cieco in Giovanni capitolo 9. Mentre cresciamo nella conoscenza di Dio e della sua Parola anche la nostra testimonianza diventerà più matura.

Il periodo subito dopo la conversione è particolarmente bello: c’è la gioia di essere perdonati e riconciliati con Dio, c’è la scoperta della Bibbia e della sua forza trasformante in noi, c’è la sorpresa di un nuovo tipo di amicizia con gli altri membri della chiesa locale. Non stupisce allora l’entusiasmo dei nuovi credenti nel parlare della loro fede con parenti e amici. 

Qualche volta lo si fa con troppo impeto e si rischia qualche litigata, ma c’è da domandarsi come mai col tempo quella passione e quel senso di urgenza calino. 

L’indifferenza e il rigetto, specie dei nostri cari, sono secchiate d’acqua che tendono a spegnere la fiamma dell’entusiasmo. Nessuno vuole sentirsi criticato, deriso, o essere causa di litigi per certi discorsi. 

Alcuni pensano che l’alternativa sia vivere da testimoni silenziosi. Una vita conforme alla Parola di Cristo è senza dubbio indispensabile per una fede coerente e autentica. 

Ma amare il nostro coniuge, i genitori e i figli, lavorare con attenzione e correttezza, usare un linguaggio pulito e controllare le nostre reazioni NON sono il vangelo. Ci sono molte brave persone che si comportano in modo altrettanto esemplare pur non essendo credenti. 

Un credente che si limita a testimoniare solo col suo comportamento diventa al massimo un esempio morale. 

Vivere da testimone silenzioso ha uno scopo preciso: la conversione delle anime. Il comportamento onesto può aprire delle porte e spianare la via al messaggio parlato. “Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto, e avendo una buona coscienza; affinché quando sparlano di voi, rimangano svergognati quelli che calunniano la vostra buona condotta in Cristo” (1 Pietro 3:15,16). 

Ci vogliono anche le parole, non bastano i fatti.

Evangelizzare la famiglia

Gesù aveva detto che i discepoli sarebbero stati i suoi testimoni in tutto il mondo fino alle estremità della terra (Atti 1:8). Non voglio sembrare poco serio, ma hai pensato che il nostro mondo ha la forma di  un globo, e che le estremità si toccano proprio lì dove ti trovi? Portare il messaggio della salvezza al mondo comincia quindi in famiglia.

Se siamo genitori, la nostra prima responsabilità sono i figli. 

Si comincia subito, quando sono ancora piccolissimi, e si continua fino a che non ne abbiamo la possibilità. 

All’inizio si fa la “pre-evangelizzazione”, cioè si insegna loro la differenza tra il giusto e lo sbagliato, e che ogni disubbidienza ha le sue conseguenze. (La punizione dev’essere proporzionale alla disubbidienza, arrivare puntuale ed essere sufficientemente dolorosa per raggiungere lo scopo del Proverbio 13:24). 

Al contempo, sin da piccoli, bisogna anche insegnargli la verità del vangelo. Per fare questo è molto buono stabilire dei tempi speciali in famiglia, in cui si affrontano questioni spirituali ma, come ricorda Deuteronomio 6, è qualcosa da fare tutto il tempo, non solo in quei momenti particolari.

“Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città.”

Per i figli adulti, e per altri membri grandi della famiglia, vale lo stesso principio che Pietro dà alle mogli di mariti non credenti: una volta spiegato il vangelo, bisogna viverlo. “Anche voi, mogli, siate sottomesse ai vostri mariti perché, se anche ve ne sono che non ubbidiscono alla parola, siano guadagnati, senza parola, dalla condotta delle loro mogli, quando avranno considerato la vostra condotta casta e rispettosa. Il vostro ornamento non sia quello esteriore, che consiste nell’intrecciarsi i capelli, nel mettersi addosso gioielli d’oro e nell’indossare belle vesti, ma quello che è intimo e nascosto nel cuore, la purezza incorruttibile di uno spirito dolce e pacifico, che agli occhi di Dio è di gran valore” (1 Pietro 3:1-4).

In ogni caso, chiediamo a Dio di creare opportunità di parlare in modo chiaro, e di darci la saggezza di coglierle. 

Nulla è più devastante dell’affermare di essere credenti ma vivere una vita disordinata in cui le priorità spirituali sono inesistenti o contano poco.

La sfera di influenza

Queste sono le persone che Dio ha messo intorno a noi e con cui interagiamo con una certa regolarità. Alcuni sono amici intimi, altri conoscenti di vari gradi.

Forse sanno che siamo evangelici, ma non gli abbiamo mai spiegato cosa vuol dire essere credenti. E forse proprio perché li vediamo molto spesso, non sentiamo molta urgenza per affrontare discorsi sull’eternità con loro. Eppure, né loro né noi abbiamo garanzie di un altro giorno di vita.

Un modo semplice per (ri)aprire un dialogo con loro è invitarli agli incontri con la chiesa. Le attività speciali quali cene di coppie, pic nic all’aperto, tornei di calcetto, concerti e rappresentazioni sono ottime opportunità per avere un primo approccio con la chiesa locale. Possono osservare con i loro occhi quell’amore tra i credenti da cui saremo riconosciuti come seguaci di Gesù. 

E, cosa fondamentale, potrebbero essere esposti alla predicazione sulla salvezza!

Ma c’è un altro gruppo da raggiungere…
Sono le persone che non conosciamo, gli estranei. Sono quelli forse più difficili, perché non hanno nessuna remora a far vedere la loro indifferenza, e a volte anche l’ostilità che hanno verso Dio.

La realtà però è che ci sono tante persone disperate che hanno bisogno del vangelo, persone che non sappiamo neanche riconoscere.

Dio ci ha chiamato a raggiungere anche loro. 

L’Associazione Verità Evangelica, che pubblica La VOCE del Vangelo e altri volantini e opuscoli da oltre 60 anni, è stata fondata proprio per raggiungere anche queste persone.

Negli anni, centinaia di migliaia di volantini sono stati distribuiti con l’aiuto di molti, e migliaia di libretti e foglietti sono stati messi nelle mani di altrettante persone. Ne è valsa la pena? Ha funzionato?

Noi siamo convinti di sì! Dio ha parlato alle persone disperate di tutti i tipi. Abbiamo avuto il privilegio di conoscere alcune di loro, altre forse le conosceremo nel cielo, ma intanto abbiamo svolto il compito che Dio ci ha dato.

Quest’anno abbiamo preparato un opuscolo speciale che ti presentiamo: L’INGANNO DELLE BRAVE PERSONE. Aprilo cliccando QUI. Ti invitiamo a leggerlo con cura e a ordinarne le copie che vorrai distribuire. 

Come sempre, puoi personalizzare la quarta pagina con un tuo breve messaggio o con l’indirizzo e gli orari della tua chiesa. Te lo stamperemo senza costi aggiuntivi. 

Per qualsiasi informazione e per ordini puoi chiamarci allo 06-700.25.59 o inviarci una e-mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

La distribuzione degli opuscoli funziona? 

È il Signore quello che determina la buona riuscita della nostra testimonianza, e ha promesso di essere con noi mentre lo facciamo. 

A noi spetta fare la nostra parte. 

 

L'inganno delle brave persone

Il foglio evangelistico "L'INGANNO DELLE BRAVE PERSONE" è una presentazione chiara e semplice del problema più grave dell'uomo e la soluzione di Dio. Come tutti i nostri opuscoli evangelistici, anche questo può essere personalizzato con un tuo messaggio che inseriamo nello spazio predisposto.

L'inganno delle brave personeL'INGANNO DELLE BRAVE PERSONE

Opuscolo di evangelizzazione personalizzabile

Molte persone si reputano migliori degli altri. Sperano che le loro buone qualità siano sufficienti per poter ricevere la vita eterna. Ma cosa dice la Bibbia? L'incontro di un giovane per bene con il Signore Gesù ci rivela la verità su noi stessi.

Clicca sulla copertina qui a sinistra per leggere tutto il contenuto, oppure aprilo cliccando QUI.

I prezzi includono la stampa di un messaggio personalizzato nello spazio predisposto sulla quarta pagina.

PREZZI A COPIA PER IL NUMERO SPECIALE di evangelizzazione “L'INGANNO DELLE BRAVE PERSONE”
1.000 copie € 120,00
2.500 copie € 200,00
5.000 copie € 300,00
Per tirature diverse chiamare allo 06-700.25.59

N.B.: I costi del trasporto sono a carico del committente
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La VOCE febbraio 2020

Il 14 febbraio, la festa degli innamorati.

Chissà quante tonnellate di cioccolatini si vendono in questo periodo! Ai negozianti e ai fiorai poco interessa se le belle confezioni che ti propongono siano delle autentiche espressioni d’amore. Siamo noi che, bersagliati dalla pubblicità, pensiamo che il vero amore si misuri in gesti come questi. (O, perlomeno, vorremmo che fosse così semplice…)

Sarebbe bello se le occasioni come la festa degli innamorati ci portassero a riflettere su come migliorare il nostro matrimonio. Voglio sperare che sia così per molti.

Temo, però, che per troppe coppie serva solo a sottolineare quanto sia poco soddisfacente il loro rapporto.

Regali, piccoli o costosi, e i sorrisi di circostanza nascondono tanta amarezza, e tanta animosità stratificata negli anni. 

La cosa triste è che con questa ipocrisia vivono anche tante coppie di credenti. La domenica si vestono di bei sorrisi e ti rispondono “Tutto bene” se gli domandi come va, mentre la loro vita famigliare va a rotoli, e a casa magari regna l’inferno. 

Che fine potranno mai fare matrimoni del genere? C’è una via d’uscita per evitare di peggiorare le cose?  

Quel fuoco in petto mi ha bruciato gli abiti

 Secondo le statistiche l’Italia ha la percentuale più alta di tradimenti in Europa: il 45% tradisce il coniuge. Pur essendo considerato un popolo religioso, la fede degli italiani non funge da deterrente all’infedeltà.

Come credenti biblici, ci aspetteremmo che nelle nostre chiese evangeliche la situazione fosse totalmente diversa – e spero davvero che questa statistica non rispecchi la nostra realtà – ma non è saggio ignorare la grande pressione che i mutamenti negli usi e costumi della società esercita, in modo sempre più aggressivo, sulle nostre vite, sui nostri pensieri, nelle nostre chiese. Il rischio è enorme.

Ho sentito tante testimonianze di credenti caduti nell’adulterio. Tutti quelli con cui ho parlato hanno affermato in lacrime che non volevano farlo.

Per i non credenti, il punto di partenza è che l’infedeltà e i tradimenti sono cose che succedono quando si sta male in una relazione; vanno capite e giustificate.

Dio, però, odia l’infedeltà, e la condanna. Anche chi ha poca familiarità con la Bibbia lo sa. Il problema è questo: se qualcuno, pur non volendo, commette questo peccato non ha fatto il necessario per proteggersi.

Il processo che porta alla caduta, nella maggioranza dei casi, è lento, non voluto, ma MAI casuale!

Non è mai casuale perché si permette a quelle piccole crepe di espandersi e creare divisioni, amarezze, che poi apriranno la porta alla caduta.

In ogni matrimonio ci sono difficoltà: l’unione di due persone imperfette e peccatrici – seppur salvate – non basta per un “e vissero felici e contenti per il resto della loro vita”.

Quante volte ho sentito uomini parlare male delle loro mogli. 
E quante donne si lamentano dei loro mariti. 

Ho sentito coppie di credenti affermare che non si amano affatto. Eppure, si erano sposati volontariamente e convinti. Il loro non era un matrimonio per interesse né forzato da cause al di là della loro volontà. Avevano la piena facoltà di scegliere di sposarsi per amore. Si credevano innamorati, ma forse avrebbero fatto meglio a dare ascolto agli avvertimenti dei loro cari. 

L’innamoramento dura un periodo, l’amore invece è un impegno che porta frutti per tutta la vita. 

L’incompatibilità di carattere è ormai una scusa accettata per giustificare un ampio spettro di atteggiamenti e comportamenti sbagliati, da gesti e toni dispettosi, fino a tradimenti e divorzi. 

Per un figlio di Dio l’incompatibilità di carattere non può esistere: il nostro modello da seguire è il perfetto Figlio di Dio, che ha dato se stesso per noi; e pure noi dobbiamo dare noi stessi per i nostri fratelli. Tanto più quando si tratta del nostro coniuge!

La caduta nell’infedeltà è lenta ma non inesorabile

Un rapporto di coppia entra in crisi quando le insoddisfazioni e la scontentezza diventano normali, e non si fa nulla per riparare la situazione. 

Agli inizi della vita insieme si passa sopra a tante piccole irritazioni, sperando, anche ingenuamente, che senza affrontare il problema l’altro cambi spontaneamente. 

Se questo non avviene, i motivi per essere frustrati si accumulano. Quando finalmente si decide di affrontarli, ormai il peso emotivo dell’insofferenza avrà raggiunto dimensioni tali che sarà difficile aprire un dialogo che non degeneri in un duello.

L’insoddisfazione covata a lungo diventa motivo di paragone con altre coppie che conosciamo. Il coniuge che ci ferisce, ci disturba e ci rende infelici non regge il confronto con gli altri mariti sempre più premurosi, più attenti, intraprendenti, affidabili e più bravi di lui...

Di soppiatto il male ha messo le radici velenose nella coppia. È ancora molto nascosto, ma è all’opera. Certo la coppia lo avverte eccome, ma gli amici, e forse anche la famiglia, ne sono tutti completamente all’oscuro. E questo non è buono. Non è buono non affrontare i problemi nella coppia, ma non è buono nemmeno soffrire in silenzio, senza cercare aiuto esterno competente quando serve.

L’aiuto che ti rovina

La discesa verso la caduta comincia quando inizi a confidarti con un amico del sesso opposto. Ti ripeti che ti stai soltanto sfogando, nulla di male, ma (guarda caso!) trovi nell’altra persona qualcuno che sta passando la tua stessa situazione, qualcuno che finalmente ti capisce ed è esterrefatto dalla cattiveria e dall’ottusità del tuo coniuge, che non vede i tuoi pregi e che ti tratta così male.

Piano piano tra i due si forma una complicità, un’amicizia e una dipendenza che al principio sembrano del tutto innocue. 

Cercavi comprensione e l’hai trovata nella persona sbagliata. La tua discesa è avviata: passa da qualche dimostrazione di affetto a qualche abbraccio improprio, e la caduta è dietro l’angolo.

Capire dove e come la discesa ha il suo inizio è importante per poterla prevenire. Di solito sono luoghi dove passi molto del tuo tempo. Il posto di lavoro, la palestra, ma anche la chiesa e i contatti sui social.

Secondo Today, un sito di notizie online, è indubbio che le chat e i social network abbiano dato un impulso enorme ai tradimenti. “Mai come negli ultimi 5 anni”, dice l’avvocato Lorenzo Puglisi, presidente e fondatore dell’associazione Familylegal, all’Adnkronos. E continua: “Il dating online ha oramai superato il vecchio approccio vis à vis per lasciare spazio al flirting tramite smartphone. 

“L’uso di queste app è aumentato vertiginosamente”, aggiunge l’esperto, “Stando ai dati raccolti da Familylegal, nella sola Milano, il 45% dei matrimoni salta per i tradimenti scoperti da uno dei due partner e consumati su Instagram, Whatsapp, Tinder, Grinder, Badoo o Happn.”

Ormai internet ha aperto una nuova porta, se non un portone, per la caduta di molti. Ciò che lo rende ancora più pericoloso è il fatto che tradire è facile, alla portata di tutti, e sembra innocuo perché non hai una persona fisica davanti a te. E quello che inizia come un’avventura virtuale diventa presto un tradimento reale.

I pericoli sono dietro l’angolo – o lo schermo – per tutti noi, ma non è una novità. Salomone migliaia di anni fa ne ha parlato nel suo libro dei proverbi: “Uno si metterà forse del fuoco in petto senza che i suoi abiti si brucino? Camminerà forse sui carboni accesi senza scottarsi i piedi?” (Proverbi 6:27,28).

Dobbiamo proteggere i nostri matrimoni e per farlo cominciamo dall’ABC della cura delle nostre relazioni.

A come AMICIZIA

Prima di tutto dobbiamo proteggere l’amicizia intima tra noi e il nostro coniuge. 

Salomone scriveva: “Come ho fatto a non ascoltare la voce di chi m’insegnava, e a non porgere l’orecchio a chi m’istruiva? Poco mancò che non mi trovassi immerso in ogni male, in mezzo all’assemblea e alla comunità. 
“Bevi l’acqua della tua cisterna, l’acqua viva del tuo pozzo. Le tue fonti devono forse spargersi al di fuori? I tuoi ruscelli devono forse scorrere per le strade? Siano per te solo, e non per gli stranieri con te. Sia benedetta la tua fonte, e trova gioia nella sposa della tua gioventù. 
“Cerva d’amore, capriola di grazia, le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii sempre rapito nell’affetto suo” (Proverbi 5:13-19).

È chiaro che trovare soddisfazione nel posto sbagliato non è un pericolo solo moderno. La risolutezza di essere appagati dalla propria moglie, o dal proprio marito, deve essere sempre mantenuta viva. È un’amicizia, e un’intimità esclusiva che va conservata, protetta e tutelata.

Il versetto in Genesi 2:24: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne” non sta parlando solo dell’unione sessuale. Dio sta dicendo che il legame nella coppia deve essere completo; l’amicizia, l’interesse, la cura, la complicità devono essere preservate e curate. 

Considera questo: nelle Scritture, la relazione tra Adamo ed Eva, come quella di tante altre coppie che li hanno seguiti, non si era sviluppata dopo un lungo corteggiamento o un primo periodo di solo amicizia, ma il loro legame si era sviluppato e consolidato proprio nell’ambito del matrimonio stesso.

Non ci sono dubbi che esistono molte forze nemiche di quest’affinità unica, cominciando con la nostra peccaminosità e il nostro carattere. 

Ma ci sono anche altri ostacoli come i suoceri, i figli, il lavoro, gli hobby e i propri interessi che possono minare la solidità dell’amicizia esclusiva nella coppia. 

Le altre relazioni interpersonali sono certamente importanti e giuste, ma devono essere curate senza che diventino un ostacolo all’intimità di coppia.

Nulla può sostituire il duro lavoro che serve per proteggere questa intimità. 

Quando i due componenti della coppia non hanno in comune la stessa fede che li unisca spiritualmente, hanno un grandissimo muro da valicare. Non è insormontabile, ma richiede molto più lavoro. Un marito, o una moglie, che si converte dopo il matrimonio, se il coniuge non lo segue nella fede, deve lavorare duro nel curare con attenzione l’amicizia. 

Le differenze di fede sono un ostacolo non da poco, ma il Signore ci ha dato istruzioni su come preservare la relazione anche in quelle circostanze: per la moglie è la sottomissione, e per il marito un amore sacrificale che prende continuamente l’esempio da Cristo.

Praticamente una coppia che vuole far crescere la propria amicizia deve passare tempo insieme, deve far sì che quel tempo dedicato solo a loro due non subisca interferenze esterne. 

Non ci vuole tanto, basta una passeggiata, una cenetta, un programma in TV guardato insieme con un po’ di popcorn… Di idee ce ne sono molte, serve solo un pizzico di creatività e la costanza, specialmente quando i figli sono piccoli e il lavoro è tanto. Non si dovrebbe mai trascurare questa necessità.

E qui bisogna menzionare anche un’altra cosa, senza entrare nei particolari: curate il vostro contatto fisico! Troppe coppie col passare del tempo si trascurano e smettono di essere affettuose, tutto diventa scontato e normale. Anche la fiamma più forte si affievolisce se non viene alimentata.

B come BENEVOLENZA

Dopo le nozze si scopre ben presto che non si è perfetti! Certo lo si sapeva prima, ma anche il più prevenuto sarà sorpreso nello scoprire quanto lontani si è dagli ideali. 

Il motivo è la peccaminosità che è in tutti noi, e che può costituire la rovina del matrimonio.

Il nostro orgoglio e l’egoismo che è in noi ci inducono ad essere poco benevoli già di natura, e col tempo possono creare rotture profonde.

L’amarezza, il disappunto, le incomprensioni possono velocemente creare una spaccatura nel rapporto. È per questo motivo che l’apostolo Paolo scriveva: “Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete qualcuna buona, che edifichi secondo il bisogno, ditela affinché conferisca grazia a chi l’ascolta. 

“Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Efesini 4:29-31).

Non sarebbe una cattiva idea imparare a memoria questi versetti! Metterli in pratica costantemente è un antidoto contro quell’insoddisfazione che spalanca la porta all’infedeltà.

Prevenire è meglio del curare, e la prevenzione sta proprio nel modo in cui ci si parla l’un l’altra.

Stare attenti a non dire parole malvagie che offendono e fanno male, non può che far del bene a entrambi. Non dà occasioni per ritorsioni e ripicche. 

Ma c’è di meglio. 

Trovare un lato positivo al posto di una critica, commentare in modo costruttivo e pacifico, lodare, ringraziare e incoraggiare produce effetti benevoli nel rapporto. 

Ovviamente tutto questo è vano se non si è sinceri. Sarebbe solo sarcasmo, e il sarcasmo non ti fa guadagnare punti davanti al tuo coniuge. E, francamente, ci si può innamorare di qualcuno che ci tratta con sarcasmo?

Bisogna anche essere avveduti nel saper scegliere il momento giusto per dire le cose. Se uno dei due è scoraggiato o teso per qualsiasi motivo, sarà meglio aspettare un’occasione più favorevole per aprire un discorso.

Ammettiamocelo, le nostre parole sono troppo spesso motivate dall’egoismo. Diciamo ciò che abbiamo in testa senza riflettere sullo stato d’animo o sulle circostanze che nostro marito, o nostra moglie, sta passando. Invece le nostre parole dovrebbero produrre grazia in chi ci ascolta. 

Quando è stata l’ultima volta che le tue parole hanno avuto questo effetto?

Questo non vuol dire che non si debba riprendere o correggere, ma il nostro fine deve essere sempre il bene dell’altro. Nel parlare, il punto di riferimento non dobbiamo essere noi, ma l’altra persona.

Se sei come me, sai benissimo che spesso le nostre parole non passano al vaglio del chiaro comandamento di Dio in Efesini 4:29-31. Eppure, il suo scopo è il nostro bene! 

Infatti, ogni volta che non rimediamo alle cose dette avventatamente, con le quali abbiamo ferito o offeso il nostro coniuge, stiamo fornendo noi i “mattoni” di amarezza, risentimento e rabbia che finiranno con l’irrobustire quel muro di divisione che dovremmo invece abbattere. 

Nel tempo questi sentimenti non affrontati e risolti diventano un trampolino da cui lanciare nuove parole cattive.

Così si diventa sempre più agguerriti l’uno contro l’altra; le frecciate “scherzose” davanti agli estranei, le critiche, le lamentele mascherate da simpatiche battute fanno male e sono un’abitudine malsana.

Se hai cominciato a comportarti così e pensi di risultare simpatico agli occhi degli amici punzecchiando il tuo coniuge in pubblico, smettila subito! E sappilo, molto probabilmente stai solo creando imbarazzo in chi ascolta.

Spesso, proprio quando questo modo malsano di relazionarsi diventa un’abitudine, si comincia a cercare qualcuno più comprensivo, più carino nei propri confronti e, come abbiamo detto, si è spalancata la porta a quella relazione rovinosa che al principio sembra tanto innocua e utile per farci stare meglio.

C come CAUTELA

Ogni coppia deve essere estremamente cauta nelle proprie relazioni con le persone dell’altro sesso. 

C’è una regola di comportamento chiamata la “regola di Billy Graham” seguita da alcuni uomini che occupano una posizione pubblica in America. Il noto evangelista l’aveva osservata tutta la vita. Non passava mai del tempo da solo con una donna che non fosse sua moglie, nemmeno se si trattava di un pranzo di lavoro. Lo faceva per proteggere la propria integrità e per evitare qualsiasi tipo di tentazione. 

Alcuni di quelli che hanno dichiarato di seguire questa regola sono stati criticati e presi in giro dai media. Molti la considerano una precauzione inutile ed esagerata, ma lo è veramente? Meglio eccedere in cautela che in spavalderia.

L’autore dell’epistola agli Ebrei scriveva: “Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri” (13:4).

Onorare il letto coniugale implica proprio un’attenzione estrema a non cadere in nessun tipo di atteggiamento o comportamento non onorevole.

Oggi, grazie a internet, è facile intrattenere rapporti clandestini con persone dell’altro sesso e chattare in modo intimo, anche con persone con le quali non si avrebbe mai il coraggio di parlare nello stesso modo a tu per tu. 

Conosco diversi casi in cui le relazioni extraconiugali sono state alimentate da e-mail e messaggi privati all’insaputa totale e – stranamente –indifferenza dell’altro coniuge.

Più tempo passi a chattare o messaggiare e più breve diventa il passo da una chat intima via internet a un incontro reale.

Il marito e la moglie non dovrebbero avere account segreti di e-mail o di social media. Mia moglie ha il pieno accesso alle mie e-mail e al mio telefonino in qualsiasi momento. Io ho lo stesso diritto nei suoi confronti. Non è un segno di mancanza di fiducia reciproca. L’abbiamo deciso insieme perché sia un continuo deterrente contro qualsiasi, anche la più minima o involontaria indiscrezione.

Qualcuno penserà che io stia esagerando, ma, purtroppo, alla luce della devastazione a causa dell’infedeltà di cui sono stato testimone, nessuna precauzione è esagerata.

Ma la C sta anche per un altro aspetto dell’essere cauti: è il CURARE la propria intimità fisica. L’apostolo Paolo ne parla: “Ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito renda alla moglie ciò che le è dovuto; lo stesso faccia la moglie verso il marito. 

“La moglie non ha potere sul proprio corpo, ma il marito; e nello stesso modo il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie. Non privatevi l’uno dell’altro, se non di comune accordo, per un tempo, per dedicarvi alla preghiera; e poi ritornate insieme, perché Satana non vi tenti a motivo della vostra incontinenza” (1 Corinzi 7:2-5, il grassetto aggiunto).

Dio ci ha creati con i desideri sessuali e ha previsto che siano appagati e soddisfatti nel matrimonio.

La sessualità è un dono che Dio ha fatto, ma Satana può servirsi dei nostri appetiti sessuali e insinuarsi per guastare il piano di Dio per la coppia.

Certo è che se non si è amici, se non si è benevoli, il rapporto intimo diventa un peso più che un piacere. Quando una coppia entra in crisi, la vita sessuale, anziché essere un piacere regolare diventa un ricordo lontano di tempi migliori. 

È un argomento che deve far parte delle conversazioni normali nella coppia, e ci vuole comprensione e apertura da parte di tutti e due perché il rapporto sessuale sia una piena soddisfazione reciproca.

Detto molto praticamente: curate il vostro aspetto, curate il lato affettivo e fisico della vostra relazione. Siate disponibili e premurosi anche in questo campo.

Un modo molto semplice di essere prudenti e cauti è portare sempre la fede nuziale. Sono sorpreso da quante persone sposate non la portino più. Forse c’è un motivo pratico dietro questo: forse la fede ti va troppo larga o è stretta perché hai cambiato peso, o forse l’hai smarrita. Farla aggiustare o comprarne una nuova può essere costoso, ma esistono anche anelli di classe ma economicamente accessibili. 

Portare la fede nuziale avverte gli altri che siamo sposati. Dirai che non sia poi un grande deterrente, ma, se non altro, è una tua chiara affermazione di non essere disponibile sentimentalmente!

Onorare Dio

Un figlio o una figlia di Dio non va in cerca dell’infedeltà coniugale, ma allo stesso tempo, se cade, la sua caduta non avviene mai casualmente e senza il suo coinvolgimento. 

Esistono coppie in cui l’amicizia, la benevolenza e la cautela non necessitano di sforzi o attenzione particolari, e non rischiano l’infedeltà. La promessa fatta l’uno all’altra davanti al Signore è un deterrente sufficiente per loro. Ma nella società in generale è considerata sempre meno vincolante. 

La maggior parte delle persone pensano che in fin dei conti quando finisce un amore sia accettabile, se non auspicabile, trovarne un altro. In questo i personaggi pubblici sono stati rompighiaccio, infondendo l’idea che sia normale passare da un rapporto a un altro. 

Oltretutto ormai c’è “l’alternativa” della convivenza. Allora non si sposano più proprio per non sentirsi legati. 

Per coloro che amano Dio e che gli vogliono ubbidire non è un’opzione. 

Siamo tutti deboli, ognuno lo è, perciò dobbiamo fare di tutto per proteggere il nostro matrimonio.

Forse non pensi di essere vulnerabile, ma hai preso in considerazione che col tuo comportamento potresti contribuire a rendere tuo marito, o tua moglie, vulnerabile? 

Certo, il tuo coniuge è responsabile davanti a Dio delle sue azioni, ma assicurati che tu non sia uno strumento nelle mani di Satana per farlo cadere.

Ricostruire, risanare e ristabilire il matrimonio dopo un peccato d’infedeltà è difficile e doloroso, ma non impossibile. Con l’aiuto del Signore e con il supporto e la cura di fratelli e sorelle maturi nella fede si può salvare anche il rapporto più disastrato. Ma non c’è dubbio che la cosa più saggia è fare tutto il possibile per non caderci. Dopotutto il matrimonio è un dono di Dio in cui sono previste le gioie più profonde della vita. Un motivo in più per proteggerlo a tutti i costi!

Il piano di Dio è che marito e moglie si amino con fedeltà, e che il matrimonio sia un esempio dell’amore che Dio ha per la sua chiesa. Preghiamo per il nostro matrimonio, per quello dei nostri fratelli e amici, e curiamoci a vicenda!

I cioccolatini e i fiori difficilmente riescono a salvare un rapporto che sta naufragando, ma piccoli gesti come questi, durante tutto l’anno, fanno sempre piacere e contribuiscono alla buona convivenza. A meno che non si è allergici al cioccolato. 

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La VOCE gennaio 2020

Mi pare di sentire ancora la voce di mio padre che mi invitava ad andare in camera sua…

La stanza era piuttosto modesta: c’era giusto un cassettone, un armadio, due comodini, il letto matrimoniale e, vicino alla finestra, la poltrona di mio padre dove aveva l’abitudine di fare le sue letture. Ma, quando mi convocava, a volte entrando notavo con una certa apprensione un ospite indesiderato: sul letto, vicino a lui, c’era un mestolo di legno in bella mostra.

Mio padre non mi puniva mai con ira. Prima di “procedere”, mi spiegava molto pacatamente il motivo per cui sarei stato punito. Voleva che io lo comprendessi. Per il mio bene. 

Appena finita la spiegazione, però, la mia domanda era puntualmente la stessa: “Quante ne prendo?” 

La facevo con la voce tremolante, condita con  lacrime grandi come cocomeri e con profuse richieste di perdono. Speravo così di riuscire ad addolcire il cuore di mio padre – vedendo il mio pentimento mi avrebbe aggiudicato meno mestolate.

Ero solo un bambino, ma avevo già intuito i meccanismi della persuasione. 

Le mie lacrime, cos’erano in fondo? Un segno di pentimento sincero? Un tentativo, un escamotage per evitare il castigo? O piangevo più per le eventuali conseguenze del mio misfatto che per il dolore della punizione stessa?

I giochi psicologici non funzionano con Dio. 
Lui non accetta pentimenti esteriori o falsi, anzi, li detesta. 

La verità è che quando siamo castigati, dobbiamo esaminarci con onestà, perché potrebbe essere che, malvagi come siamo, ci stiamo solo autoingannando pensando di esserci pentiti, quando in realtà resistiamo all’opera correttiva di Dio per produrre frutti degni di ravvedimento in noi.

Diventa perciò importante capire quali siano i segni essenziali del vero pentimento.

Quell'uomo deve morire!

Un giorno il profeta Natan si presenta al re Davide per riferirgli un episodio di clamorosa ingiustizia (è raccontato in 2 Samuele 12:1-4): “Un certo uomo, straricco ma taccagno, proprietario di tantissime pecore, per fare bella figura davanti a un ospite inaspettato, non ha voluto prendere una delle sue pecore per preparagli un pasto; ha preso invece l’unica agnellina di un suo vicino povero, l’ha scannata e cucinata per il suo ospite. 

“Quell’agnellina era l’unica che il vicino aveva. Era cresciuta in casa sua insieme ai figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era stata come una figlia per il povero.”

A sentire questo, Davide si adira moltissimo. “Quell’uomo deve morire!” sentenzia. 

Nel suo grande sdegno Davide oltrepassa quello che Dio ha decretato come punizione per il furto. No, il risarcimento sarebbe stato troppo lieve. Il suo eccesso di rabbia lo fa sentire più giusto di Mosè stesso, tramite il quale Dio ha dato la legge. 

Oppure, più verosimilmente, reagisce così per soffocare il senso di colpa che lo rode dentro per quello che ha fatto?

È passato ormai un anno. Davide non ne ha fatto parola con nessuno, ma Dio non si è dimenticato  del peccato di Davide. 

L’anno prima, dalla sua terrazza, Davide vide una donna bellissima farsi il bagno. La desiderò, la fece chiamare e commise adulterio con lei.

Ed ecco che accadde il patatrac: Bat-Sceba, la donna, rimase incinta! 

Il marito della donna era un soldato di Davide, impegnato in guerra, come anche Davide avrebbe dovuto essere. 

Davide cercò quindi di risolvere il problema richiamando Uria, il marito, al castello con la scusa di voler avere notizie sulle sue truppe. Sperava che l’uomo potesse avere relazioni con la moglie, in modo da far sembrare lui il padre del bimbo che Bat-Sceba portava in grembo. 

Ma Uria, volendo essere ligio ai suoi compagni d’arma rimasti a combattere, decise di non recarsi a casa da sua moglie, ma di coricarsi alla porta del palazzo insieme a tutti i servi del suo signore. 

Saputo questo, il giorno dopo, Davide fece un altro tentativo per convincere Uria ad andare dalla moglie invitandolo a cena e facendolo ubriacare. Ma quando anche questo fallì, il re escogitò un piano per risolvere il suo problema: di nascosto condannò a morte Uria. 

Lo rimandò in guerra con una lettera di istruzioni per i suoi generali, che dovevano mandarlo in prima linea e poi ritirarsi da lui, lasciandolo nelle mani dei nemici, che lo avrebbero ucciso. 

E così fu.

Per circa un anno il re Davide pensava di averla fatta franca: prese per sé la vedova di Uria per coprire il suo peccato. Nessuno sapeva dell’adulterio. Nessuno sapeva che ha fatto uccidere Uria. 

Ma ora Natan gli svela che l’uomo empio del suo racconto è in realtà Davide stesso. Gli riferisce, parola per parola, tutto il dispiacere e il giudizio di Dio contro lui (2 Samuele 12:7-12). 

L’adulterio e l’omicidio sono solo conseguenze del suo peccato più grande, quello di aver disprezzato la parola del Signore. 

Davide aveva disprezzato il Dio d’Israele. Ora la spada non si sarebbe allontanata dalla sua casa. 

Il canto dell’omicida insegna

Dalle Scritture sappiamo che Davide confessò subito di aver peccato contro il Signore, e si pentì. 

Poi, dietro l’ispirazione di Dio, scrisse una preghiera in cui espose tutto ciò che c’era nel suo cuore. È il Salmo 51. In esso Dio stesso rivela quali siano le caratteristiche di un vero pentimento. 

È anche un avvertimento contro un pentimento solo esteriore, all’acqua di rosa. Infatti nel versetto 17 Davide scrive: “Sacrificio gradito a Dio è uno spirito afflitto; tu, Dio, non disprezzi un cuore abbattuto e umiliato.” 

La Scrittura ci esorta a esaminarci costantemente (Salmo 139:23,24; 2 Corinzi 13:5; 1 Giovanni 1:6-10) per non illuderci di essere a posto davanti a Dio quando invece non lo siamo. 

Il nostro cuore è più malvagio di quello che possiamo immaginare ed è incline a ingannarci, particolarmente sulla nostra salute spirituale. Il pentimento di Simon mago (Atti 8) e quello di Giuda sono un monito a tutti: ognuno di noi deve valutare il proprio pentimento.

Ecco otto caratteristiche di un pentimento che Dio non disprezza ma gradisce, tratte dal Salmo 51.

1. Appellarsi unicamente al carattere e alla grazia di Dio

“Abbi pietà di me, o Dio, per la tua bontà; nella tua grande misericordia cancella i miei misfatti. Lavami da tutte le mie iniquità e purificami dal mio peccato” (Salmo 51:1,2).

Non ci si avvicina a Dio presentando scuse o vantando meriti propri. L’unica richiesta che possiamo fare è quella di essere perdonati per la sola grazia di Dio. La pietà di Dio e la sua bontà sono gli unici agenti che inducono Dio a perdonare.

Davide si avvicina a Dio in completa umiltà con una piena ammissione di colpa. Non si lascia nessuna scappatoia.

Usa tre termini distinti per descrivere la sua colpevolezza: misfatto, iniquità e peccato. Rappresentano tre aspetti diversi della sua condizione. 

Il primo, misfatto, è la ribellione. Nel peccare aveva scelto deliberatamente di trasgredire le leggi di Dio. 

Il secondo aspetto è la sua condizione depravata. Davide non è buono. Nessuno lo è. Quelli che dicono che l’uomo sia fondamentalmente buono non si sono mai guardati allo specchio, non sono onesti con loro stessi. Il peccato di Davide aveva rivelato cosa c’era veramente dentro di lui. 

Il terzo aspetto è l’incapacità dell’uomo di fare il bene anche quando lo desidera.

Questi tre aspetti, comuni a tutti, escludono ogni nostra possibilità di vantare motivi o meriti personali per essere perdonati. Possiamo solo aggrapparci all’amore immeritato e sorprendente di Dio.

2. Riconoscere di aver offeso Dio

“…riconosco le mie colpe, il mio peccato è sempre davanti a me. Ho peccato contro te, contro te solo, ho fatto ciò ch’è male agli occhi tuoi. Perciò sei giusto quando parli, e irreprensibile quando giudichi” (Salmo 51:3,4).

Potrebbe sembrare strana questa affermazione di Davide, dopotutto aveva tradito il popolo venendo meno nel suo ruolo di capo dell’esercito, aveva commesso adulterio con Bat-Sceba e aveva fatto uccidere Uria, un suo soldato, che al contrario avrebbe dovuto proteggere. Come mai dice che ha peccato solo contro Dio? 

Non voglio sminuire il danno e l’offesa che rechiamo agli altri peccando contro loro, ma la verità è che ogni peccato è un’offesa contro Dio. È Lui in primis la persona offesa, perché è anche l’unico che può perdonare o condannare il peccatore. 

È facile incolpare gli altri per il male che abbiamo fatto. Sono sicuro che è successo anche a te. È nella nostra natura umana, tarata dal peccato. Ma quando ci rendiamo conto di aver offeso Dio, tutte le nostre scuse non sono altro che meschinità. 

Infatti, credo che questa sia la chiave per evitare di ricadere sempre negli stessi peccati. Finché non arriviamo a prendere piena coscienza del fatto che con il nostro atteggiamento offendiamo Dio, e che Lui conosce perfettamente le nostre colpe, rischiamo di scusare e razionalizzare i nostri peccati abituali. 

Davide, nel salmo, riconosce di aver offeso Dio, ma riconosce anche che Dio è Colui che stabilisce cosa sia il peccato e quali siano le conseguenze che ne derivano. Più precisamente, riconosce che Dio, nella sua giustizia e sovranità, ha il diritto di infliggere la punizione che vuole, e di determinare le conseguenze di ogni singolo peccato.

Nel caso di Davide, Dio gli aveva fatto morire il bambino e aveva decretato che, a causa del suo peccato, ci sarebbero state tragiche conseguenze nella famiglia reale. In tutto il salmo Davide non contesta né si lamenta del giusto giudizio di Dio.

3. Riconoscere la propria condizione di totale depravazione

“Ecco, io sono stato generato nell’iniquità, mia madre mi ha concepito nel peccato. Ma tu desideri che la verità risieda nell’intimo: insegnami dunque la sapienza nel segreto del cuore” (Salmo 51:5,6).

Davide sta dicendo è che si rende conto di quanto sia pervasivo il peccato nella sua vita. È nato nell’iniquità. La sua condizione depravata, che risiede nella sua natura umana, richiede un intervento radicale da parte di Dio. 

La durezza con cui aveva reagito alla storia di Natan, e l’arroganza che lo aveva portato a nascondere il suo peccato per tanto tempo, non ci sono più. Non c’è più spazio per giustificazioni. C’è solo un’umile richiesta di un profondo cambiamento interiore prodotto da Dio.

Non abbiamo bisogno solo di essere perdonati, ci serve anche un nuovo cuore che desideri sottomettersi alla volontà di Dio. Ed è quello che Lui ha promesso di fare: avrebbe trasformato i nostri cuori di pietra in cuori di carne (Ezechiele 36:25-27). 

Si tratta di un cambiamento così profondo e radicale che è impossibile simulare. Non consiste nel modificare il comportamento esteriore o le abitudini: è l’intimo che cambia. Le vecchie voglie e passioni saranno sostituite con nuovi desideri puri, e una nuova sete di essere istruiti nella verità. 

Abbiamo bisogno di essere istruiti su quello che è giusto, ma anche su come fare ciò che è giusto. Una persona pentita ha un atteggiamento umile di sottomissione, si fa scrutare dalla verità, ed è pronta a cambiare perché consapevole della propria incapacità di fare automaticamente il bene.

4. Desiderare di essere perdonato, purificato e trasformato

“Purificami con issopo, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve. Fammi di nuovo udire canti di gioia e letizia, ed esulteranno quelle ossa che hai spezzate. Distogli lo sguardo dai miei peccati, e cancella tutte le mie colpe” (Salmo 51:7,8).

Il cambiamento interiore di cui abbiamo parlato non avviene, come per incanto, con una bacchetta magica, ma è un processo che Dio deve attuare e portare avanti. Spesso richiede lavoro, tempo e, a volte, comporta sofferenza. Chi si è davvero pentito non chiede sconti né scorciatoie, ma solo che Dio completi l’amorevole opera che ha cominciato in lui.

L’obiettivo ultimo di Dio nel redimerci è quello di essere eternamente glorificato. Egli lo sarà anche in noi, suoi figli (1 Corinzi 6:20; 2 Tessalonicesi 1:10). Per questo ha un piano preciso, uno scopo per noi: quello di trasformarci nell’immagine del suo Figlio Gesù Cristo. 

Questo processo di trasformazione non sarà né più duro né più lungo del necessario. Sarà perfetto e porterà i frutti che Dio desidera. Sarebbe stolto da parte nostra accontentarci di meno di questo. Non ambire a essere trasformati dimostrerebbe la nostra mancanza di pentimento.

Le ossa spezzate potrebbero essere necessarie in questo processo, ma è l’unico che porta al risultato finale che piace a Dio.

Se dentro il nostro cuore si annida amarezza, o anche rabbia per le ovvie conseguenze del nostro peccato, dobbiamo rivedere con onestà se ci siamo pentiti davvero o se vogliamo restare aggrappati al nostro “vizio”. 

Ci sono nella tua vita schemi comportamentali che dovresti rompere? Dei peccati che ripeti sempre? Quelli che giustifichi dicendo che sei fatto così? Essere fatti così non è una buona scusa, perché in un certo senso tu SEI fatto così, perché sei stato “generato nell’iniquità” come chiunque altro. Ma per non restare così devi lasciare che Dio ti spezzi le ossa che devono essere spezzate.

Mio figlio da piccolo si ruppe il braccio e dovette portare il gesso per un mese. Dopo averlo tolto, i dottori scoprirono che il braccio era ancora storto perché l’osso si era fuso male. Lo dovettero rompere chirurgicamente e mio figlio portò il gesso altri trenta giorni. Non era quello che speravamo, ma era l’unico modo per avere il risultato desiderato.

Il bello di questo processo è che col vero pentimento c’è la certezza del perdono completo ed eterno. Solo Dio può allontanare da noi le nostre colpe e allontanarle per sempre! Una volta perdonati Dio non ci rinfaccerà più nulla.

5. Riconoscere il bisogno di una trasformazione radicale soprannaturale 

“O Dio, crea in me un cuore puro e rinnova dentro di me uno spirito ben saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non togliermi il tuo Santo Spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza e uno spirito volenteroso mi sostenga” (Salmo 51:10-12).

Nella Bibbia, il cuore non si riferisce solo ai sentimenti, ma alla nostra essenza intima. 

Il profeta Geremia aveva esclamato che il nostro cuore è ingannevole più di ogni altra cosa e insanabilmente maligno (Geremia 17:9). Siamo facilmente ingannati dal nostro stesso cuore. La risposta di Dio a Geremia non si era fatta attendere: “Io, il Signore, che investigo il cuore, che metto alla prova le reni, per retribuire ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni” (17:10). Solo il Signore conosce la verità di quello che si nasconde nei nostri pensieri, nei nostri desideri e nei nostri sentimenti. 

Per questo l’apostolo Paolo dice che dobbiamo permettere a Lui di cambiare il nostro modo di ragionare (Romani 12:2). Abbiamo bisogno di una continua trasformazione, perché siamo propensi a cadere di nuovo. Abbiamo bisogno di essere sostenuti da uno spirito saldo nel Signore. Lo Spirito Santo, che abbiamo rattristato con il nostro peccato, deve operare in noi e guidarci nella verità.

In un altro salmo (Salmo 32) Davide aveva parlato dell’oppressione che non lo abbandonava mai durante il periodo di ribellione a Dio. Ora invece si aspetta di provare vera gioia nel suo rapporto con il suo Salvatore. Il vero pentimento è caratterizzato dalla rinnovata gioia di essere salvati.

6. volere servire Dio con la confessione e la testimonianza 

“Insegnerò le tue vie ai colpevoli, e i peccatori si convertiranno a te. Liberami dal sangue versato, o Dio, Dio della mia salvezza, e la mia lingua celebrerà la tua giustizia. Signore, apri tu le mie labbra, e la mia bocca proclamerà la tua lode” (Salmo 51:13-15).

Questo per me è senza dubbio l’aspetto più bello e incoraggiante del pentimento che Dio approva. Quando il peccato è perdonato si ha anche la possibilità di servire il Signore di nuovo. Laddove prima desiderava solo coprire e ignorare le proprie colpe, ora Davide vuole essere uno strumento di Dio nella vita degli altri.

Il suo pentimento genuino lo ha spinto a scrivere questo salmo, un salmo che sarebbe stato recitato e cantato da tutto il popolo. Il suo peccato non sarebbe più rimasto nascosto, ma esposto, e non solo per qualche tempo, ma per migliaia di anni in tutto il mondo! 

Un nuovo desiderio era affiorato in lui: aiutare altri a confessare il peccato che stanno cercando di coprire. La possibilità che le sue parole potessero prevenire la caduta di altri gli procurava felicità.

Nel parlare del suo peccato, o delle ripercussioni che questo aveva portato nella sua vita, Davide avrebbe celebrato la giustizia di Dio.

Non c’era spazio per l’autocommiserazione, solo la voglia di esaltare il Dio che perdona, che è giusto nel giudicare, e che nei suoi figli produce i risultati eterni alla sua gloria.

Che cambiamento! Non c’era amarezza. Il peccato coperto aveva procurato solo danni a Davide e a tante altre persone, il peccato confessato e abbandonato ha portato, e continua a portare, un bene eterno a innumerevoli persone in tutto il mondo.

7. Avere uno spirito afflitto e un cuore rotto davanti a Dio

“Tu infatti non desideri sacrifici, altrimenti li offrirei, né gradisci olocausto. Sacrificio gradito a Dio è uno spirito afflitto; tu, Dio, non disprezzi un cuore abbattuto e umiliato” (Salmo 51:16,17).

Non ogni pentimento è gradito a Dio. Saul, che regnò prima di Davide, sembrava dispiaciuto e anche pentito di aver trasgredito al comandamento che Dio gli aveva dato per mezzo di Samuele (1 Samuele 16), ma le scuse che s’inventò e le bugie che raccontò, e quello che gli successe più tardi, provano che il suo pentimento fu tutt’altro che genuino. 

Era rattristato, si capisce, perché il regno sarebbe stato tolto alla sua famiglia, ma l’astio che covava contro Davide dimostra che non aveva accettato con un cuore umiliato e contrito il castigo di Dio.

Anche Giuda, quando gli fu chiaro che Gesù era stato condannato, ammise di aver “peccato consegnandovi il sangue innocente” (Matteo 27:3-5). Addirittura, sembra che volesse annullare il suo tradimento restituendo la somma che aveva pattuito per aver consegnato Gesù. Si era pentito, certo, e provava rimorso fino al punto di suicidarsi. Morì senza essere stato perdonato. Pietro, in Atti 1, citando il salmo 109, fa capire infatti che Giuda era davvero un “figlio di perdizione”, come l’aveva definito Gesù (Giovanni 17:12). 

In Giobbe, invece, abbiamo un esempio diverso. Ad un certo punto sembra che si fosse umiliato davanti a Dio, ma si trattava di una umiliazione incompleta. Bisognava ancora che Giobbe si rendesse conto dell’assoluta santità e sovranità del suo Creatore. Doveva acquisire la prospettiva giusta sulla differenza tra se stesso e Dio. Non aveva a che fare con un Essere alla pari.

Non ci sono riti religiosi o azioni pie che possano indurre Dio a fare alcunché, tanto meno a perdonare qualcuno che non abbia un cuore rotto e umiliato. È questo, in sostanza, il concetto espresso da Paolo in 2 Corinzi 7:8-11. Si può essere tristi e rammaricati a causa del peccato senza che questo produca un pentimento gradito a Dio. È solo una tristezza umana che porta alla morte. 

La tristezza secondo Dio, invece, produce un pentimento genuino, uno sdegno, un desiderio di cambiare e piacere a Dio con uno zelo vero. È il segno distintivo di un vero credente che ha timore di Dio, e non si barrica dietro scuse personali.

8. Desiderare che le persone non debbano soffrire a causa sua

“Fa’ del bene a Sion, nella tua grazia; edifica le mura di Gerusalemme. Allora gradirai sacrifici di giustizia, olocausti e vittime arse per intero; allora si offriranno tori sul tuo altare” (Salmo 51:18,19).

Uno che pecca pensa solo a sé stesso. Non si pecca per motivi altruistici. 
Chi pecca non si preoccupa delle eventuali ripercussioni o dei danni che il suo gesto recherebbe, non solo a se stesso, ma a tante altre persone. Tanto meno si ferma a riflettere su cosa ne pensi Dio. Peccare è un atto di puro egoismo. 

Giacomo, nella sua lettera, spiega il motivo per cui pecchiamo: è a causa della nostra concupiscenza, per soddisfare le nostre voglie.

Come re d’Israele, alla conclusione della sua preghiera nel Salmo 51, Davide esprime una sincera richiesta che la nazione non debba subire le conseguenze del suo peccato, ma che Dio le faccia del bene. Non se ne era preoccupato prima, quando seguiva le concupiscenze, ma ora che il suo cuore è stato esposto alla verità, e si è piegato umilmente sotto il giusto verdetto di Dio, capisce l’entità e la serietà del suo misfatto.

Da Caino in poi, i sacrifici offerti con un cuore impenitente non sono mai stati graditi a Dio. Agli occhi degli altri, il nostro comportamento pio, il canto e le preghiere, perfino le offerte possono riuscire a camuffare il marcio dentro di noi, ma non è così con Dio, che vede nell’intimo (Ebrei 4:12,13). Egli detesta l’ipocrisia.

Quando Dio ci confronta con i nostri peccati, non è perché ci abbia ripudiati per sempre. Nella sua immutabile fedeltà ci tratta come figli benamati. La correzione – anche le ossa spezzate – mira a ristabilire l’intima comunione con Lui, nella luce, nella verità, nella purezza. 

Ora che Davide si è ravveduto, e si è sottomesso al castigo di Dio, il Signore accetterà e gradirà anche i sacrifici che prima erano come insulti nauseanti per Lui.

Che cambiamento profondo! 

Convocati senza paura

Ringrazio Dio per avermi dato un padre che sapeva stabilire e far rispettare le necessarie regole in casa. Papà mi ha insegnato cosa sia il pentimento, reso possibile per il sacrificio di Gesù Cristo. Le mie lacrime, grazie a Dio!, non lo hanno mai persuaso ad essere meno ligio alla sua responsabilità.

“Vieni in camera mia” erano parole che una volta suscitavano in me un groviglio di sentimenti contrastanti ma adesso, grazie anche ad esse, non vedo l’ora che il Signore stesso mi chiami a sé nella sua casa eterna, dove non c’è il peccato! 

  

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La VOCE dicembre 2019

A giudicare dal trambusto doveva essere scoppiata una guerra mondiale! 
La colpa era mia, avevo scatenato un putiferio nel nostro vicinato. 
No, non avevo litigato o fatto a botte con nessuno, ma senza dubbio avevo infranto i sogni e le credenze dei bambini del quartiere.

Erano le vacanze di Natale. I miei fratelli ed io eravamo in giardino e stavamo giocando con i nostri amichetti. Naturalmente si è cominciato a parlare dei regali che ognuno aveva ricevuto. Nella mia ingenuità, però, avevo candidamente detto, e con una certa insistenza, che Babbo Natale e la Befana non esistono, ma che erano i genitori e i parenti a farci tutti quei regali. 

Corpo di mille balene! Uno sciame di mamme si precipitò a dire a mia mamma che avevo fatto molto male. Mi ero reso colpevole di un crimine, di avere, di fatto, ucciso Babbo Natale.

Oggi come oggi, direi piuttosto che il Natale ha obliterato Gesù! 

Si dice che questa sia la stagione in cui si ricorda la sua nascita, ma di fatto, i regali, il cibo, le tombolate, le vacanze, le luci e tutto il resto non fanno altro che sopprimere Cristo.

Il diavolo si da un gran daffare per distogliere l’attenzione delle persone da Dio e da Gesù. 
Ha cominciato nel giardino di Eden e non ha mai smesso. 
Fa guerra contro Cristo sin dalla sua nascita, prima per mezzo di Erode che ha fatto una strage di bambini nella speranza di uccidere il Re dei Giudei, poi servendosi degli scribi e farisei. 

Ora porta avanti la sua lotta cercando di svuotare ogni ricorrenza considerata “sacra” di possibili contenuti e connotazioni spirituali. 

Sappiamo che Gesù non è nato a dicembre, ma perché non cogliere quest’occasione per parlare di Lui quando ancora lo possiamo fare?

Da questo miracolo dipende la tua salvezza!

Perché è importante credere che Gesù sia nato miracolosamente da Maria vergine? Quello che è importante, si dice, è piuttosto quello che ha fatto e detto e l’esempio che ci ha lasciato! 

Perché mai avvolgere il suo concepimento in una tale aura di mistero e di soprannaturale? 
Come si può credere a un racconto così impossibile e mai ripetuto nella storia e nel campo del dimostrabile? 

Così si esprimono oggi molti teologi (ovviamente con discorsi assai più complessi e apparentemente profondi). E molta gente, sotto sotto, anche se il cattolicesimo ha innalzato l’incarnazione per mezzo di Maria e quindi anche la figura di Maria stessa ad altezze di divinità che la Scrittura non le attribuisce affatto, dà loro ragione. Dopo tutto, nel XXI secolo a certe cose non si può credere più! 

È un po’ l’atteggiamento scettico dei farisei che, per offendere Gesù, gli dicevano che loro non erano nati da fornicazione! 

Ma non è così. Credere alla nascita miracolosa di Gesù è importante per molte ragioni. 

Ne va della veridicità dei Vangeli 

I Vangeli di Matteo e di Luca parlano di questo avvenimento con assoluta certezza. “Maria… era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo” (Matteo 1:18).

“Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù... Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio” (Luca 1:30,31,35). 

I due evangelisti hanno scritto indipendentemente l’uno dall’altro, e hanno descritto la nascita di Gesù con tanti particolari precisi. Se non avessero detto il vero, ci obbligherebbero a dubitare di tutta la veridicità del loro racconto. Infatti, se avessero mentito sul concepimento e sulla nascita, perché non avrebbero potuto farlo anche su qualsiasi altro punto? 

Ma i manoscritti originali di Matteo e Luca sono stati riconosciuti autentici, e la chiesa primitiva li ha accettati come veri. Nulla permette di dubitare che le parti che riguardano la nascita miracolosa non ne facciano parte integrante. Inoltre tutti e due i Vangeli sono densi di racconti di altri eventi miracolosi che culminano con quello della resurrezione, per la quale esistono prove e ragioni inconfutabili. 

Perché non credere, allora, al miracolo della concezione soprannaturale se si crede a quello della resurrezione? 

I Vangeli di Matteo e Luca, per coerenza, sono veri o sono falsi nel loro insieme. 

La nascita miracolosa avalla la dottrina dell’incarnazione 

Essa è, infatti, l’unica spiegazione logica dell’ingresso dell’eterno Figlio di Dio nel mondo. 

Era essenziale che il Figlio di Dio venisse nel mondo e vivesse una vita umana completa e reale sulla terra. Per essere uomo doveva iniziare la sua esistenza con un concepimento, prima, e poi formandosi nell’utero di una donna. 

Non si possono perciò accettare, per esempio, la teoria degli gnostici che affermavano che l’uomo Gesù si era unito con lo Spirito del Figlio al momento del battesimo, o la teoria che insegna che Gesù gradualmente si sia dimostrato o sia divenuto Figlio di Dio. 

“Ma perché agitarsi tanto?” chiedono i teologi liberali. “Anche se fosse nato da Maria e Giuseppe, non potrebbe essere ugualmente rispettato e onorato? Non ha Dio stesso istituito la santità del matrimonio e della procreazione dei figli?” 

In questo caso, è piuttosto vero il contrario. Quando un essere umano è concepito è l’inizio di una nuova creatura, di una personalità che prima non esisteva. Invece, Gesù esisteva già. Non aveva quindi bisogno di ricevere una personalità sua per mezzo dell’unione di due esseri umani (anzi, semmai, avrebbe dovuto essere miracolosamente preservato dai risultati di una simile unione, per potere conservare la sua essenza di Figlio di Dio!) 

Chi crede alla preesistenza di Cristo, come un essere personale, deve per forza credere in un miracolo che gli ha permesso di entrare a far parte dell’umanità senza essere contaminato dalle tare della razza umana stessa. 

Il miracolo dell’incarnazione è, in questo senso, la cosa più ragionevole, perché, con un atto speciale creativo, la personalità preesistente del Figlio di Dio è stata preservata e si è rivestita della natura umana nel seno di una donna ancora vergine. 

I teologi che negano la nascita miracolosa di Cristo, di solito ne respingono anche la deità. Se anche parlano di incarnazione, intendono dire che Dio e l’uomo sono praticamente la stessa cosa. Il Nuovo Testamento afferma, invece, esattamente il contrario. Quando Giovanni dice “la parola è stata fatta carne” vuol dire che l’eterno Figlio di Dio è diventato uomo, ha assunto la nostra natura, per mezzo di un miracolo straordinario, per poter morire e redimerci dal nostro peccato. 

La nascita miracolosa fu essenziale perché Gesù possedesse una natura senza peccato

La Bibbia insegna che tutta la razza umana è contaminata dal peccato di Adamo. Ogni persona che viene al mondo eredita una natura tendente a peccare e, per sua scelta, poi commette dei peccati e sceglie di peccare. 

Ogni genitore umano pecca e mette al mondo figli che peccano. Se Gesù fosse venuto al mondo per mezzo di un concepimento umano normale, come si spiegherebbe il fatto che non ha mai peccato, che ha potuto guardare in faccia i suoi nemici che lo accusavano e sfidarli a trovare in Lui il benché minimo sbaglio? Come mai non ha mai dovuto chiedere perdono, né a Dio né agli uomini? 

Il fatto sta che Egli non aveva una natura che lo spingeva a peccare. E questo poteva essere solo risultato di un concepimento miracoloso, non toccato da influenza umana. 

La nascita miracolosa è essenziale per ogni altro aspetto della dottrina di Cristo 

Come si è detto, la validità dei Vangeli di Matteo e di Luca regge nel loro insieme. Se gli evangelisti avessero mentito su un punto non sarebbero degni di essere creduti su altri punti. 

Lo stesso principio si applica alla persona di Cristo. Se la sua concezione non fosse stata miracolosa, cadrebbe anche tutto il resto che è detto su di Lui. Tutto ciò che lo riguarda deve essere visto globalmente e deve essere perfettamente coerente. 

Egli è nato a Betlemme, ma era anche preesistente. Era Dio, ma era anche uomo. Aveva una forma e un aspetto umani, ma non la natura peccaminosa degli uomini. È morto come un malfattore, ma non aveva mai peccato. Non è morto a causa dei suoi peccati, ma per pagare le colpe dell’umanità. È risuscitato, è salito in gloria, ha promesso di tornare. 

Ma come avrebbe potuto esistere da tutta l’eternità se fosse stato il prodotto di un concepimento umano (nessun essere umano esiste prima del concepimento e dell’unione di un uomo con una donna!)? Se Gesù non fosse stato concepito miracolosamente non sarebbe stato Dio. E allora la sua morte non avrebbe valore per espiare i nostri peccati, la sua resurrezione non sarebbe mai avvenuta e tutti i credenti in Lui vivrebbero in una tragica illusione. 

La nascita miracolosa è legata all’infallibilità e all’autorevolezza della Bibbia 

Oggi in molte chiese si insegna che la Bibbia contiene la testimonianza dei profeti e dei primi credenti in Cristo ed esprime ciò che essi hanno capito su Dio e messo per iscritto, filtrandolo attraverso la loro mentalità e conoscenze. 

La Bibbia, perciò, sarebbe un libro utile e buono, ma non certo infallibile e senza sbagli. Quindi non sarebbe autorevole. 

Perciò poco importa se Cristo sia nato miracolosamente o no, se abbia compiuto dei miracoli, se sia morto e risuscitato. Quello che importa è ciò che io posso recepire dall’insieme dell’insegnamento morale e spirituale della Bibbia! 

Una veduta simile è totalmente estranea alla fede cristiana, la quale non è basata su concetti o pensieri umani, ma su fatti storici realmente accaduti, oltre che su concetti teologici. 

Il concepimento miracoloso è realmente avvenuto, i miracoli si sono verificati, le parole di Cristo sono state realmente pronunciate, la morte di Cristo è stata davvero una cessazione di vita fisica e ha avuto il significato che Egli le ha dato (Marco 10:45), la risurrezione è stata reale e l’ascensione anche. 

 Tutto ciò è scritto nella Bibbia. Se un fatto cade o è dimostrato falso (il concepimento per mezzo dello Spirito Santo, per esempio), cade anche tutto il resto della Scrittura. 

E se cade la Scrittura, su cosa poggiamo la nostra fede? 

La nascita miracolosa è parte essenziale di ciò che un vero credente deve credere 

Quanta dottrina bisogna conoscere prima di poter accettare il dono della salvezza in Cristo? È impossibile dirlo. C’è chi fa il passo della fede conoscendo pochissimo e c’è chi lo fa conoscendo moltissimo. 

Chi non è salvato, per esserlo, deve comprendere e riconoscere di essere un peccatore perduto, morto nei suoi falli e nei suoi peccati, deve capire che Cristo è l’unico mezzo di salvezza, che la sua morte ha espiato ogni peccato che sia mai stato commesso, che la salvezza è un dono che deve essere ricevuto da chi vuole essere salvato. 

Per fare ciò non è certo necessario sapere tutto su Cristo. 

Però, dopo avere accettato la salvezza, perché uno possa considerarsi un vero credente in Cristo, deve conoscere e accettare le dottrine fondamentali riguardanti la Persona di Cristo e, fra queste, vi è certo il concepimento miracoloso che lo ha introdotto nel mondo. 

“Voi sapete” scriveva Giovanni nella sua prima lettera (3:5), “che egli è stato manifestato per togliere i peccati; e in lui non c’è peccato.” 

“Quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge” (Galati 4:4,5) . 

“Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; e ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo” (1 Giovanni 4:2,3). 

“Molti seduttori sono usciti per il mondo, i quali non riconoscono pubblicamente che Gesù Cristo è venuto in carne. Quello è il seduttore e l’anticristo... Chiunque va oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non ha Dio. Chi rimane nella dottrina, ha il Padre e il Figlio” (2 Giovanni 7,9). 

Questi passi non potrebbero essere più chiari per sottolineare l’importanza della fede nell’incarnazione del Signore Gesù. 

In questo mese di dicembre, nelle chiese, sui giornali e social, in TV e nella pubblicità, si parlerà molto del Bambino, nato povero e infreddolito, che giace in una mangiatoia. Ma se ne parlerà distorcendo il significato della sua venuta e come spunto per incitare al consumismo. 

È normale perciò che i credenti prendano le distanze da ciò che non è biblico, ma è importante che ricordino e raccontino ad altri ciò che l’incarnazione di Cristo significa, ciò che ha comportato e ha iniziato.  

 


GUGLIELMO RISPONDE — Ristampa dal 1991

Natale in festa?

Caro Guglielmo, 
Ho letto sulla Voce di dicembre scorso un riferimento alla nascita di Gesù in cui si diceva che è avvenuta “probabilmente di primavera”. 
Ciò mi ha molto sorpreso, in quanto io ho sempre letto o sentito dire che Gesù è nato il 25 dicembre. Ora, se non si tratta di un errore o di una svista, ti chiedo in base a quali testi, a quali ragionamenti o scoperte, siete arrivati ad una simile conclusione. 
—Lettera firmata (Correggio, RE)

È vero che lo scoprire che Gesù molto probabilmente non soltanto non è nato il 25 dicembre, ma neanche di inverno, può sorprendere più di una persona. 

Comunque, non dovrebbe essere così per chi desidera basare la sua fede e le sue certezze soltanto su ciò che è scritto nelle Sacre Scritture, considerate come unica infallibile Parola di Dio. 

Né i Vangeli né altri libri biblici parlano della stagione in cui Gesù è nato. In ogni modo, dato che anche in Israele ai tempi di Gesù, come ora, il clima invernale può essere piuttosto inclemente, con freddo e perfino neve, è improbabile che il governo avrebbe indetto un censimento, che poteva comportare la necessità di sottoporsi a dei viaggi più o meno lunghi, come quello di Giuseppe e Maria, proprio di inverno. 

E neanche sembra essere stata abitudine dei pastori israeliti tenere le loro greggi all’aperto di notte durante l’inverno. 

Per quanto riguarda la pratica religiosa o popolare di celebrare il 25 dicembre il Natale, l’autorevole Enciclopedia Britannica dice: “Il Natale non fu fra le prime feste della Chiesa e, prima del quinto secolo, non vi fu accordo generale su dove collocarla nel calendario liturgico; se il 6 gennaio, il 25 marzo o il 25 dicembre”. La decisione finale di fissarla al 25 dicembre non ebbe nessun legame con la ricerca del giorno preciso in cui Gesù nacque, ma sì basò piuttosto su tradizioni non cristiane. 

Ciò ci porta a domandarci come mai i cristiani celebrino il Natale il 25 dicembre. La risposta è che non tutti lo fanno. 

Prima di tutto, non vi è nessuna indicazione che i cristiani dei primi secoli lo celebrassero. Infatti, non esisteva. 

Comunque, ora che il Natale è diventato per alcuni una festa religiosa e per altri una festa solo tradizionale e folcloristica, vi sono delle differenze profonde nel modo in cui viene considerato. 

Da una parte, le chiese istituzionali (cattolica romana, ortodossa e le più grandi denominazioni protestanti) hanno inserito il Natale nei loro calendari liturgici e lo considerano una festa cristiana. 

Altri credenti, e diverse sette pseudocristiane, ricordando le sue origini basate su tradizioni pagane, rifiutano di avere niente a che fare con la festa o con le tradizioni popolari. 

Un terzo gruppo di credenti prende una posizione intermedia. Non considerano il Natale una “festa religiosa”, non stabiliscono dei riti o delle liturgie per “osservarla religiosamente”, come, tanto per intenderci, fa la Chiesa romana con la Messa di mezzanotte, il 24 dicembre. 

Approfittano, comunque, della stagione e delle usanze tradizionali, per ricordare a credenti e particolarmente a non credenti le verità bibliche che circondano la nascita di Gesù e il significato dell’incarnazione. 

Così la stagione delle feste diventa un tempo particolare per gioire del fatto che Cristo il Salvatore è venuto nel mondo, e che il piano di Dio ha avuto un compimento perfetto (senza attaccarsi al 25 dicembre come se avesse un significato particolare). E diventa un periodo particolarmente utile per l’evangelizzazione di chi “celebra” il Natale senza conoscere personalmente, per fede, il Salvatore che è nato. 

Guglielmo Standridge

  

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La VOCE novembre 2019

Tu, che ne sai?

Anni fa, una giovane donna che conoscevo era rimasta vedova quando suo marito poliziotto era stato ucciso da un malvivente. Avevo conosciuto anche il marito e così mi sono trovato a dover incoraggiare la vedova e accompagnarla in questo tragico evento. 

Lei era rimasta sola con i figli ancora piccoli, che non riuscivano a capacitarsi del perché papà non sarebbe tornato più a casa.

Uno dei bambini aveva appena quattro anni e, sebbene non sembrasse aver afferrato tutta la gravità della situazione, capiva abbastanza da esserne turbato. Aveva assunto un comportamento scontroso, fuori ogni controllo. Era sempre arrabbiato, si rifiutava di andare a dormire, alzava la voce per qualunque motivo e rompeva i giocattoli senza nemmeno sapere il perché. 

La sorella, solo qualche anno più grande di lui, era frastornata da tutto quello che stava succedendo intorno a lei.

La madre, naturalmente affranta dal dolore e confusa su come andare avanti, era totalmente impreparata per una tragedia di tale portata. La vedevo che cercava di proteggersi come meglio poteva da chi le proponeva soluzioni di ogni tipo per gestire il suo dolore, e forse qualcuno cercava anche di approfittarsi di lei.

Era convinta che nessuno la capisse. Nessuno tra i suoi conoscenti aveva mai vissuto una prova simile, come potevano allora anche minimamente immedesimarsi?

Non era l’unica a pensarla così.

Infatti, nelle nostre tragedie personali, è praticamente impossibile che qualcuno stia vivendo esattamente la nostra identica esperienza.

Chi, allora, potrebbe capirci, abbandonati come siamo a noi stessi, in balia delle circostanze? Potremmo mai contare sulla comprensione di qualcuno?

Quello che ti propongo non è un banale prontuario del tipo “10 passi verso la serenità”. 

È decisamente molto di più!

Egli ci conosce, Egli si ricorda

Prima di tutto bisogna ammettere che affrontare situazioni pesanti e complicate non è mai facile. Non voglio affatto sminuirne la sofferenza o i sentimenti che ne conseguono. Nel mondo accadono catastrofi che ci lasciano tutti allibiti e senza parole: terremoti, guerre, malattie ed efferatezze di ogni tipo.

A casa nostra, a cena, mia moglie e io preghiamo per persone che conosciamo che soffrono per malattie difficili. Abbiamo una serie di nomi a cui ogni tanto ne aggiungiamo qualcuno nuovo, purtroppo. La lista si fa sempre più lunga mentre veniamo a conoscenza di altre persone che devono affrontare, non solo infermità ma anche altre situazioni spesso umanamente senza speranza.

Per molti la domanda che viene naturale è: “Ma Dio, dov’è?”

La gente si ricorda di Lui quando ormai ogni altra soluzione si è dimostrata inefficace. Negli anni ho visto tornare a frequentare la chiesa persone che avevano un caro molto grave, per poi sparire di nuovo non appena la situazione si era risolta, in bene o in male.

Dio diventa rilevante solo quando si ha bisogno del suo intervento, oppure quando si pensa di avere il diritto di fargli delle rimostranze.

Hai avuto anche tu questi pensieri? Ti sei mai trovato a dubitare che a Dio non importi minimamente di quello che stai vivendo? Che abbia veramente compassione? O che capisca davvero quello che TU stai passando?

“Compassione” viene dal latino “patire insieme”. È definita come “un sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; una partecipazione alle sofferenze altrui”.

Che Dio sia compassionevole non vuol dire che provi sentimenti di pietà per qualcuno di tanto in tanto, come facciamo forse noi.

Essere compassionevole fa parte del suo carattere. La compassione è un suo attributo eterno, immutabile. 

“Ma tu, Signore, sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande in bontà e in verità” (Salmo 86:15).

Dio non deve sforzarsi di avere compassione, come poteva essere per me con la giovane vedova – Egli è compassionevole! La sua compassione è perfetta, sempre pronta. Non servono le nostre lacrime per stimolare la sua tenerezza verso noi.

Ti ricordi quando Mosè stava scendendo dal monte Sinai dopo che aveva ricevuto le tavole della legge? Il racconto si trova in Esodo capitolo 32. Mentre lui era rimasto alla presenza di Dio per quaranta giorni, il popolo d’Israele, giù nella vallata, si era ben presto corrotto e sviato dagli ordini di Dio, si era fatto fare un vitello d’oro da adorare, e si era dato a festeggiamenti proibiti. 

Immagino la scena: Mosè che, scendendo piano quel ripido pendio della montagna, fa molta attenzione alle tavole della legge che Dio stesso aveva inciso. Ma quando scopre che il popolo d’Israele sta peccando contro Dio, si adira talmente tanto che getta contro le rocce quelle tavole sacre. 

Se Mosè aveva vissuto l’affronto del popolo contro Dio con tanta ira, cosa avremmo potuto aspettarci da Dio? Era Lui la parte offesa dal comportamento del popolo.

Più avanti, nel capito 34 del libro di Esodo, leggiamo che Dio diede a Mosè due nuove tavole della legge, e disse di se stesso così: “Il Signore! il Signore! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, che conserva la sua bontà fino alla millesima generazione, che perdona l’iniquità, la trasgressione e il peccato ma non terrà il colpevole per innocente; che punisce l’iniquità dei padri sopra i figli e sopra i figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione!”

Hai notato come si descrive? Dio conserva la sua bontà fino alla millesima generazione! La sua compassione si estende a persone che non la meritano affatto!

Se ti sei chiesto anche tu se Dio ti capisca davvero, considera che Egli è Dio ma noi siamo umani. Lui è così diverso da noi.

Le parole del Salmo 103 chiariscono ancora meglio che “Come un padre è pietoso verso i suoi figli, così è pietoso il SIGNORE verso quelli che lo temono. Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siamo polvere” (v. 13,14).

Dio, che ci ha creati, sa esattamente come siamo fatti. Conosce la fragilità umana! 

Forse gli altri non riusciranno a capirmi, a compatirmi, ma Dio è la sorgente della compassione vera, compassione informata sulla natura umana, sulla nostra condizione di peccatori, sulla nostra fragilità. 

Sa tutto di tutti, eppure sceglie di mostrare compassione verso coloro che lo temono, coloro che lo riconoscono come loro Dio. 

Sei un figlio di Dio? Egli ha compassione di te! Non perdere mai di vista questa importante verità. 

Visione limitata

Il problema è che in qualunque circostanza ci troviamo vediamo solo il presente, e al massimo possiamo temere il futuro. 

Dio però non è limitato come noi. 

Egli infatti, non solo conosce il futuro in ogni suo dettaglio, ma lo governa con attenta precisione.

La dimostrazione per eccellenza della compassione di Dio è che ha mandato il suo unigenito Figlio a morire per coloro che credono in Lui. 

L’incarnazione di Gesù e la sua morte sulla croce non sono state una reazione di Dio ai mali del mondo che lo hanno colto di sorpresa. Assolutamente no. Erano state pianificate da Dio prima della fondazione dell’universo. 

Isaia profetizzando di Gesù aveva scritto: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l’anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio; per consolare tutti quelli che sono afflitti” (61:1-3).

Il Signore Gesù, mentre era sulla terra mostrò immensa compassione verso i malati, le vedove e i parenti dei malati guarendoli e facendo loro del bene. Ma, sorprendentemente, più di ogni altro, mostrò genuina compassione per coloro che non erano spiritualmente suoi figlioli. Vedere uomini e donne smarriti come pecore procurava in Lui grande dispiacere.

Oggi, in chiesa, è penoso vedere persone che si considerano figli di Dio, che hanno cioè ricevuto il dono più grande della compassione di Dio avendo creduto in Cristo, ma che vivono come se a nessuno importasse di loro.

Come mai ci sono molti credenti che sono costantemente scontenti e senza la gioia del Signore?

La risposta è semplice purtroppo: è che non si fidano di Dio! Sembrano delle parole forti, ma pensiamoci un momento. 

L’autore della lettera agli Ebrei scrive: “Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, stiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Ebrei 4:14-16). 

Se è vero che Dio è compassionevole e ci comprende come dice questo passo, allora il nostro problema è che non ci fidiamo veramente di Lui.

Ma c’è anche da considerare un secondo aspetto. Nella società moderna dove a ogni esigenza esiste una soluzione istantanea, non abbiamo né la voglia né il tempo di aspettare il “momento opportuno”.  Il momento giusto dev’essere subito e forse anche subito è troppo lento ad arrivare! 

Siamo abituati a considerare ogni problema e circostanza negativa come qualcosa da evitare a tutti i costi! Dio invece ha scopi diversi dai nostri; Egli non è interessato necessariamente alla nostra comodità, ma alla nostra trasformazione: vuole renderci più simili a Cristo. 

È quello che la Bibbia chiama la santificazione dei credenti. 

Comincia al momento della nuova nascita per opera dello Spirito Santo, quando Dio ti separa dal mondo e cambia il tuo destino eterno. Ma è un progresso che dura tutta la vita mentre Dio, servendosi anche delle cose negative che accadono per sua concessione, trasforma il tuo essere nell’immagine di suo Figlio.

Un terzo motivo, collegato strettamente al precedente, è che pensiamo di sapere meglio di Dio cosa sia e in cosa debba consistere la compassione che ci aspettiamo da Lui. Pretendiamo quella, solo quella, perché qualsiasi altro modo in cui la mostri, per noi non è affatto compassione. Ma indovina un po’ chi ha ragione!

Tre risposte vere

Stai affrontando una situazione difficile? Sei scoraggiato perché Dio non sembra rispondere alle tue preghiere? Forse hai bisogno di rivalutare la tua fiducia in Lui. Forse hai bisogno di rivedere cosa sia e da chi proviene la vera compassione.

Tutti vorremmo capire il perché delle situazioni difficili che ci affliggono. Spesso reclamiamo una risposta eclatante, ma Dio ci ha già risposto nelle Scritture. Ci sono almeno tre risposte che sono sempre vere.

Abbiamo bisogno di essere trasformati. È qualcosa che Dio solo può fare. Servendosi di svariate situazioni ci fa maturare nella fede e nell’ubbidienza. 

“Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, sapendo che la prova della vostra fede produce costanza. E la costanza compia pienamente l’opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti” (Giacomo 1:2-4).

Abbiamo bisogno di smettere di vivere per le cose del mondo, con le sue attrazioni vuote, passeggere e ingannevoli. “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra” (Colossesi 3:1,2).

Abbiamo bisogno di imparare ad essere di aiuto, e a consolare gli altri. 

“Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione; perché, come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2 Corinzi 1:3,4).

Ci saranno anche altre risposte che troverai nelle Scritture che ti aiuteranno a riscoprire la compassione di Dio nella tua vita, ma non contraddiranno mai queste tre verità bibliche. 

Un’ultima considerazione

Ma se abbiamo peccato? È possibile che stiamo soffrendo perché Dio ci sta disciplinando per qualcosa che abbiamo fatto?

È certamente una possibilità su cui bisogna riflettere umilmente e con onestà. Infatti nella lettera agli Ebrei è scritto ancora: “e avete dimenticato l’esortazione rivolta a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore, e non ti perdere d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli»” (12:5,6).

La riprensione di Dio nella nostra vita ha lo scopo di riportarci a Lui. Nel momento che lo facciamo confessandogli i nostri peccati, la disciplina ha raggiunto il suo scopo, e finisce lì. Questo però non vuol dire automaticamente che non ci siano ripercussioni, anche dolorose, del nostro peccato sulla nostra vita. Talvolta le conseguenze di una ribellione possono durare finché vivremo.

Quando questo accade, potrebbe anche essere che, per il nostro buonismo, vogliamo mostrarci più misericordiosi di Dio. 

Cercare di ignorare, mitigare o negare le conseguenze del peccato non è necessariamente la cosa migliore per le persone coinvolte. È possibile che Dio si stia servendo di queste ripercussioni per produrre un ravvedimento genuino in chi ha peccato, e stia ancora lavorando in lui affinché si renda conto della gravità della sua disubbidienza.

Allo stesso tempo, non siamo noi che dobbiamo essere gli strumenti del giudizio di Dio rifiutando il nostro perdono a chi si ravvede. 

Gloria a Dio per la sua misericordia! Ne abbiamo tanto bisogno, non solo per noi stessi, ma per imparare a pregare per gli altri ed essere portatori di compassione. 

Infatti, Gesù, “vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La mèsse è grande, ma pochi sono gli operai. Pregate dunque il Signore della mèsse che mandi degli operai nella sua mèsse»” (Matteo 9:36-38). 

Noi siamo gli ambasciatori della compassione di Dio a un mondo che ha bisogno di conoscerla.

“Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi” (Colossesi 3:12,13).

Il mondo è pieno di persone che inaspettatamente si trovano a dover gestire eventi troppo devastanti per loro, come la giovane vedova e i suoi figli troppo piccoli per essere in grado di esprimere con una parola lo strazio dei loro cuori.

Che il Signore ci aiuti a non considerare loro come ostacoli alla nostra serenità, ma a cogliere queste opportunità per dichiarargli la compassione di Dio.  

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