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La VOCE gennaio 2022

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Un pizzico di sale "Cani ai guinzagli divini" 


Come si prospetta il 2022 appena cominciato? Sarà un altro anno sotto scacco del Covid e di altre sue varianti? Un altro anno di incertezze sul lavoro, la scuola e la salute?

Dai discorsi che sento, è evidente che la gente ha ancora molta paura.

Alcuni hanno talmente paura di contagiarsi che vanno oltre ogni minima prescrizione e raccomandazione delle autorità sanitarie. Altri fanno tutto l’opposto, perché temono di più le possibili conseguenze del vaccino o anche l’intrusione del governo nella vita privata.

A parte la pandemia che ha colpito il mondo intero, in Italia, secondo un’indagine Istat, 444.000 persone hanno perso il lavoro nel 2020.
Dall’inizio di quest’anno a fine agosto si contano 413 suicidi e 348 tentativi.
Dal 1° gennaio al 30 settembre, sulle strade della Capitale, la Polizia Locale è intervenuta per i rilievi di 19.139 incidenti.

Bastano questi tre dati rilevati a presentare un quadro tetro e triste, ma reale. La vita è piena di incognite ed eventi sui quali non abbiamo nessun controllo, che possono contribuire a creare un’atmosfera di paura nella vita delle persone. 

Vivere nella paura non è di certo salutare, ma è anche vero che non avere paura di niente è da incoscienti!

Dove si trova l’equilibrio tra questi due poli opposti? 
La paura è giustificata oppure quando ho paura sto peccando?

Per alcuni versi la paura è un dono di Dio. Infatti, siamo stati creati capaci di provarla perché fossimo allarmati sui pericoli, ma anche saggi nelle nostre scelte.

Qualche esempio. Vedere per strada qualcuno che inizia a sparare, ci porta immediatamente a nasconderci e metterci in salvo. È ovvio, giusto e sarebbe folle non farlo.

È prudente guardare in tutte e due le direzioni prima di attraversare la strada per non essere investiti.

Ed è un segno di saggezza pagare l’assicurazione dell’auto per non dover sborsare di tasca nostra somme esorbitanti in caso d’incidente.

Ma è un danno grave se la nostra vita è condizionata dall’ansia, perché la paura quando è esagerata, costante e non ha la funzione prevista da Dio, ci fa perdere di vista Lui e la sua sovranità.

La paura è entrata nel mondo con la caduta di Adamo ed Eva, diventando la compagna di vita dell’uomo. All’improvviso l’uomo aveva cominciato ad avere paura di Dio, del giudizio degli altri, delle circostanze, del futuro, della morte… Una cappa di paura è scesa sull’umanità. 

Temere la morte e le conseguenze del peccato, però, non è esagerazione, anzi. Infatti non solo è giusto, ma è qualcosa che dovremmo augurare a tutti, perché “il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 6:23).

La Bibbia attesta chiaramente che “è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio” (Ebrei 9:27).

La maggior parte delle persone fa di tutto per sopprimere queste verità. Perciò l’Apostolo Paolo ha scritto in Romani 1:18 che “l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con l’ingiustizia.”

Gli uomini cercano di intorbidire la loro consapevolezza dell’esistenza di Dio e della sua giustizia con pensieri, parole e atti ingiusti. Esorcizzano le loro paure esistenziali creando falsi dèi simili a loro, che non gli fanno paura. 

Invece è giusto, e addirittura salutare per il corpo (Proverbi 3:7,8), temere il vero Dio, ma non fare come Adamo ed Eva che pensavano di potersi nascondere tra i cespugli dopo aver peccato.

Esiste però anche una paura malsana, opposta a quel “dispositivo di sicurezza” progettato da Dio, perché è una delle terribili conseguenze del peccato di Adamo. 

È una paura che non aiuta a vivere meglio, non avvicina l’uomo a Dio, non lo rende più avveduto. Al contrario, lo rende ansioso e lo paralizza al punto di non riuscire a reagire correttamente a ciò lo terrorizza, rendendo la sua vita terribile. 

Nessun figlio di Dio dovrebbe cadere vittima di questo tipo di paura. Dalla Genesi fino all’Apocalisse, infatti, volta dopo volta Dio ripete: “Non temere!”

Nel solo libro di Isaia, dal capitolo 40 al 54, lo ribadisce per ben dieci volte al popolo d’Israele terrorizzato da quello che avrebbe dovuto affrontare di lì a poco. Il Signore gli vuole ricordare verità importanti per rassicurarlo, dicendogli: “Tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia” (Isaia 41:10).

Mentre è vero che bisogna fare molta attenzione a non applicare a noi indistintamente qualunque promessa fatta a Israele (perché la chiesa non ha sostituito Israele nel piano di Dio), ci sono verità eterne per le quali è giusto pensare che queste parole bellissime di Isaia si possano applicare anche ai credenti di oggi. 

Per esempio, all’inizio del capitolo 41 di Isaia, Dio afferma la sua sovrana onnipotenza sulle nazioni e su ogni cosa che accade nell’universo. 

Poi, nei versetti 8 e 9, rivolgendosi direttamente a Israele, dice che lo ha scelto e che questi è il suo servo. 

Sappiamo che il Signore, ancora oggi, ha il totale controllo su tutto. Non accade nulla che sia al di là del suo potere e della sua conoscenza. Gesù ha precisato che nemmeno un passero cade in terra senza che Dio lo sappia e che l’abbia permesso. Nulla è quindi cambiato dai giorni di Isaia fino ai giorni nostri: Dio rimane onnipotente e sovrano eternamente. 

Come per Israele, scelto da Dio come suo tesoro particolare tra le nazioni, ci sono tanti versetti nel Nuovo Testamento che affermano similmente che Dio sceglie i credenti di oggi, e che anche loro sono suoi.

Nel versetto di Isaia, Dio chiama Israele suo servo. È stato un servo tutt’altro che perfetto, perché spesso si è allontanato da Lui, ma un giorno, nel regno di mille anni di Cristo, Israele redento svolgerà di nuovo il suo ruolo glorioso di servo dell’Altissimo. 

Nel Nuovo Testamento i credenti sono chiamati servi di Cristo. Più precisamente, schiavi di Cristo.  A volte dimentichiamo che siamo stati comprati a caro prezzo, che siamo sua proprietà. 

Ma prima di pensare che l’essere proprietà di Cristo sia una cosa negativa, soffermiamoci a considerare il fatto che siamo stati comprati a caro prezzo. 

Paolo scrive: “Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più, dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Romani 5:6-10).

Il prezzo altissimo che Dio ha pagato per la nostra salvezza dimostra il valore che abbiamo ai suoi occhi. Era ciò che Gesù ha voluto insegnare quando paragonò i discepoli all’uccellino che cade: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?” (Matteo 6:26).

Chiarito questo, non è affatto sbagliato che i figli di Dio siano incoraggiati dalle parole di Isaia a Israele; Dio rivolge la stessa esortazione anche a noi: “Tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia” (Isaia 41:10).

Le affermazioni di questo versetto sono dei punti cardine che dovrebbero accompagnarci nell’affrontare i problemi e le vicissitudini di tutti i giorni.

Tu, non temere, perché io sono con te

La prima cosa che Dio vuole che tu capisca è che sei tu il destinatario del suo messaggio. “Tu” è un pronome personale, come se stesse dicendo queste cose direttamente a te.

La seconda cosa che Dio desidera che tu sappia è che Egli conosce e comprende le tue debolezze. “Non temere” implica che Lui sa che tendi a temere. È una tendenza umana, e abbiamo visto che a volte ci sono motivi validi per provare timore. 

La domanda che ci dobbiamo porre, però, è quanto tempo permettiamo che duri la nostra paura. Forse troppo a lungo?

Ogni preoccupazione nasce da circostanze avverse, e se non sappiamo affrontare i problemi, non ci vorrà molto prima che il sentirci sempre in ansia diventi un’abitudine, vivendolo alla fine come uno stato emotivo normale. La consapevolezza della presenza di Dio nella nostra vita – “io sono con te” – deve prendere il posto della nostra abitudine all’ansia, e dissolvere questo debilitante stato emotivo. O quantomeno ridimensionarlo.

Il Signore, infatti, non dice “non avere paura quando sono con te”, ma “non avere paura perché io sono con te.” 

È un’affermazione che ha dell’incredibile. Dio non è come un’ambulanza che viene solo se chiamata in soccorso. Lui è sempre con noi!

È la stessa verità che troviamo nel Salmo 23 al versetto 4: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.”

Perfino davanti alla morte la presenza di Dio mi dà tutto ciò di cui ho bisogno per dissolvere ogni mia paura.

Egli ha tutti gli strumenti necessari per proteggermi e accompagnarmi nelle difficoltà reali della vita. Infatti, il primo punto cardine che dobbiamo ricordare è che la presenza e la cura attenta di Dio sono l’antidoto alle mie paure.

Non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio

Nel versetto 10, il Signore mostra altre ragioni per non permettere che le nostre paure ci condizionino la vita. 

Non a caso ci comanda di non smarrirci, perché la paura produce disorientamento. Perdiamo di vista i nostri punti di riferimento, e non siamo più capaci di discernere dove andare o cosa fare.

Ci riflettiamo, ci documentiamo, ma spesso le scelte sembrano troppo difficili, lasciandoci frustrati e confusi. 

Ecco, allora, la chiave per uscire dalla confusione: Dio deve essere continuamente il nostro punto fermo. Infatti, proprio perché è immutabile Lui è l’unico punto di riferimento sicuro. 

Ma in pratica, che devo fare per avere Dio come mio punto di riferimento?

Ce lo spiega Giacomo nel suo discorso su come reagire alle prove: “Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un’onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore, perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie” (Giacomo 1:5-7).

Quando cominciamo sentirci smarriti abbiamo un secondo punto di riferimento infallibile che è la Parola scritta di Dio. 

Chiedere con fede vuol dire avere completa fiducia nelle Sacre Scritture, come Giacomo specifica poi: “Ma mettete in pratica la parola e non ascoltatela soltanto, illudendo voi stessi. Perché, se uno è ascoltatore della parola e non esecutore, è simile a un uomo che guarda la sua faccia naturale in uno specchio; e quando si è guardato se ne va, e subito dimentica com’era” (Giacomo 1:22-24).

Sembra assurdo, ma ci sono credenti che reagiscono male a qualunque cosa affermi la Bibbia. “Si è vero, ma la mia situazione è difficile… ma le mie circostanze sono diverse… Sì, Dio, lo so che devo avere fede, ma…!” Rifiutano in partenza la soluzione ai loro problemi.

Ma allora il Creatore di ogni cosa, l’IO SONO, è veramente il nostro Dio? Purtroppo per molte persone (troppe!) non è così, e hanno tanti altri dèi, fallibili, instabili, falsi. E può succedere anche ai credenti di essere tentati di seguire i propri desideri, restare ancorati alle proprie opinioni e preferire autorità diverse da Dio. 

La Bibbia insegna che è giusto che la nostra fede sia messa alla prova, il che serve per dimostrarne la genuinità. 

Se Dio non è davvero il mio pastore, le parole “Il Signore è il mio pastore: nulla mi manca” si riducono solo una bellissima frase, senza nessun riscontro reale. Al contrario, se mi fido di Lui, se continuo a seguirlo pur non capendo tutto, sarò disposto a ubbidirgli anche quando voci contrarie mi spingeranno a non farlo.

Io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia

Ecco di cosa ho bisogno quando ho paura, quando ho esaurito le mie forze e non ce la faccio più!

Ho bisogno di essere soccorso, tirato fuori dai guai in cui mi sono messo o dalle situazioni che, per colpa di altri, mi stanno sopraffacendo. Ho bisogno di essere fortificato e guidato.

Riconosco che in parte le mie paure nascono dal fatto che vivo in un mondo ingiusto, che si comporta male nei miei confronti, che mi chiede cose sbagliate che Dio non approva. La società è pervasa dall’ingiustizia a tal punto che è molto facile restarne coinvolti, ed è proprio questo che mi atterra e mi spaventa.

Non è un caso che il Signore dica per bocca di Isaia che non devo temere, perché Lui mi sosterrà con la sua giustizia.

La giustizia di Dio trionferà sempre! Quindi, a pensarci bene noi non siamo vittime, perché la potenza di Dio non ha rivali, la sua saggezza non ha limiti e il suo amore per noi non conosce confini, e tutto ciò fa sì che non gli sfugga nulla.

Il problema è piuttosto il fatto che spesso perdiamo di vista il ruolo attivo di Dio nella nostra vita. Attivo, non passivo, né sorpreso dagli eventi o dalle nostre reazioni.

Paolo, che conosceva bene questo problema, pregava che i credenti fossero potentemente fortificati nell’uomo interiore, attraverso una comprensione sempre più grande dell’amore di Dio: “Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome, affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Efesini 3:14-19).

La cura di Dio per noi ha come motore e spinta il suo amore, che va oltre quello che possiamo immaginare. Ecco perché, davanti a ciò che sappiamo dalle Scritture, dovremmo imparare a frenare l’impulso di reagire con un MA, e dire piuttosto: Dio mi aMA!

Affronterò, per grazia di Dio, le incognite del nuovo anno con la certezza che Dio è con me. Supererò situazioni che non ho mai affrontato prima, convinto dell’aiuto concreto di Dio, che è sufficiente per ogni giorno. Prenderò decisioni più grandi di me, affidandomi alla saggezza che il Signore ha messo a mia disposizione nelle Scritture. 

Non dovrò farmi la strada da solo né appoggiarmi sulla mia intelligenza o forza, perché ho preso sul serio il mio rapporto con Dio: Egli è davvero il mio SIGNORE. Io lo servo senza “se” e senza “ma”, lasciandomi correggere, guidare e incoraggiare dalla sua Parola, in modo che la mia comprensione del suo amore sia più grande e consapevole ogni giorno di più.

Sarà un 2022 “da paura”!                 

Davide Standridge

 


Cani ai guinzagli divini

Era una sirena di pompieri, una macchina che portava qualcuno all’ospedale a che cosa? 

Mamma si svegliò. 

No, era Daniele che urlava. 

Mamma corse a vedere che cosa stesse succedendo. Ci mancava solo che con quelle grida facesse svegliare anche gli altri tre! 

Danielino stava seduto sul letto singhiozzando. La sua era paura. Paura selvaggia. 

Mamma cercò di calmarlo. “Hai male di pancia?” No. “Era un brutto sogno?” Le urla ricominciarono. Chiaro: era un brutto sogno. 

“Ma che c’era nel sogno?” 

“Lì sotto... i cani!”

“Ma va là, sotto il letto non ci sono cani. Non c’è niente!”

Mamma prese Daniele in braccio e gli fece vedere che sotto il letto non c’era nulla. 

“Sono andati via, adesso, mamma?” 

“Non ci sono mai stati. Ora mettiti tranquillo.” 

La sera dopo, prima di coricarsi, Daniele mise sotto il suo letto un bastone con una testa di cavallo in cima. 

“Questo si mette nell’angolo, nella scuderia” disse Mamma. 

“No” protestò Daniele, “lui tiene via i cani.” 

L’idea era decisamente pagana, ma la quiete piace a tutti e Mamma pensò che certe sottigliezze teologiche, in ogni modo, non possono essere afferrate da un bambino di quattro anni. La cosa importante era che tutti dormissero in pace. 

“Va bene, per stasera, ma soprattutto non ci pensare. Vedrai che dormirai bene.” 

Invece i cani, puntualmente, ritornarono per varie notti. 

Di giorno Daniele entrava in camera con fare sospettoso, guardava sotto il letto, parlava di cani. Davide e Deborah un po’ lo ammiravano, un po’ si spaventavano anche loro. 

Una sera, Mamma andò accanto al letto di Daniele (il cavallo era in scuderia, sconfitto) e disse: “Ora chiediamo a Gesù di tenere lontano tutti i cani.” 

“Tutti, mamma?” 

“Tutti.” 

Mamma e Daniele pregarono: “Gesù, per piacere tieni lontano tutti i cani da Daniele e aiutalo a dormire bene. Grazie. Amen.” 

Daniele si mise giù con un sorriso di beatitudine completa e di perfetta tranquillità. 

Mamma, mentre spegneva la luce, chiese a Dio di aiutarla a non dimenticare quel sorriso e quella lezione di fiducia. “La fede è certezza di cose che si sperano...” dice la Bibbia. 

E i cani sono tornati? No. “Gesù li tiene legati”, dice Daniele.

M.T. Standridge, "Un pizzico di sale" ristampa del luglio 1962

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La VOCE dicembre 2021

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Un pizzico di sale "Cuscini, sapone e panna montata" 


Il dono ineffabile

Nessuno sa la data esatta della nascita di Gesù. Forse ha avuto luogo in primavera, forse in autunno. Si sa solo, dal Vangelo di Luca, che è avvenuta nell’anno del censimento ordinato dall’Imperatore Cesare Augusto, al tempo in cui Quirinio governava la Siria.

Dato che non c’è stata mai sicurezza sulla data di nascita di Gesù, la chiesa “ufficiale” ha scelto arbitrariamente la data del 25 dicembre, e attorno a tutto l’evento si è sviluppata una cornice di tradizioni e leggende popolari sdolcinate e quasi strappalacrime. Come il freddo, il gelo, il bue e l’asino, le cornamuse, i presepi. Il tutto accompagnato da cibi speciali. Alberi decorati, luci e comete, luminarie. E chi più ne ha, più ne metta. 

Per reazione a tante tradizioni inventate, alcuni gruppi di evangelici e alcune sette hanno deciso che di Natale non si deve neppure parlare. Così da una esagerazione si è purtroppo caduti facilmente in un’altra.

Sia come sia, il fatto unico, reale e straordinario che Dio si è incarnato miracolosamente nel corpo di Maria, si è sviluppato in lei come qualsiasi altro feto ed è nato come qualsiasi altro bambino dopo nove mesi di gestazione, rimane. 

La sua data di nascita non è importante. È, però, straordinariamente importante che sia nato!

L’incarnazione  preparata da sempre

Se Gesù non fosse nato, non ci sarebbe salvezza per noi. Lui è venuto per cercare e salvare ciò che era perito e per dare la sua vita per noi, per morire al nostro posto e rendere possibile la riconciliazione fra Dio e gli uomini. 
Se non avesse avuto un corpo umano, non avrebbe potuto morire. 
Se non fosse stato Dio non avrebbe potuto offrire se stesso come sacrificio perfetto.

La venuta di Gesù non è stata un fatto improvviso e imprevisto. Era stata preparata da tutta l’eternità e annunciata da Dio stesso, subito dopo la caduta di Adamo e Eva nel peccato. 

Vari profeti ne hanno parlato attraverso i secoli, indicando con precisione il luogo in cui sarebbe nato, il tipo di morte che avrebbe subito, e il tipo di ministero che avrebbe esercitato.

Isaia, vissuto circa 800 anni prima della nascita di Gesù, nel capitolo 9 del suo libro, per ispirazione di Dio, ha scritto una delle profezie più belle, più complete e più dettagliate sul carattere del “Bambino”, Figlio di Dio, che sarebbe nato e sulle prerogative che avrebbe avuto. Parleremo su ognuna di esse!

Il momento storico in cui Isaia pronunciò questa profezia era difficile, come è difficile quello in cui noi viviamo. Il peccato dilagava in Israele e il popolo viveva lontano da Dio esattamente come succede oggi da noi. Il giudizio di Dio sul peccato si stava avvicinando, come Dio afferma che succede anche oggi. Le tenebre spirituali erano pesanti come accade oggi fra la gente che pensa a tutto fuorché a Dio. 

Ma la speranza di un Messia liberatore persisteva. Perciò il profeta annunciava che “Il popolo che camminava nelle tenebre vede una gran luce; su quelli che abitavano il paese nell’ombra della morte la luce risplende” (Isaia 9:1). 

Stava per nascere un Liberatore. 

Come poteva usare il verbo al presente otto secoli prima dell’avvenimento? 

Per Dio il tempo, come lo intendiamo noi, calcolato in anni, mesi, giorni, ore e minuti, non esiste. Quello che per noi è un secolo, per Lui è un istante. Egli vive in un eterno presente. 

Perciò, anche se Gesù sarebbe nato sulla terra molto tempo dopo, Dio poteva già dire con chiarezza: “Un bambino ci è nato… la luce risplende… il popolo vede una gran luce.” 

Noi viviamo dopo l’adempimento di questa profezia e possiamo constatarne l’assoluta esattezza. 

Gesù è venuto come luce del mondo, ha portato la salvezza.

Ma, nonostante questa nostra posizione privilegiata, conosciamo davvero e esperimentiamo  personalmente il Salvatore che è nato, è vissuto come un uomo qualsiasi, è morto per la nostra salvezza, è risuscitato trionfante sulla morte per darci la vita eterna?

Spero di sì. In ogni modo, meditare sulla descrizione del Bambino annunciato da Isaia, ci aiuterà a godere più che mai la bellezza e l’importanza della sua nascita. 

Un bambino ci è nato 

Sull’infanzia di Gesù, i Vangeli dicono ben poco. Tutto quello che si sa è che è nato a Betlemme, è stato circonciso quando aveva otto giorni, come prescriveva la legge di Mosè, è andato in Egitto con Giuseppe e Maria, per sfuggire a quella che poi è stata chiamata “la strage degli innocenti”, voluta da Erode, il quale voleva sbarazzarsi di un possibile contendente al trono.

Si sa che Gesù è cresciuto come un bambino qualsiasi, che è vissuto a Nazaret e che a 12 anni è andato a Gerusalemme e ha avuto un incontro molto interessante con i dottori della legge nel tempio. Che fino all’età di 30 anni è stato considerato solamente “il figlio del falegname”, che aveva fratelli e sorelle e che era ubbidiente a Dio e ai genitori terreni. 

Isaia 9:5 dice: Un bambino ci è nato.”

Il Signore Gesù era maschio e anche questo ha un peso. 

Il primo uomo creato da Dio, Adamo, ha peccato e, a causa della sua disubbidienza all’ordine di Dio, “Il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte. Così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” spiega l’Apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani (5:12). 

Dopo il peccato di Adamo, era necessario che un altro uomo diventasse un salvatore, “perché se per la trasgressione di uno solo molti sono morti, a maggior ragione la grazia di Dio e il dono della grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo, sono stati riversati abbondantemente su molti” (5:15). 

Doveva essere, però, un uomo perfetto e assolutamente senza peccato. 

Sempre Paolo afferma ancora: “Come per una sola trasgressione la condanna si è estesa a tutti gli uomini, così pure con un solo atto di giustizia, la giustificazione che dà la vita si è estesa a tutti gli uomini… affinché come il peccato regnò mediante la morte, così pure la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (5:18,21). 

Non potrebbe essere più chiaro: il primo uomo, Adamo, è stato lo strumento che ha portato la morte e il peccato nella razza umana. Un secondo uomo, perfetto, il Figlio di Dio, Gesù Cristo, è stato lo strumento per portare la grazia e la vita alla razza umana decaduta. 

“Un bambino è nato” precisa ancora Isaia. Gesù era contemporaneamente Dio e uomo. 

Come uomo, ha potuto morire. Come Dio, ha potuto offrirsi come sacrificio perfetto al posto dell’uomo e risuscitare.

Infine, Isaia afferma: “Un bambino ci è nato.” È nato per salvare ogni individuo che compone l’umanità. È nato per te e per me. 

L’opera di salvezza di Gesù ha valore universale, ma deve essere accolta per mezzo della fede da ogni individuo. 

Tu lo hai accolto?

Maria Teresa Standridge

Tratto dal libretto “Un bambino ci è nato”. Vedi la serie "Una settimana con Maria Teresa"


Cuscini, sapone e panna montata

“Presto, vieni a vedere! Corri, corri, Mamma!” 

Mamma stava rientrando con le braccia cariche di spese. Due bottiglie di latte, un sacchetto di patatine novelle, quattro cespi di insalata e un giornale... più i guanti e la borsa. 

Per quello che Mamma ne sapeva, i bambini potevano stare buttandosi giù dal terrazzo, strappando i gerani – gioia e orgoglio di Papà – o pitturando col gesso la biancheria stesa ad asciugare. 

Mamma posò i suoi pacchi e corse a vedere (le patatine corsero allegramente sulla tavola e rimbalzarono sul pavimento). 

Tutto era in ordine e i bambini stavano innocentemente col naso in su a guardare il cielo. Perfino Stefano, dal suo recinto, guardava in alto saltando eccitato. 

“Guarda le nuvole, Mamma!” disse Daniele. 

“Quelle sembrano sapone!” fece eco Davide. 

“No, panna montata” corresse Daniele. 

“Un po’ sporche” commentò Deborah osservandone una leggermente grigia. 

Il cielo era una meraviglia. Azzurro, cupo, come può essere a Roma, con delle immense nuvole bianche, sparse senza economia, che viaggiavano nello spazio. 

“A me piace quella lì, grassa e bianca come un cuscino. Mi piacerebbe che Gesù stesse seduto lì sopra” così lo potrei vedere. Proprio mi piacerebbe” disse Daniele. 

“Gesù sta là sopra, Mamma?” chiese Davide. 

“Sì. Gesù è dappertutto.” 

“Gesù ha fatto le nuvole?” “Sì.” 

“E le tiene appese lassù?” 

“E le fa camminare?” 

“Sì, e un giorno dentro ad una grande nuvola, verrà a prendere tutti gli uomini, le donne e i bambini col cuore bianco e pulito.” 

Davide, Daniele e Deborah rimasero ancora un momento a guardare. 

“Il Signore stesso, con potente grido, con voce d'arcangelo e con tromba di Dio, scenderà dal cielo, e i morti in Cristo risusciteranno i primi; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo, insieme con loro rapiti sulle nuvole, a incontrare il Signore nell'aria; e così saremo sempre col Signore” pensò Mamma, mentre cominciava a preparare il pranzo e a dare la caccia alle patatine sparse sul pavimento.

M.T. Standridge, "Un pizzico di sale" ristampa del luglio 1962

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La VOCE novembre 2021

La nuova governatrice dello stato di New York, Kathy Hochul, in un suo discorso su coronavirus e vaccino, ha detto ai suoi sostenitori: 

“Indosso tutto il tempo la mia collana di persona vaccinata per affermare che ho fatto il vaccino. E voi tutti – lo so che siete vaccinati, voi siete quelli intelligenti – sapete che ci sono altri là fuori che non danno ascolto a Dio. Non fanno ciò che Dio vuole, e voi lo sapete e li conoscete. 
“Ho bisogno di voi, ho bisogno che voi siate i miei discepoli, che andiate a parlare [del vaccino], e che diciate che lo dobbiamo l’uno all’altro. Noi ci amiamo a vicenda. Gesù ci ha insegnato ad amarci gli uni gli altri. E in che altro modo possiamo mostrare questo amore se non prendendoci cura gli uni degli altri, al punto di dire: «Per favore, fatti vaccinare perché ti amo e voglio che tu viva!»?”

Tutt’altra cosa il governatore della Florida, Ron de Santis, che si è scagliato contro ogni imposizione sul vaccino, dicendo che sancirà multe fino a 5.000 dollari contro qualsiasi impresa e altra entità lavorativa, governativa e non, che impone il vaccino ai suoi impiegati.

La governatrice Hochul è cresciuta in una famiglia cattolica ed è a favore dell’aborto, mentre Ron de Santis, cattolico anche lui, si schiera invece contro l’aborto. Due persone di “fede”, ma con opinioni diametralmente opposte.

Questi due esempi dimostrano che anche dall’altra parte dell’oceano si acuiscono posizioni divergenti sul Covid e sui vaccini che, portate all’estremo, possono sfociare in violenza. 

L’opinione pubblica è fortemente divisa su questo argomento, ma lo sono anche le chiese e i credenti. 

Cosa sta succedendo? Come abbiamo fatto a farci trascinare in litigi e divisioni? E cosa dobbiamo fare per uscirne fuori?

LA MASCHERINA COPRE LA BOCCA MA NON FERMA LA LINGUA

“SIGNORE, poni una guardia davanti alla mia bocca, sorveglia l’uscio delle mie labbra.” Salmo 141:3

Davide, che ha scritto questo salmo, era consapevole che senza l’aiuto di Dio, dalla sua bocca potevano facilmente uscire parole e frasi che avrebbero fatto del male e offeso Dio. 

Anche Giacomo avverte del pericolo di parlare in modo avventato che porta conseguenze disastrose. Nella sua lettera dice che “la lingua è un piccolo membro, eppure si vanta di grandi cose. Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità. Posta com’è fra le nostre membra, contamina tutto il corpo e, infiammata dalla geenna, dà fuoco al ciclo della vita” (3:5,6).

Adesso che le opinioni sul coronavirus stanno infiammando gli animi di tutti, perfino i credenti stanno permettendo alle loro lingue di incendiare e rovinare rapporti coi fratelli in fede, con giudizi reciproci, provocando addirittura spaccature nelle chiese.

In effetti, la pandemia ha palesato quanto siano fragili l’unità e l’amore fra i credenti nelle chiese evangeliche.

Non è stato il coronavirus ad aver introdotto i dissensi nelle chiese, che purtroppo ci sono da sempre, ha solo contribuito a riportare alla luce problemi non affrontati e irrisolti. È triste dover ammettere che i litigi nelle chiese non sono una novità, e temo che non cesseranno finché saremo su questa terra.

DISTINTAMENTE DISCEPOLI 

Molti sono pronti a difendere le loro posizioni nelle controversie, citando versetti biblici come se fossero armi. 

Anche se alcune divisioni sono legittime, perché basate su chiare indicazioni delle Scritture, molte altre non lo sono affatto, anche perché è raro che una spaccatura sia dettata dall’amore. Le scissioni sono piuttosto eventi senza espressioni di affetto.

Ma l’amore nella chiesa non è un’opzione, come un’ideale da ricercare “quando possibile”. Al contrario, è un elemento fondamentale per la vita in comune dei veri cristiani.

Proprio perché Gesù lo sapeva ha dichiarato: “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri (Giovanni 13:34,35). 

Quando l’amore è manifestato e vissuto in modo pratico nella chiesa locale, si ha la dimostrazione che i veri cristiani sono anche veri discepoli. Non professano la fede soltanto a parole, ma la vivono in pratica nei rapporti. 

“Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:18-20).

Il piano di Dio è che chi crede in Cristo sia anche suo discepolo, e che, mettendo in pratica la sua Parola, evangelizzi altre persone invitando anche loro a diventare discepoli di Gesù. 

Ma non tutti quelli che fanno una professione di fede diventano automaticamente discepoli. Forse bisognerebbe spiegare bene che chiamarsi cristiano implica l’essere un discepolo di Cristo. Magari parliamo della salvezza senza menzionare che è strettamente legata al concetto di discepolato.

Fare di qualcuno un discepolo di Cristo vuol dire “insegnargli a osservare tutte quante le cose che Cristo ha comandate”. Il Signore ne ha comandate tante che fanno sì che la vita cristiana sia un cammino vero e proprio, ossia un progredire durante tutta la vita. Ma cosa dimostra che un cristiano è anche vero discepolo? L’amore fra i credenti ne è la prova. 

Non si tratta di un amore fatto di parole vuote, ma di fatti e gesti concreti che lo esprimono e lo fanno vivere. Ma troppo spesso le nostre parole tradiscono quello che cova effettivamente il nostro cuore, e così demoliamo con la nostra bocca rapporti che abbiamo costruito in anni.

Parliamo di evangelizzazione, altra prova di amore. Se nemmeno i bollettini dei morti per Covid, quotidianamente aggiornati, ci spingono a riflettere sulla realtà della morte, mi domando che cosa mai potrà farlo allora. 

Non si tratta solo di numeri. I morti sono morti davvero, e quelli che non erano diventati figli di Dio credendo in Cristo Gesù sono realmente andati all’inferno, indipendentemente dalla causa della loro morte. Davanti a tutto questo, il vero credente è impossibile che rimanga insensibile. 

La comunione tra i credenti è una testimonianza importante quanto la nostra vita privata. Per questo Gesù ha detto: “Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:20,21).

L’unità tra i veri cristiani è un mezzo che Dio ha stabilito per invitare le persone nel mondo a credere che Gesù è il Figlio di Dio, e che è venuto per salvare coloro che credono in lui.

L’unità nella chiesa e l’amore tra veri credenti riguardano te personalmente, e cominciano da te. 

Sono l’espressione visibile che Dio ci ha salvati. Ecco le parole dell’Apostolo Pietro chiare e solenni: 

“E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l’opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno; sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della fondazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi; per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio.
“Avendo purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore, perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio” (1 Pietro 1:17-23).

Avere conosciuto Cristo, essere quindi stati acquistati da lui e rigenerati, produce in ogni vero credente un intenso amore sincero, non forzato. L’ascolto della Parola di Dio e la sua applicazione pratica alla nostra vita dovrebbe spingerci ad amare gli altri proprio in questo modo. 

Ma il nostro amore deve anche essere messo alla prova, perché l’unità tra i credenti è minata dal fatto che siamo fallibili e difficili da amare. Proprio per questo motivo Pietro scrive: “Soprattutto, abbiate amore intenso gli uni per gli altri, perché l’amore copre una gran quantità di peccati” (1 Pietro 4:8). 

Sapevi che la parola “intenso” nella lingua originale significa amare “con la mano tesa”? Una mano tesa invita fratelli e sorelle ad avvicinarsi a te. 

Ami con le braccia tese o conserte? 
Il tuo braccio è teso per accogliere o per tenere lontano? 
Ami in modo discriminatorio, dimenticando che se non fosse per Cristo saremmo tutti odiosi e difficili da amare (Tito 3:1-7)?

I dissidi fra credenti e fra chiese per opinioni diverse sul Covid stanno influenzando anche i veri credenti a vivere con il braccio teso pieno di giudizio, in aperto conflitto gli uni contro gli altri. 
È possibile che abbiamo dimenticato cosa ci unisca e cosa Dio abbia fatto in noi?

L’ORIGINE DELL’UNITÀ

Da dove proviene l’unità di cui abbiamo parlato, e cosa si aspetta Dio da noi? 

L’Apostolo Paolo lo spiega alla chiesa di Efeso così: 

“Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti” (Efesini 4:1-6).

Leggendo questo passo alcune verità basilari devono rimanere impresse nella nostra mente.

Prima di tutto, con il nostro comportamento possiamo onorare Cristo e ciò che ha fatto per noi, oppure possiamo comportarci in modo indegno e irrispettoso verso di lui. Un discepolo, ovviamente, desidera solo seguire il Maestro, ed evitare qualunque cosa possa diffamarlo. 

Non siamo degni della salvezza (“vocazione”) e non lo saremo mai, perché più volte la Parola di Dio ribadisce che non possiamo meritare il favore di Dio. La salvezza è un dono (Efesini 2:1-10). È poco ma sicuro, però, che possiamo essere incoerenti col nostro comportamento rispetto al nostro rapporto con Dio.

Una seconda verità, sottintesa nelle parole di Paolo, è che il credente non è risparmiato dalle difficoltà. Lui scriveva dalla prigione, infatti da quando si era convertito a Cristo la sua vita era stata segnata da momenti di grande sofferenza, spesso a causa della sua testimonianza e dell’ostilità dei capi religiosi e delle autorità politiche del suo tempo. 

Alcuni pensano che l’assenza di problemi sia una conferma che Dio approvi il nostro comportamento, ma non è così! L’unico modo per valutare e capire senza errori se Dio sia soddisfatto del nostro comportamento oppure no, è confrontarci con la sua Parola.

La terza verità è che siamo chiamati a conservare l’unità, e non a produrla. Non possiamo creare l’unità, ma possiamo rovinarla e siamo anche bravi nel farlo!

Umiltà, mansuetudine, pazienza e sopportazione amorevole sono gli atteggiamenti necessari nella vita di coloro che non vogliono essere un ostacolo all’unità nella chiesa.

La mancanza di umiltà non è solo un problema tra un credente e l’altro, ma anche tra il credente e Dio. 
Dio resiste ai superbi, quelli che si confrontano in prima persona con sé stessi. L’orgoglio dell’uomo, il voler diventare come Dio, è stato il motivo principale della sua caduta e continua a essere il suo tallone d’Achille. 

L’orgoglio ci spinge a credere che le nostre opinioni siano le migliori, e che debbano prevalere nei confronti degli altri. 

L’orgoglio distrugge qualsiasi possibilità di unità nella chiesa. 

Per orgoglio lasciamo le nostre convinzioni soggettive fermentare incontrollate dentro di noi fino a che, in un attimo, traboccano producendo astio e disprezzo quando ci confrontiamo con gli altri. 

Avere idee diverse e fare valutazioni differenti è normale, ma con la mansuetudine è possibile prevenire le reazioni sbagliate. Quando manca la mansuetudine, che è la forza sotto controllo, le reazioni rischiano di essere peccaminose, portando anche divisione. 

La pazienza è la capacità di non reagire quando si è sotto stress. 
Ci vuole pazienza nelle situazioni che non ci piacciono, davanti a opinioni o comportamenti che ci urtano e che ci sembrano sbagliati. 

Il fatto che Paolo menzioni la pazienza, dimostra che ci saranno sempre motivi per potenziali conflitti. Cosa sceglieremo di fare in quei momenti? Sceglieremo la sopportazione pacifica? Fino a che punto siamo pronti a spingerci per proteggere la pace? 

Giacomo scrive: 

“Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza.
Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione. 
La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (Giacomo 3:13-18).

Pensi di poter difendere il tono aspro delle tue parole e legittimare l’atteggiamento con cui le dici, solamente citando le Scritture? 
Tendi a giustificare la durezza dei termini che usi ostentando la tua spiritualità? 

È difficile conciliare le parole di Giacomo con l’atteggiamento intollerante sempre più comune tra le persone.

PRESERVARE L’UNITÀ 

L’unità dei credenti non nasce per sforzi, patti e alleanze umane. È Dio che la produce tra i suoi figli. Nessun credente è capace di crearla. Il Signore stesso la stabilisce in modo sovrannaturale, in un modo inimmaginabile per l’uomo. 

Dio ha già compiuto delle azioni per il vero cristiano che lo hanno unito realmente a tutti coloro che Egli ha salvato nei secoli, in tutto il mondo (Efesini 2:11-18).

I veri cristiani del 2021 sono uniti da un vincolo sovrannaturale a tutti i cristiani del primo secolo. E sono uniti anche ai credenti dell’anno 500 e del 1500. Sono uniti perché Dio li ha uniti.

Questa unità continua a esistere attraverso tutte le epoche, e si estende anche geograficamente, arrivando a ogni credente ovunque nel mondo. Noi che siamo in Italia siamo uniti ai nostri fratelli islandesi, i credenti francesi sono uniti con i credenti brasiliani, come i fratelli giapponesi sono uniti ai fratelli canadesi e quelli americani con quelli afgani. Uniti di fatto!

Ma attenzione! Dato che non richiede nessuno sforzo particolare mantenere l’unità con chi non ho mai visto e non conosco (non può mica pestarmi i piedi né i miei modi possono offenderlo!) serve una prova del nove.

Per questo l’unità deve manifestarsi nella chiesa locale, dove chiunque potrebbe dire e fare cose che mi irritano, avere convinzioni diverse dalle mie, educare i figli in modo diverso da me… 

Per non parlare del fatto che a volte veniamo da culture diverse, forse qualcuno parla troppo o troppo poco, c’è chi è puntuale mentre io fatico ad arrivare in orario alle riunioni... C’è chi serve con gioia e chi schiva qualsiasi responsabilità. Forse si cantano i canti che ci piacciono o si preferiscono gli inni che ci addormentano, c’è chi prega a lungo e chi non prega in pubblico… 

L’unità è messa sotto pressione e provata proprio nella comunità!

I PARAMETRI DELL’UNITÀ

Un corpo, uno Spirito, una speranza, un Signore, una fede, un battesimo, un Dio e Padre. 
Sette realtà singolari che solo un vero cristiano può avere. 

Dio non ci ha chiamato a unirci con tutte le persone religiose, morali o sincere. Vuole piuttosto che ci impegniamo a preservare l’unità con tutti coloro che Lui sovranamente ha deciso di unire a noi in un solo corpo.

Solo i veri cristiani fanno parte del corpo di Cristo, e noi abbiamo la responsabilità di curarli e accettare tutti senza reputarci superiori o considerarli inutili. Questo Dio vuole da noi.

Lo Spirito Santo ha convinto loro come ha fatto con noi di peccato, di giustizia e di giudizio, e continua a camminare accanto a loro nel processo di santificazione. 

Tutti i veri cristiani trascorreranno certamente l’eternità con noi, quindi sarà meglio che impariamo ad andare d’accordo già da ora. 

Ogni vero credente ha un solo Signore: appartiene a Gesù Cristo, è suo schiavo e suo servitore. Come noi, anche lui deve rispondere delle sue azioni direttamente a Cristo. 

La chiesa è un gruppo esclusivo perché c’è solo una fede che permettere di entrarvi, ed è la fede in Gesù Cristo. 

C’è un solo vangelo che salva, un solo mediatore fra Dio e gli uomini. Gesù è il Signore e Salvatore di ogni vero cristiano. 

C’è un solo battesimo biblico che esprime visibilmente quello che Dio ha fatto interiormente nei suoi figli, ed è il battesimo per immersione che ci accomuna a Cristo: siamo morti al peccato, rinati come nuove creature, desideriamo camminare in santità, e Dio è il nostro Padre perché ci ha fatti rinascere quando abbiamo creduto in Cristo Gesù. Egli è sovrano e attento alle nostre vite.

Sono realtà che non possiamo contraffare né produrre per noi stessi o per un’altra persona. Possiamo solo pregare che Dio lo faccia.

PROTETTORI DELL’UNITÀ

Tu e io abbiamo il compito importante di proteggere l’unità nella chiesa prevenendo le spaccature, vaccino o non vaccino, mascherine o non mascherine. 

Per quanto le nostre opinioni possano essere ragionate e radicate, la responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri è più importante. 

Nessuno si aspettava una pandemia come il coronavirus. Nessuno di noi la poteva immaginare né aveva mai vissuto prima un evento di tale portata. 

Ma è anche proprio in vista di tempi come questi, quando la chiesa è messa sotto pressione da eventi politici o catastrofici, che Dio ha stabilito delle guide in ogni chiesa con il compito di pascere il gregge, che è difficile da guidare. Lo devono fare con l’atteggiamento giusto, con attenzione e sottomissione al Signore.

Le istruzioni molto pratiche di Paolo a  Timoteo valgono ancora: “Evita inoltre le dispute stolte e insensate, sapendo che generano contese. Il servo del Signore non deve litigare, ma deve essere mite con tutti, capace di insegnare, paziente” (2 Timoteo 2:23,24).

Piangiamo per il nostro peccato di permettere o provocare divisioni! Piangiamo perché le moltitudini muoiono senza Cristo. Piangiamo se nelle nostre chiese non c’è amore e unità. 

Ma se invece nella tua chiesa l’amore e l’unità regnano, allora ringrazia Dio, e sii pronto e sveglio per proteggerla contro qualsiasi nemico voglia minarla.

Comportiamoci da figli di Dio!

– D.S.

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La VOCE ottobre 2021

“Ciao Arnaldo, come stai?” “Sto bene, grazie. Solo molto indaffarato!”

“Ah, davvero? Che ti succede?”

“Beh, sto ristrutturando casa… Ho pianificato tutto, ma ora devo trovare la ditta che eseguirà i lavori.”

“Non c’è qualcuno del mestiere in chiesa che potrebbe darti una mano?”

“Ma che scherziamo?! Io non mi fido dei credenti. Non so tu... Ho avuto troppe brutte esperienze. Lavorano male e sono poco affidabili...”

Le parole di Arnaldo mi hanno rattristato molto, ma non ho potuto fare a meno di ricordare che anch’io sono stato deluso dai credenti. Li assumi per fare un certo lavoro, anche perché ti sembra giusto e gentile aiutare fratelli in difficoltà. Ma se poi non fanno quello che avevano promesso o lo fanno malamente, sei a disagio perché discutere con loro è l’ultima cosa che vorresti.

Sembra che tu sia obbligato,  per il semplice fatto che sei un credente, a “comprenderli” quando ogni altra faccenda ha precedenza sull’impegno pattuito con te.

Ci resti male, è chiaro, e sei insoddisfatto del lavoro eseguito, ma per non creare problemi in chiesa non reclami più di tanto. Metti in pratica quello che Paolo scrive in 1 Corinzi 6:7 e “patisci qualche torto o danno.”

Ti resta però il coltello dalla parte del manico: puoi fare come Arnaldo e decidere di non assumere più credenti o peggio, non pagare il lavoro.

Ma deve essere così? Tu e io, facciamo parte della soluzione o del problema?

Di che patto sei?

Anzitutto dobbiamo tenere presente che non tutti quelli che si definiscono cristiani lo sono davvero. Alcuni, guardando la loro vita, sembrano aver stipulato solo una polizza contro l’inferno, e il loro modo di vivere non è cambiato un granché. 

A volte, quando si parla dell’essenza della vita cristiana, si mette molta enfasi sulla preghiera, sulla lettura della Bibbia e su altri aspetti spirituali, ma si tende a dimenticare che Dio desidera che la vita del credente cambi e migliori da tutti i punti di vista. Anche l’essere affidabili fa parte di questo processo.

Secondo la Treccani la parola affidabile si riferisce “a cosa o persona sulla quale si può fare affidamento, di cui si può fidare”, che è “attendibile, corretta, coscienziosa, credibile, leale, seria e sicura.” 

È una qualità che si dovrebbe trovare in tutti coloro che sono nati di nuovo, ma che, nel momento del bisogno, si rivela sorprendentemente rara.

Nella sua prima lettera ai Corinzi l’Apostolo Paolo ha scritto: “Del resto, quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele” (4:2). 

Certo, stava parlando di Pietro, di Apollo e di sé stesso in quanto apostoli e ministri del vangelo, ma sarebbe riduttivo pensare che la fedeltà sia richiesta solo ai cosiddetti servitori di Dio. Cercare di trovare nelle parole di Paolo una facile scappatoia dalle proprie responsabilità, è come arrampicarsi sugli specchi.

Infatti, Dio si aspetta che ogni moglie, figlio e marito, ogni studente e lavoratore, ogni guida e membro di chiesa, insomma ognuno si dimostri affidabile. Allora è opportuno farci un esame di coscienza per vedere se lo siamo. Facciamolo con questo piccolo esercizio sulla frase di Paolo:

“Si richiede” – Chi lo richiede? Cosa significa? Ha il diritto di farlo?

“Amministratori” – Chi sono gli amministratori? Cosa amministrano? Chi gli ha affidato questo compito?

“Sia trovato” – Chi lo deve trovare? Quando lo deve trovare?

“Fedele” – Cosa vuol dire? Fedele a chi e in che cosa?

Proviamo a rispondere a queste domande confrontandoci con le nostre responsabilità. Per aiutarci a procedere in modo logico, cominciamo dall’ultima parola: fedele.

Essere fedeli

La parola fedele ricorre spesso nel Nuovo Testamento. Racchiude in sé il concetto di essere degno di fiducia, qualcuno su cui ci si può contare, coscienzioso, che mantiene la parola data, che compie le proprie responsabilità.

Una persona fedele fa quello che sa essere giusto, anche quando nessuno la vede. L’Apostolo Paolo comanda ai credenti di essere questo tipo di persone:

“Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo. 
“Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute, perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato” (Filippesi 2:12-16).

Questi versetti sono un concentrato di istruzioni molto pratiche per una vita cristiana che Dio gradisce.

Il principio di fondo è che chi è fedele, lo è sempre, indipendentemente dal fatto che sia osservato o meno. 

La fedeltà è strettamente collegata alla salvezza. Mi spiego: la salvezza non dipende dalla nostra capacità di essere fedeli, ma ubbidire a Dio diventa fonte di gioia per noi come conseguenza del nostro nuovo rapporto con Lui. 

È Lui il nostro punto di riferimento assoluto, non le persone intorno a noi. 

E benché la Bibbia ci esorti a essere sottomessi a ogni autorità come buoni cittadini, la nostra fedeltà incondizionata deve essere principalmente verso Dio e la sua Parola, e solo di conseguenza verso le autorità – giuste o ingiuste che siano. 

Il fatto che viviamo in mezzo a peccatori che amano il peccato e approvano chi pecca, non deve indurci ad abbassare il nostro standard, paragonandoci a loro. 

Il loro stile di vita lontano da Dio non sarà mai una giustificazione per la nostra mancanza di affidabilità. 

Restare fedeli è difficile, ma la fedeltà di cui parla Paolo spicca sicuramente in confronto alla normalità, perché risplende!

Nel buio della notte gli astri si distinguono senza sforzo, la gente li ammira e li studia. Sono talmente riconoscibili che tanti hanno addirittura un nome. Brillano in netto contrasto con quello che li circonda. 

Similmente, il credente fedele si distingue per la sua affidabilità: è diverso dagli altri e si tiene fuori dalla mischia, perché ci tiene alla sua testimonianza. 

In questo mondo caduco la fedeltà è come un diamante rarissimo. 

Senza l’aiuto di Dio i nostri più tenaci tentativi di restare fedeli sarebbero insufficienti. Come chiunque altro, saremmo motivati dall’egoismo, e la nostra fedeltà si esaurirebbe nel momento in cui il nostro tornaconto svanisce. 

Ma proprio perché Dio è colui che produce in noi il volere e l’agire, ci troviamo in una situazione di estremo vantaggio: Lui stesso viene in aiuto alla nostra infedeltà.

Perciò, se a volte ci sembra che essere fedeli sia troppo gravoso, ricordiamoci che questo è il suo disegno e il suo piano benevolo per noi e per le persone su cui abbiamo influenza.

La nostra fedeltà, quindi, riguarda più Dio che chi ci sta intorno, che senza dubbio ne beneficerà. Ma in realtà, il Signore deve essere il beneficiario principale, e noi vogliamo soprattutto piacere a Lui. 

Forse gli altri non meritano i frutti del nostro impegno verso il Signore e, per come si comportano, ci potremmo anche permettere di essere integri a metà nei loro confronti. Ma con Dio questo ragionamento non regge! 

Egli richiede da noi fedeltà perché Lui la merita, e perché il nostro comportamento influisce sulla sua reputazione. Siamo portatori della sua immagine, dato che i cristiani rappresentano Cristo.

Si richiede

È ovvio che ognuno vuole che siamo degni della loro fiducia: se lo aspetta nostra moglie, nostro marito, i nostri genitori, i nostri insegnanti, i nostri datori di lavoro, i nostri amici e il nostro governo. Ma spesso e volentieri vediamo che tutte queste persone, fallibili come noi, sono poco affidabili, non mantengono la parola, e ci viene la voglia di ripagarle con la stessa moneta.

Concentrarci sulle mancanze altrui e agire di conseguenza, è un ostacolo alla nostra crescita spirituale. Ricordiamoci piuttosto che Dio vuole che il nostro comportamento lo onori in ogni situazione.

Uno degli aspetti su cui molti sorvolano è il mantenere la parola data. Gesù ha detto: “Il vostro parlare sia: «Sì, sì; no, no»; poiché il di più viene dal maligno” (Matteo 5:37).

Ogni volta che apriamo la bocca le persone non devono avere dubbi sulla veridicità di ciò che diciamo. 

Quando affermi o prometti qualcosa, devi renderti conto che non parli solo a chi ti sta davanti, ma stai dicendo queste cose davanti a Dio.

Gesù ha affermato anche che “di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12:36,37).

Sarai d’accordo con me che spesso parliamo a sproposito, e usiamo la lingua con estrema superficialità. 

Per alcuni promettere cose, senza l’intenzione di mantenere ciò che si è detto, è uno stile di vita.

Altri invece, per esempio a un colloquio di lavoro, sono pronti a promettere al di là di quello che potranno garantire, solo per essere sicuri di aggiudicarsi il posto. “Sono paladino della puntualità… Non perdo tempo con social media durante le ore di lavoro… Reggo benissimo lo stress… Mai preso un giorno di malattia...”

Il credente non può e non deve farlo, dovesse anche costargli di perdere l’occasione della vita. E se ha dato la sua parola, deve mantenerla a qualsiasi costo, tranne, ovviamente, che per cause di forza maggiore. 

Periodicamente succede che ci sono lavori da fare a casa o in ufficio. Allora chiamo sempre un operaio per un sopralluogo e per un preventivo. Preferisco rivolgermi ai credenti, ma ricordo pure che proprio da loro ho avuto le delusioni più grandi. Alcuni, forse per la troppa confidenza o proprio perché “siamo fratelli”, sono stati superficiali, e non hanno eseguito con attenzione e responsabilità il proprio lavoro. 

Oppure hanno rispettato i patti solo a metà, perché in fondo tra “fratelli” il rapporto di lavoro è meno vincolante e l’altro è più comprensivo. 

Le parole di Cristo, però, valgono per tutti. Essere fratelli in fede non dà il diritto di essere meno attenti alle promesse fatte.

Un altro fattore che spesso influisce sulla qualità e sull’esecuzione del lavoro tra i credenti sono i soldi. 

In passato ho frequentato diverse chiese per un lungo periodo, e sono stato coinvolto in qualche ministero. Ho potuto notare che quando un servizio è gratis l’affidabilità, ossia il lavoro svolto in modo eccellente, è una virtù poco praticata.

Chi si occupa delle pulizie dei locali? Qualche anima buona, senz’altro…

Le piante del vialetto all’entrata sono troppo cresciute e c’è erbaccia dappertutto. Che fare? Possiamo chiamare dei giovani “volontari”...

L’impianto elettrico, del riscaldamento, dell’audio ha bisogno di un intervento. C’è un fratello che sa smaneggiare…

Chi vuole partecipare alla cura dei locali va certamente incoraggiato, perché servendoci gli uni gli altri serviamo Cristo.

A lungo andare però, può succedere che quel particolare servizio non porti più tanta gioia come all’inizio: “Qualcun altro si occupi di riordinare i locali questa domenica e di mettere le sedie a posto prima dell’apertura della sala. Io proprio non me la sento, sono stanco, mica mi pagano… Che ci posso fare? Troveranno pure una soluzione…”

Oppure: “Tocca a me insegnare alla scuola domenicale questo fine settimana, ma ho avuto altri pensieri per la testa e non mi sono preparato come avrei voluto. E va bè, si dovranno accontentare…”

Dio richiede fedeltà anche in quello che facciamo gratis, infatti esige la nostra lealtà in ogni nostra attività! Perché?

Siamo amministratori

Un amministratore non serve sé stesso. E, nel caso nostro, non ci siamo autonominati “amministratori”. Qualcuno che di risorse umane ne sa più di tutti ci ha affidato incarichi e capacità, e dobbiamo svolgerli onorando il compito assegnatoci.

L’amministratore deve usare bene quello che il suo superiore gli ha affidato.

Sull’argomento c’è questa storia che Gesù ha raccontato: 

Avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 
Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone. 
Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 
Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: «Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque». 
Il suo padrone gli disse: «Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore». 
Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: «Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». 
Il suo padrone gli disse: «Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore». 
Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: «Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo». 
Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l’interesse. 
«Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti.» —Matteo 25:14-30

La storia è semplice. Dio affida a ognuno di noi dei talenti, capacità da usare per produrre risultati che siano graditi a Lui. Ovviamente non hanno tutti le stesse capacità, quindi anche le aspettative sono diverse. Ma essere svogliati, oziosi, pigri o anche spaventati e timidi non annulla quello che il Signore si aspetta da noi.

Nell’essere affidabili è incluso il concetto che la nostra vita deve essere produttiva in un modo o in un altro. 

Oggi molti si adagiano nella propria inerzia e diventano pigri, un po’ a causa di politiche di assistenzialismo con poca logica, un po’ per colpa di genitori troppo indulgenti. Comunque sia, il credente pigro si rovina con le proprie mani, ma poi si irrita con Dio (Proverbi 21:25; 24:30-34). 

Genitori non permettete che i vostri figli lo diventino!

Ogni credente ha capacità che Dio gli ha dato perché siano messe al suo servizio in primis, e di conseguenza verso gli altri. Infatti, un amministratore deve rendere conto a chi lo ha impiegato.

Sia trovato

“Il suo padrone gli disse: «Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore»”.

Il servo con cinque talenti e quello con due hanno ricevuto entrambi la stessa lode dal padrone soddisfatto del loro operato. Servi buoni e fedeli. 

In realtà, la parola servo nel testo originale greco è schiavo.

Spesso dimentichiamo che siamo schiavi di Cristo, schiavi di Dio. Certo che alla luce dell’essere schiavi, considerare il problema della nostra inaffidabilità e irresponsabilità diventa più palese, e capiamo chiaramente che non abbiamo scuse.

Giorno per giorno Dio ci scruta, e valuta la nostra vita.

Ci ha dato capacità, ci ha messo nelle circostanze in cui ci troviamo, e si aspetta che siamo fedeli e affidabili.

Perciò, non preoccuparti solo di quello che pensano gli altri, di bene o di male, ma preoccupati soprattutto di quello che pensa Dio.

A questo punto, dopo il nostro piccolo esame, facciamoci qualche domanda un po’ più pratica.

Siamo affidabili nel nostro lavoro? Siamo riconosciuti come persone che eccellono in ciò fanno, che rispettano i tempi pattuiti senza compromettere i risultati?

Siamo affidabili come genitori? I nostri figli sanno di poter contare su quello che diciamo, che non siano cose dettate dallo sfogo del momento che poi ritrattiamo? Sanno che ogni ubbidienza è premiata e la disubbidienza punita? Stiamo attenti a non promettere ciò che non possiamo mantenere?

Come mariti e mogli siamo affidabili? Ci diciamo le cose apertamente, con onestà e senza “giochi di potere”? Il nostro partner può contare su di noi per proteggere e custodire la nostra intimità dalle intromissioni esterne? Siamo leali l’uno verso l’altra?

Come studenti facciamo i nostri compiti con eccellenza? I nostri professori ci vedono come allievi che risplendono?

Nella chiesa gli altri possono fare affidamento sulla nostra presenza e sul nostro servizio? Contribuiamo con perseveranza al buon andamento della vita di chiesa, amando e servendo tutti senza pretendere di essere riconosciuti e ringraziati? 

Quanto siamo affidabili nelle piccole cose? Arriviamo puntuali agli appuntamenti? Restituiamo ciò che abbiamo preso in prestito appena possibile? Ripariamo le cose se si rompono per colpa nostra? Se qualcuno ci chiede un favore, lo facciamo senza procrastinare o sbuffare? 

Non tocca a noi cambiare il comportamento altrui. Al massimo possiamo migliorare noi stessi, ma è proprio questo che Dio vuole fare: renderci simili a suo 

Figlio, il Veritiero e il Fedele. 

Anche io voglio sentirmi dire dal Signore: “Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore!”

Basta con le scuse, Dio si aspetta da me fedeltà! 

– D.S.

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La VOCE settembre 2021

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A casa nostra 


All’uscita dell’asilo il nonno offre la mano alla piccola e si incamminano verso casa.

“Ma tu chi sei?... Non ti conosco!” dice il nonno guardando la nipotina. 

“E tu, chi sei? Io non ti conosco!” gli fa eco la piccola.

Arrivati a casa il nonno si rende conto che aveva preso la bambina sbagliata alla scuola materna! 

Il tutto si è poi risolto in poco tempo riportando a scuola la “nipotina” sbagliata e ritirando quella giusta.

È successo davvero in un asilo nido di Arezzo. Posso immaginare l’apprensione del papà della bimba sparita e l’affannosa ricerca dello sconosciuto che l’aveva presa!

Il nonno si è giustificato dicendo che era entrato dal portone sbagliato e che la bambina era omonima della sua nipotina. Sarà stato sovrappensiero o magari era distratto o forse sarà stata l’età…

Questo episodio mi ricorda quello che era successo a un  missionario straniero in Italia, con la nomea di essere uno sbadato cronico. Un giorno aveva preso per mano la figlia per accompagnarla a scuola a piedi, ma arrivato sul posto si era accorto di aver preso la pattumiera lasciando invece la figlia a casa. Raccontarlo suscitava sempre grande ilarità in chi lo conosceva.

Sono due storie vere finite bene, ma che fanno capire che figli e nipoti sono una grande responsabilità. Parliamone.

Una bella sorpresa

Da quando sono diventato papà ho ricevuto sette telefonate particolari che mi hanno sorpreso e reso felicissimo ma, allo stesso tempo, spinto a serie riflessioni. 

L’ultima di queste è arrivata poco tempo fa da mio figlio che vive negli Stati Uniti. Mi ha passato subito sua figlia e ho sentito grande eccitazione nella voce della mia nipotina che diceva: “Nonno, la mamma ha un fratellino nella sua pancia!”

Avevo già ricevuto sei annunci dello stesso tipo dai miei figli, e anche questa volta ho ringraziato il Signore per la nuova vita che Egli ha aggiunto alla nostra famiglia.

“Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra»” (Genesi 1:27,28).

Queste parole di Dio agli inizi della storia umana sono ricche di significato: Egli ha dato all’uomo il desiderio di procreare, e gli ha affidato anche i privilegi e i doveri che ne conseguono. Infatti, la nascita di ogni bambino comporta tante nuove responsabilità. E noi, come affrontiamo queste realtà delle nostre famiglie?

Sono preoccupato!

Da alcuni anni ormai si può notare in diverse famiglie, particolarmente nei paesi occidentali, come si stiano perdendo di vista ruolo e responsabilità dei genitori. Non mi faccio  illusioni che questo articolo possa risolvere i problemi di tutti sull’essere genitori e nonni, ma mi auguro che per lo meno i genitori credenti si fermino a riflettere bene cosa richieda effettivamente il ruolo di padri e madri.

Dopo il congedo di maternità molti neogenitori si trovano catapultati in nuove situazioni da dover affrontare sulle quali, forse, non hanno ragionato a sufficienza né preso decisioni insieme. Con ogni figlio, per esempio, aumentano le pressioni finanziarie, e ogni anno saranno sempre un po’ più onerose. Come preventivarle?

Cambiano anche le dinamiche di lavoro, fuori e dentro casa, che necessitano decisioni ponderate e lungimiranti. 

Chi dei due continuerà a lavorare, e chi si dedicherà principalmente alle faccende domestiche? 

E ancora: chi saranno, oltre i genitori stessi, le persone che contribuiranno alla cura del bambino, alla sua educazione e disciplina, e in quale misura?

Sono questioni che non possono essere affrontate con superficialità.

Spesso si ricorre a soluzioni che sono dettate più dall’urgenza o dai mezzi di cui si dispongono in quel preciso momento, piuttosto che dal cercare di capire quali siano i principi biblici da seguire per una famiglia cristiana che vuole onorare Dio. È utile fare un po’ di chiarezza su questo.

Ruoli ben definiti

La responsabilità di educare i figli è dei genitori, verità inconfutabile! Ma è curioso invece constatare che, in pratica, questo compito ricada spesso principalmente sulla mamma.

È vero che in numerosi versetti Dio illustra la sua cura per le sue creature servendosi dell’immagine familiare di una mamma che si prende cura dei suoi figli.

Nei Proverbi c’è la descrizione della donna virtuosa secondo Dio. Dice che “I suoi figli si alzano e la proclamano beata, e suo marito la loda, dicendo: «Molte donne si sono comportate da virtuose, ma tu le superi tutte!»” (Proverbi 31:28,29).

Nello stesso capitolo, al versetto 26 è scritto che lei “apre la bocca con saggezza, e ha sulla lingua insegnamenti di bontà.”

Passi come questi fanno capire quanto sia fondamentale la cura e l’educazione che il bambino riceve dalla mamma, da quando nasce al raggiungimento della maggiore età. Per questo motivo la Bibbia avverte anche che “La verga e la riprensione danno saggezza; ma il ragazzo lasciato a se stesso, fa vergogna a sua madre” (Proverbi 29:15).

Il concetto è chiaro: il comportamento di un figlio è il risultato della cura e dell’attenzione che ha ricevuto dalla mamma.

D’altra parte, anche i padri hanno ricevuto da Dio istruzioni ben precise su come comportarsi con i figli: “Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città” (Deuteronomio 6:5-9).

Papà e mamma hanno quindi il grande dovere davanti a Dio di educare i propri figli non solo trasmettendo loro il giusto comportamento nei vari contesti sociali, ma nutrendoli dei sani valori spirituali eterni (in Proverbi 3:1-26 ce ne sono in abbondanza; sarebbero da approfondire uno a uno). 

Ogni credente serve Dio ed è responsabile delle proprie azioni direttamente davanti a Lui. “Noi tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male” (2 Corinzi 5:10). Sarebbe sciocco pensare che a causa delle circostanze del mondo di oggi o della mentalità moderna queste esplicite responsabilità siano cambiate o diventate antiquate agli occhi di Dio.

Chi cura i figli oggi?

Ogni giorno cerco di fare un po’ di esercizio fisico e ho preso l’abitudine di fare una bella camminata nel mio quartiere. Così mi capita di incrociare tanti nonni che portano i nipotini a spasso in carrozzina o accompagnano i più grandi a giocare al parco. Sono nonno anch’io, e so bene il piacere che si ha nello stare con questi piccoli.

Ma poi mi capita di parlare con genitori frustrati che si lamentano che i nonni sono troppo indulgenti e permissivi con i nipoti. 

E d’altra parte, parlando coi nonni li vedo sopraffatti dalla crescente responsabilità che i figli gli delegano di crescere i nipotini.

Torneremo a parlare dei nonni più avanti, ma per ora dico solo che non sono loro ad aver messo al mondo questi bambini; il loro dovere ormai, nel bene o nel male, l’hanno già fatto coi propri figli. Perché mai dovrebbero subire adesso questa pressione di allevare anche i nipoti?

Certo, esistono casi in cui i nonni devono sopperire alla mancanza dei genitori, ma sono eccezioni. O meglio dovrebbero esserlo. Mi sembra di notare invece che sempre più genitori si aspettano un maggiore impegno dai nonni, come se fosse un loro dovere indiscusso.

Allora ripeto: finito il tempo del congedo di maternità, questi bambini chi li curerà?

Oggi come oggi, molti bambini fin dalla più tenera età vanno al nido. Passano diverse ore nelle mani di persone esperte ma estranee che li accudiscono. Spesso tocca ai nonni accompagnarceli, facendo la spola tra casa, asilo, scuola e le varie attività per l’infanzia, fino alla sera quando i genitori rientrano a casa.

Ovviamente, dopo tante ore fuori casa, i bambini sono stanchi e i genitori esausti da una giornata stressante al lavoro. E allora una cena veloce insieme e poi via, tutti a letto!

Se questa è una tua normalità, quello su cui bisogna riflettere oggi è capire chi ha passato i momenti più formativi con i tuoi figli: tu o altre persone? Chi ha avuto un impatto spirituale efficace fino a oggi nella vita di tuoi bambini?

Sarebbe utile che i genitori si sedessero per affrontare seriamente questo problema, e per cercare di capire insieme cosa si aspetti Dio da loro.

Una prima reazione quando si discutono situazioni del genere è che economicamente la famiglia non può andare avanti senza che tutti e due i genitori lavorino. È possibile che sia vero. Ma allora, a maggior ragione bisogna valutare attentamente il quadro generale della famiglia. 

Quanto sono attinenti e importanti allora le parole dell’Apostolo Paolo: “E prego che il vostro amore abbondi sempre più in conoscenza e in ogni discernimento, perché possiate apprezzare le cose migliori, affinché siate limpidi e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di frutti di giustizia che si hanno per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” (Filippesi 1:9-11).

La parte che voglio far notare in questa frase è “apprezzare le cose migliori”. Non solo attribuire il giusto valore a ogni cosa, ma saper discernere, valutando con attenzione, quello che è eccellente. Se leggi bene la frase, tutto nasce dall’amore che deve imparare sempre più a saper discernere. La scelta è dettata dall’amore che si basa sulla conoscenza.

È chiaro che l’amore in questione è quello per Dio, e di riflesso per i nostri coniugi, figli e il resto della famiglia.

La conoscenza, invece, si riferisce alla Parola di Dio. È la Bibbia quella che deve guidarci nella gestione delle nostre responsabilità. Conoscere le Scritture ci aiuta a definire una giusta, precisa scala di priorità da seguire senza dover improvvisare ogni volta, e sperare di aver fatto bene.

Calcoli scrupolosi

Le finanze della famiglia ovviamente fanno parte della scala di priorità che ciascuna coppia deve stabilire e seguire. Sorgono spesso situazioni che richiedono una rivalutazione di entrate e uscite. A volte una risposta sbrigativa sembra farci comodo, ma davanti all’importanza della cura dei figli non possiamo permetterci di essere superficiali. Ogni coppia deve valutare bene se sia proprio necessario che tutti e due lavorino.

Prima di rassegnarci alla situazione familiare attuale dobbiamo domandarci se quello per cui ci servono maggiori entrate sia davvero necessario.

È una priorità giusta far praticare ai bambini uno sport che richieda un impegno economico oneroso? Avere una seconda casa è strettamente necessario? Quali sono quelle spese che facciamo non per una vera necessità e di cui potremmo fare a meno? E dirò di più: è saggio spendere cifre esorbitanti per vacanze “da urlo” se esistono alternative più economiche ma altrettanto divertenti? 

Spetta a ogni coppia completare la lista di domande da porsi e trovare insieme soluzioni di buon senso, dettate dall’amore, che rispecchino la propria situazione.

Ma, a parte l’aspetto economico che certamente inciderà sulle decisioni, mai sottovalutare l’importanza che siano i genitori i primi a dover esercitare influenza sui figli per la loro crescita. Questa consapevolezza deve spingerci a valutare ogni decisione che li riguarda. 

Bisogna chiedersi anche se la moglie non si senta più realizzata con un lavoro fuori casa, piuttosto che l’essere una mamma a tempo pieno. La società e la cultura moderna hanno contribuito molto al pensiero che una donna, per avere valore, è necessario che sia apprezzata nel mondo del lavoro. Una carriera importante è la soddisfazione che manca a tante mogli e madri.

Non è sbagliato che una donna desideri essere riconosciuta e apprezzata per quello che fa o che cerchi un impiego fuori casa. Anzi, tutti i mariti in generale rischiano di svalutare il lavoro delle mogli con il loro atteggiamento poco riconoscente e le critiche facili. Ma la necessità che ambedue i genitori lavorino deve essere valutata insieme dalla coppia.

FACCIAMO A CAMBIO?

Alcuni oggi obiettano al ruolo classico della mamma e promuovono un capovolgimento, l’inversione nelle mansioni della mamma e del papà. Trovano molti sostenitori alle loro idee tra le famiglie non tradizionali.

A prima vista potrebbe anche sembrare una proposta legittima. Ma bisogna tenere conto di quello che Dio, l’inventore e l’istitutore della coppia e della famiglia, dice sul ruolo della mamma e del papà. Ecco le sue parole al primo uomo e alla prima donna, subito dopo che questi si erano ribellati al suo comando peccando:

“Alla donna disse: «Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli; i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te». Ad Adamo disse: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall’albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e rovi, e tu mangerai l’erba dei campi; mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai»” (Genesi 3:16-19).

Il testo esprime in modo chiaro i ruoli distinti dell’uomo e della donna, ma emerge anche il fatto che svolgerli sarebbe stato faticoso, e a volte spiacevole. L’essere mamma avrebbe portato dolore alla donna, e all’uomo il lavoro avrebbe procurato difficoltà. In più, il rapporto tra moglie e marito avrebbe prodotto attrito e astio. Ogni coppia al mondo, credente e non, può attestare per esperienza che è così.

Ricchezza da preservare

Essere genitori è una delle gioie più complete e ricche nella vita. I figli infatti sono una benedizione e un dono personale di Dio (Salmo 127:3-5). Un aspetto della benedizione, a cui non si pensa spesso, è proprio il dover affrontare tante nuove difficoltà e responsabilità. Nella visione di Dio la maternità e la paternità devono spingere a essere meno egoisti, a crescere nella dipendenza reciproca, a ricercare quello che veramente vale nella vita per poterlo trasmettere ai figli, a essere il riflesso dell’amore di Dio verso i suoi.

Per fare tutto ciò l’uomo e la donna devono riconoscere il loro bisogno di Dio e la necessità di dipendere da Lui. La coppia deve capire come adempiere alle responsabilità di ognuno in un modo che piaccia al Signore. Avere “frutti di giustizia alla gloria di Dio” comincia proprio in famiglia. La cura del proprio nucleo familiare è il punto di partenza per portare gloria a Dio.

Mamme e papà, prima di parcheggiare i vostri bambini dai nonni, a scuola o dai babysitter chiedetevi sinceramente cosa voglia Dio da voi!

Una parola ai nonni

Con tutto il bene che volete ai vostri nipotini, ricordatevi che non siete voi i loro genitori. Allevare i nipoti non è un compito stabilito da Dio per voi! Non permettete quindi che i vostri figli, o chiunque altro, vi facciano sentire in colpa perché non fate i sostituti genitori.

La vostra prima responsabilità è l’uno verso l’altra come coppia, del marito verso la moglie, del nonno verso la nonna. 

Ho visto nonni litigare tra loro e trascurare il loro rapporto a causa delle richieste esagerate dei figli di assumersi la cura dei nipoti. Cari nonni, anche voi avete una scala di priorità che non bisogna perdere di vista.

Questo non toglie nulla al vostro piacere di aiutare con i bambini, di stargli vicino, di coccolarli. 

È solo un anno che quattro nostri nipotini vivono in Italia, ed è una gioia immensa vederli crescere. Il più piccolo di loro ha quattro anni, il più grande ne ha undici. 

Ogni volta che ci vediamo si mettono subito in fila con lo sguardo speranzoso e ci chiedono cosa gli abbiamo portato. Cerco di essere sempre preparato con qualcosa da dargli pronta in tasca: una caramella, un cioccolatino, un pensierino. 

Mi piace viziarli con questi piccoli gesti, ma gli ricordo ogni volta che devono chiedere ai genitori il permesso di mangiare quello che gli ho portato, e che devono essere sempre grati. 

Può sembrare una piccolezza, ma anche questo fa parte dell’educazione.

Noi nonni, non essendo i loro genitori, non possiamo assecondare tutte le richieste dei nostri figli adulti riguardo ai loro bambini, perché oltre a essere sbagliato, rischiamo di diventare loro complici nel mancare alle loro responsabilità.

D’altra parte, non posso fare a meno di ricordare le circostanze di Timoteo di cui parla l’Apostolo Paolo: “Ricordo infatti la fede sincera che è in te, la quale abitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice, e, sono convinto, abita pure in te” (2 Timoteo 1:5).

La nonna di Timoteo aveva avuto un grande effetto sulla sua vita attraverso l’educazione della figlia prima e del nipote poi. Probabilmente il padre di Timoteo non era credente, ma quella nonna aveva portato la luce di Dio nella vita di quel giovane, che poi ha servito con fedeltà accanto a Paolo.

Questo dimostra che come nonni possiamo esercitare un’influenza, anche decisiva, per il vangelo nella vita dei nostri nipoti, anche se i nostri figli non sono credenti. Dobbiamo pregare che Dio usi il nostro ascendente per la sua gloria.

Dio vuole servirsi di noi, del nostro bagaglio di vita e di conoscenza della sua Parola, per aiutare i più giovani a orientarsi verso tutto ciò che onora il Signore. Paolo ne parla scrivendo a Tito: “I vecchi siano sobri, dignitosi, assennati, sani nella fede, nell’amore, nella pazienza; anche le donne anziane abbiano un comportamento conforme a santità, non siano maldicenti né dedite a molto vino, siano maestre nel bene, per incoraggiare le giovani ad amare i mariti, ad amare i figli, a essere sagge, caste, diligenti nei lavori domestici, buone, sottomesse ai loro mariti, perché la parola di Dio non sia disprezzata” (Tito 2:2-5).

Nell’ambito di una chiesa locale è possibile fare da nonni anche ai bambini che non sono nostri nipoti. Quando ero piccolo, nell’assemblea che frequentavo con la mia famiglia, c’era una signora anziana che aveva sempre una caramella Rossana per noi bambini. Nel suo piccolo era un tassello in più di cui Dio si è servito per farmi amare la chiesa anche da piccolino.

Allora, siate creativi, pregate per i vostri nipotini, chiedete al Signore che via dia l’opportunità di essere nonni che lasceranno un’impronta spirituale nella loro vita. Ci vorrà tempo, sforzo e amore, tutti aspetti che Dio vuole darci e sviluppare sempre più in noi.

E se vi capita di ricevere anche voi una telefonata speciale, come quelle sette che ho ricevuto dai miei figli, lasciate che la gioia e la sorpresa vi spingano a riflettere sulle vostre nuove responsabilità. Genitori, prendete seriamente il vostro compito di… genitori. E voi nonni, fate bene i nonni, seguendo l’esempio della nonna Loide.

– D.S.


A casa nostra

A casa nostra, quando i figli crescevano, avevamo appesa in cucina una lista dei vari compiti assegnati a ognuno. Chi doveva lavare i piatti, sparecchiare o portare a spasso il cane vedeva il suo nome in una certa colonna e sapeva quello che doveva fare. 

Mio marito era il grande coordinatore e con pazienza valutava la durata dei lavori, teneva conto di attività scolastiche e sportive e cercava di giostrare impegni, diritti e doveri per accontentare tutti. Io una pazienza simile non credo che l'avrei mai avuta. 

Ai ragazzi piace sapere quali siano le loro responsabilità e i limiti in cui devono funzionare. Si sentono sicuri e sanno esattamente che cosa ci si aspetta da loro. E più si sbrigano e più contenti sono. Senza darsi altri pensieri. 

Per i genitori le cose sono diverse. Il tempo che si passa coi figli non può essere codificato e regolato come un appuntamento dal dentista. Tipo: “Oggi, dalle tre alle tre e trenta, ti ascolto. Alle tre e trentuno mi faccio i fatti miei.” 

Ed è importante che sia così, perché le occasioni di ascoltare e di parlare si presentano quando meno te le aspetti. Un ginocchio sbucciato da medicare, un momento di scoraggiamento per un compito che non riesce, un passerotto trovato con l’ala rotta da curare, non sono momenti che si possono pianificare. Succedono. E sono momenti importanti, di grande valore, per costruire amicizia, fiducia, affetto. 

Io ammiro molto le mie nuore e mia figlia. Sembrano trovare per i loro figli sempre più tempo di quello che trovavo io. Leggono loro dei libri, fanno passeggiate, li ascoltano, portano avanti dei piccoli progetti. E, soprattutto, non sembrano avere mai troppa fretta. 

Come fanno? Probabilmente si fanno delle liste di lavori meno lunghe di quelle che mi facevo io, e si rendono conto che i figli oggi li abbiamo con noi e che, molto presto, ci lasceranno. 

La fretta di una vita troppo piena produce stanchezza e la stanchezza produce irritabilità e indifferenza. Una indifferenza e una irritabilità che il bambino può interpretare come una mancanza di amore e di interesse. E che, soprattutto, riempiono le mamme di sensi di colpa. 

Che fare, allora? Rallentare e mettersi un freno. E non rinunciare a quei momenti di calore, in cui i figli si aprono e mostrano di avere bisogno di noi, considerandoli poco importanti. 

E se si aprono la sera tardi, quando moriamo di sonno? Lasciamoli aprire. Dormiremo quando non avranno più bisogno di noi.

Maria Teresa Standridge, La VOCE, ristampa del gennaio 1997 

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La VOCE LUGLIO 2021

Lei con le braccia aperte come ali al vento, e lui da dietro la tiene stretta a sé sulla prua della nave…

È la scena icona di quello che è considerato uno dei più grandi film d’amore.

Chissà quante lacrime ha versato il pubblico per Jack e Rose, interpretati da Leonardo DiCaprio e Kate Winslet che, all’apice struggente della storia, vanno incontro a morte certa, mentre il Titanic affonda, sicuri dell’amore l’uno dell’altra. Che grande passione!

Chi non vorrebbe vivere una storia d’amore così intensa? 

Ma, senza voler giudicare nessuno, nella vita reale questi attori non sembrano aver avuto tanta “fortuna” in amore. 

DiCaprio, aveva solo un anno quando i suoi genitori si sono separati, e nella sua vita sentimentale non ha mai vissuto il matrimonio, passando da una relazione a un’altra apparentemente senza trovare il vero amore.

Forse la passione è colata a picco quando la sua compagna, l’attrice Aretha Wilson, l’ha ferito gravemente al volto rompendogli una bottiglia in testa durante una festa.

Auguriamo tutto il bene possibile a Leo, ma guardando la vita di tanti come lui mi chiedo: ma l’amore vero esiste? Lo saprò riconoscere ed esserne appagato quando lo incontrerò? 

Oppure già oggi fa parte della mia vita e non me ne sono mai accorto?

Ideali carenti e irreali

Non voglio sembrare cinico, ma solo pochi potranno dire di aver trovato il cosiddetto amore con la A maiuscola. Tutti lo cercano, ma è inafferrabile come la fine dell’arcobaleno dopo la pioggia: più ti ci avvicini, più si allontana. 

È terribile doverlo ammettere, ma è tipico della natura umana: siamo incapaci di amare un altro così come vorremmo essere amati noi, e cioè incondizionatamente. Ma questo, ovviamente, non significa che l’amore perfetto non esista. 

Anzi, al contrario dell’amore “arcobaleno”, questo è alla portata di tutti, è pienamente soddisfacente e trasforma chi lo possiede. 

Per comprendere cos’è e come arrivarci, è necessario cambiare il nostro punto di vista. Vediamo prima lo standard per eccellenza che Dio ha stabilito per l’uomo e la donna.

Nel capitolo 31 dei Proverbi, la madre del re Lemuel descrive a suo figlio la donna che lui dovrebbe sposare (Proverbi 31:10-31). Gli fa, insomma, il ritratto della moglie e mamma ideale che tutti vorrebbero avere: una donna di fede, che ha priorità ben chiare, operosa, attiva, forte e sana. 

Ma questa donna di Proverbi 31 non esiste, perché è ovvio che nessuno riesce a essere perfetto tutto il tempo. In quei versetti, però, Dio fa capire com’è in pratica l’amore perfetto a cui bisogna aspirare. È fatto di gesti, è ragionato e pieno di affetto. 

L’apostolo Paolo nelle sue lettere comanda ai mariti, da parte del Signore, di amare le mogli dando molti consigli pratici su come farlo (Efesini 5:25-33; Colossesi 3:1-17,19; 1 Pietro 3:7). 

Paolo ha anche scritto un capitolo molto conosciuto, 1 Corinzi 13, indirizzato a tutti, a prescindere dallo stato civile, età o sesso, in cui spiega che cos’è l’amore secondo Dio. 

Sono parole semplici ma potenti, amate, lette e recitate da tutte le generazioni, copiate da tanti poeti e musicate da molti artisti. 

Sicuramente l’amore descritto in questi passi è ciò che tutti desiderano, ma che nessuno è veramente capace di attuare. Eccetto Dio.

L’amore di Dio è più forte di qualunque affetto umano. Lui lo esprime teneramente dicendo: “Una donna può forse dimenticare il bimbo che allatta, smettere di avere pietà del frutto delle sue viscere? Anche se le madri dimenticassero, non io dimenticherò te” (Isaia 49:15).

Il nostro problema però è la difficoltà a capire e godere l’amore di Dio, perché è completamente diverso dalle nostre esperienze di amore umano. 

Detto molto seccamente, per noi l’amore è un semplice soddisfare i nostri desideri: il piacere fisico di un rapporto intimo, ma anche i nostri bisogni emotivi, il desiderio di avere valore agli occhi di qualcuno, e il non sentirci soli. Per questo spesso trattiamo l’amore come una merce di scambio, amiamo per essere amati, ci aspettiamo di essere ricambiati.

La carta nautica di Paolo

Abbiamo visto qual è lo standard di Dio per l’amore tra le persone (per mancanza di spazio ho solo citato i riferimenti dei passi biblici, ma mi raccomando, leggili tutti!). E abbiamo visto che il nostro concetto d’amore umano è superficiale e irrealizzabile. 

A questo punto la preghiera dell’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini, ci aiuta a capire come realizzare il vero amore nella nostra vita. 

Ecco le parole della sua preghiera.

Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome, affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. —Efesini 3:14-19

All’inizio di questa lettera Paolo aveva spiegato che l’amore di Dio era in atto già prima della fondazione del mondo, quando Lui pianificò, in ogni dettaglio, la salvezza che avrebbe offerto ai peccatori. 

Questa salvezza è stata quindi attuata da Gesù che, con la sua morte in croce, ha provveduto il perdono dei peccati di chi crede in lui, e lo Spirito Santo sigilla la certezza della vita eterna per il credente.

Poi Paolo aveva sottolineato che tutti gli esseri umani, sia Ebrei che non, hanno bisogno di questa salvezza. 

È una salvezza che cambia totalmente la condizione di chi la riceve: da schiavi di Satana, dominati dai nostri desideri e dalle persone intorno a noi, diventiamo per fede servi di Cristo, e entriamo a far parte del popolo e della famiglia di Dio, nella quale come mattoni viventi formiamo con gli altri credenti il tempio spirituale di Dio.

Era un concetto nuovo e sconvolgente per gli Ebrei, che pensavano di essere gli unici ad avere un rapporto con Dio, semplicemente perché erano di razza e di religione ebraica. Ora scoprivano che anche loro, proprio come il resto dell’umanità, potevano essere salvati e conoscere Dio solamente attraverso Cristo, l’unico mediatore tra gli uomini e Dio. 

Un solo Dio, un solo mediatore, un solo popolo. Questo era il piano nascosto per secoli che il Signore aveva rivelato a Paolo, e che aveva attuato in Cristo. E che è vero anche oggi.

Il mio bancomat è guasto

Nella preghiera citata sopra, Paolo chiede che Dio intervenga nella vita di questi credenti, ebrei e non ebrei, perché possano abbracciare e conoscere l’amore di Cristo. Come loro, anche noi per conoscere questo amore abbiamo bisogno di essere radicati e fondati sull’amore di Cristo. 

Potrebbe sembrare un controsenso che i credenti debbano ancora imparare a capire l’amore di Dio, ma non lo è. 

La comprensione di questo amore è fondamentale, perché cambia il modo di ragionare e di agire, e dà l’energia per comportarsi come Dio si aspetta da loro.

Tanti credenti fanno una professione sincera di fede, ma poi, non crescendo nella comprensione dell’amore di Cristo, continuano a zoppicare di delusione in delusione, di difficoltà in difficoltà, confusi, infelici e amareggiati.

Valutano l’operato di Dio alla luce del loro concetto di amore umano, e perplessi e frustrati non capiscono dove hanno sbagliato.

Per molti l’idea che hanno di Dio è simile a un bancomat: infilano la loro carta spirituale e digitano le loro richieste di salute, di soldi, di un lavoro, di una soluzione indolore e istantanea ai loro problemi matrimoniali e familiari: “Signore, non sono felice, ho bisogno che tu mi trovi un marito o una moglie… che cambi quello che ho… o che mi dia una chiesa migliore…”

In ginocchio davanti al nostro muto bancomat, convinti di aver fatto depositi sufficienti di lettura della Bibbia, di presenze al culto regolari, di preghiere, di servizio e di sacrifici, aspettiamo di ricevere quello che riteniamo necessario per renderci felici e sentirci amati.

Ma non succede niente. 

Non possiamo far altro che rientrare in noi stessi e renderci conto che il problema non è in Dio, ma in noi.

La preghiera di Paolo in Efesini 3 ci aiuta a riassestare la nostra bussola spirituale. Ed è questa che dovrebbe guidare tutte le nostre preghiere. In essa non si parla di sentimenti, ma di dati di fatto.

Hai notato, per esempio, che Paolo prega che per mezzo della fede “Cristo abiti nei nostri cuori”?

Spesso si insegna ai bambini a chiedere a Gesù di entrare nei loro cuori. Beh, questo è l’unico passo nella Bibbia che ne parla, ed è nel contesto di una preghiera per i credenti. Cosa vuol dire allora?

La bussola scaccia iceberg

Chiedere a Gesù di venire ad abitare nel mio cuore è chiaramente una preghiera biblica, ma se lo faccio, cosa sto chiedendo a Dio?

Il testo dice che la fede è il mezzo con cui Gesù viene ad abitare nei cuori. Definiamo allora questa fede.

Nel primo capitolo Paolo dice che aveva sentito parlare della fede dei credenti di Efeso. Sottintende che la loro non era una fede soggettiva, mentale, astratta come di chi professa una religione, ma non conosce Dio. Era evidente a tutti che credevano in Dio e in Cristo, perché la loro vita lo testimoniava. Chi li osservava poteva vedere dal loro comportamento che erano seguaci di Cristo.

Poi, nel capitolo due Paolo spiega cosa c’entri questa fede con la loro salvezza. Dice: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8,9). La fede è un dono di Dio. 

Il cammino del credente non comincia per opere pie o meritorie, ma attraverso la comprensione del sacrificio di Cristo e della necessità di credere unicamente in lui per essere salvati dai peccati e dalla perdizione eterna, senza nessun tipo di meriti né opere.

Questo spiega come Gesù viene a dimorare nel cuore del credente.

Nel versetto 3:17 il testo dice che la fede in Cristo presuppone l’essere radicati e fondati sull’amore di Cristo.

La salvezza biblica è la più grande espressione dell’amore di Dio nei confronti dell’uomo. Infatti Paolo scrive: “Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo (è per grazia che siete stati salvati), e ci ha risuscitati con lui e con lui ci ha fatti sedere nel cielo in Cristo Gesù, per mostrare nei tempi futuri l’immensa ricchezza della sua grazia, mediante la bontà che egli ha avuta per noi in Cristo Gesù” (Efesini 2:4-7).

La decisione di Dio di provvedere la salvezza per il peccatore, e di mandare il suo unigenito Figlio a morire per peccati che non aveva commesso, è il più grande gesto d’amore al mondo.

L’espressione “quando eravamo morti nei peccati” deve farci riflettere. Sottolinea due verità importanti, che amplificano la grandezza dell’amore di Dio.

La prima cosa è il fatto che eravamo morti, incapaci di fare cose buone, già giustamente condannati, e con il nostro destino già stabilito. 

La seconda parola, “peccati”, mette in evidenza la nostra colpa, la nostra condizione di nemici di Dio: vivevamo da ribelli, da oltraggiatori della sua santità.

Potevamo anche sentirci moralmente migliori di altri, ma agli occhi di Dio non c’era nulla di attraente in noi. La realtà è che eravamo totalmente colpevoli e indegni di qualsiasi grazia o perdono.

Se non siamo convinti di questi due concetti, è improbabile che siamo davvero radicati e fondati sull’amore di Cristo, perché non ne vediamo il senso. E se non lo siamo, non possiamo neanche crescere nella fede né resistere a lungo, perché è implicito che essere radicati e fondati serve per darci nutrimento e stabilità.

In Luca 7 c’è la storia di una peccatrice che lavò i piedi a Gesù con le lacrime, e li unse di profumo. Questo accadde nella casa di un fariseo che rimase scandalizzato dal gesto della donna e dall’atteggiamento condiscendente di Gesù. Il problema è che, mentre la donna era perfettamente consapevole del suo peccato, il fariseo si credeva molto migliore di lei. 

Il commento di Gesù è significativo: coloro che si rendono conto di essere stati perdonati tanto, ameranno Dio di più.

Le nostre radici sono forti e grandi nella misura in cui comprendiamo l’amore di Dio, e le nostre fondamenta saranno solide nella misura in cui siamo consapevoli della grandezza dell’amore di Cristo.

L’ago della bussola per la nostra vita di preghiera deve puntare al fatto che Dio ci possa rendere sempre più consapevoli della portata e del costo del suo amore per noi.

Un abbraccio non facile

Paolo, pregando che gli Efesini fossero resi capaci di abbracciare questo amore di cui abbiamo parlato, sottintende che non è naturale per l’uomo riuscirci. 

E se è vero che solo Dio può darci questa capacità, allora riceverla deve diventare il nostro obiettivo, e questa preghiera deve trasformarsi in una nostra costante richiesta a Lui.

Paolo descrive la vastità di questo amore con quattro parole: larghezza, lunghezza, altezza e profondità.

Un commentatore ha scritto che la larghezza simboleggia che l’amore di Dio abbraccia tutte le persone, senza limiti; la lunghezza allude alla sua durata eterna; l’altezza alla sua perfezione, in quanto proviene da Dio; e la profondità esprime la prontezza di Dio a scendere fino alle parti più basse della terra (Efesini 4:9) per amare gli uomini, anche i più depravati.

Quello di Dio è un amore pratico. Non è accademico, inefficace, capriccioso, transitorio o emotivo. L’amore di Dio è reale!

Scrivendo ai credenti di Roma, sulle grandi difficoltà che come figli di Dio possiamo aspettarci in questa vita, Paolo aggiunge: “Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati. Infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8:37-39).

Il nostro problema non è capire se siamo o quanto siamo amati, ma diventare sempre più consapevoli dell’amore costante e perfetto di Dio, da cui non possiamo essere separati, e dal quale riceviamo forza e sicurezza.

Se non ci sentiamo amati o se la nostra vita non rispecchia l’amore perfetto di Dio verso gli altri, faremmo bene a pregare con fedeltà e insistenza per questo.

È sottinteso che la preghiera debba essere accompagnata da una lettura altrettanto fedele alla Bibbia. Fissiamoci l’obiettivo di ascoltare regolarmente un insegnamento fedele alle Scritture, accurato nella dottrina e pratico nelle applicazioni. 

Dio infatti opera attraverso l’insegnamento. Quando studiamo o ascoltiamo la sua Parola bisogna prestare attenzione a quello che viene detto, bisogna farlo penetrare in noi, dobbiamo assimilarlo e lasciare che ci trasformi mente e cuore.

Se questo non succede saremo come l’uomo smemorato in Giacomo, che si illude di camminare con Dio (Giacomo 1:22-25).

Un amore sconosciuto agli uomini

Verso la fine della sua preghiera Paolo scrive che il nostro obiettivo  è  “conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza.” Non è quindi un amore umano. Non può essere immaginato dagli uomini né essere conosciuto senza l’intervento di Dio.

Come conosceremo allora questo amore che va oltre la conoscenza? Sembra un altro controsenso. 

È interessante che la parola “conoscere” nel testo originale in greco significa conoscere per esperienza.

Ricordiamo di nuovo che questa è una preghiera! Dio deve trasformare le nostre vite attraverso la comprensione di questo amore, in modo che anche noi possiamo amare, con la conseguenza che chi ci sta intorno possa sperimentare anche lui questo amore.

Il credente radicato e fondato nell’amore di Dio, via via che cresce nella comprensione dell’amore biblico, diventerà sempre più consapevole dell’amore di Dio nella sua vita, e di riflesso amerà gli altri come nessun non cristiano potrà mai fare.

Gesù ha detto: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

L’amore che contraddistingue i credenti è insolito, e suscita curiosità nelle persone che li osservano se notano l’atteggiamento dell’amore umile, disinteressato e senza condizioni tra loro.

Le nostre chiese dovrebbero essere oasi dove i credenti, senza timore di essere criticati o emarginati, possano sperimentare, donare e crescere nell’amore di Dio, e ognuno possa affermare: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (1 Giovanni 3:16).

“Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi” (1 Giovanni 4:12).  Se Dio ha mostrato il suo amore nell’offrire la salvezza, allora è sottinteso che noi amiamo se portiamo il messaggio della salvezza agli altri.

Mai più il Titanic 

Molti hanno pianto davanti alle scene sulla tragica fine dell’amore tra Jack e Rose, che affondava col transatlantico più famoso al mondo. 

Purtroppo, anche nella realtà, la vita di molti affonda rovinosamente a causa di una ricerca dell’amore nella direzione sbagliata.

È triste dirlo, ma lo stesso vale per molti credenti e molte chiese che non sono radicate e fondate sull’amore di Cristo. 

L’amore vero esiste, ed è eterno. Dio lo ha mostrato.

Non dobbiamo mai dubitare che Dio ci ami, ma dovremmo piuttosto preoccuparci di essere sempre consapevoli del suo amore, conoscerlo di più per esperienza e abbracciarlo con tutti i credenti. 

Dio ci ha dato la bussola, usiamola per aggiustare la rotta!

– D.S.

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La VOCE GIUGNO 2021

Qualche settimana fa ho sentito un predicatore evangelico chiamare il papa “fratello Bergoglio”. Tutto il suo discorso mirava a sostenere che esistono problemi ben più importanti di cui preoccuparsi, piuttosto che le mere differenze dottrinali tra evangelici e altri “cristiani”.

Non è il solo a pensarla così. Fare distinzioni troppo rigide tra una religione e l’altra, e tra i modi di professare la propria fede, è cosa malvista. Potrebbe urtare la sensibilità di chi crede in qualcosa di diverso. Dopotutto, non è l’amore verso il prossimo il fulcro del messaggio cristiano?

Questo buonismo, però, produce falsa unità e aspettative sbagliate, ed è in chiaro contrasto con la Parola di Dio che, invece, spesso esorta il credente e la chiesa a stare in guardia contro l’errore.

Dai tempi della Riforma protestante, fino a metà del 1900, le differenze fra i Cattolici e i Protestanti erano evidenti. Oggi sono diventate sempre meno marcate. La tendenza di molte denominazioni “cristiane”, comprese quelle evangeliche, è quella di restare aperti sulle questioni dottrinali. 

Allora è logico domandarsi: Esistono ancora differenze tra i veri credenti evangelici e i Cattolici? La risposta è: Assolutamente sì. Parliamone.

Parliamoci... in chiaro

Per i credenti biblici, conoscere le differenze tra la dottrina della Chiesa cattolica romana e le Scritture, e saperle spiegare, non è solo necessario ma è anche un atto di fedeltà a Dio, e un gesto di vero amore verso coloro che voglio conoscere la verità.

Quando si parla di contrasti di dottrina, si vuole evitare di cadere in polemiche e discussioni inutili. 

Dovremmo essere motivati, piuttosto, dalla consapevolezza che quello in cui si crede ha conseguenze reali sul proprio destino eterno.

Non è ovviamente possibile analizzare tutte le differenze in questo articolo. Perciò ne ho scelte alcune fondamentali, quelle più utili a chiarire le idee, per non creare ulteriore confusione.

1. Chi ha l’autorità massima riguardo alla fede? — Sola Scrittura

La prima questione da affrontare è su che cosa si basa la fede che un credente professa. Qual è il fondamento del credo? 

Per la Chiesa cattolica romana, il credo è esposto nel Catechismo della Chiesa. Lo citerò, confrontandolo con le Sacre Scritture, le quali invece costituiscono le fondamenta della fede evangelica biblica.

Ecco quello che sostiene la Chiesa cattolica romana: 

“L’unica Chiesa di Cristo [è quella] che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida [...]. Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste [“subsistit in”] nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui”. (816)

“È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 10]. (95)

La Chiesa cattolica dichiara quindi che è essa stessa l’autorità suprema in materia di fede, e che il suo credo è basato in ugual misura sulla tradizione della chiesa, sulla Bibbia e sull’autorità del Papa e dei Vescovi in comunione con lui.

Per il credente evangelico, invece, l’unica autorità è la Parola di Dio, la Sacra Bibbia. Essa è la rivelazione di Dio a cui si riferivano i credenti dell’Antico patto (Isaia 8:20; Giovanni 5:39,40), Cristo stesso (Matteo 4:17-20), gli Apostoli (2 Pietro 1:19-21), i primi cristiani (Atti 17:11) e tutti i veri credenti biblici di tutti i tempi (Colossesi 3:16).

Tutto quello di cui un credente ha bisogno si trova nelle pagine della Parola di Dio. “Sola Scrittura” infatti è il primo dei cinque pilastri che riassumono il pensiero teologico della Riforma.

I seguenti versetti mettono in risalto la supremazia della Bibbia rispetto a qualunque altra “autorità”.

“La legge del Signore è perfetta, essa ristora l’anima; la testimonianza del Signore è veritiera, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono giusti, rallegrano il cuore; il comandamento del Signore è limpido, illumina gli occhi. Il timore del Signore è puro, sussiste per sempre; i giudizi del Signore sono verità, tutti quanti sono giusti, sono più desiderabili dell’oro, anzi, più di molto oro finissimo; sono più dolci del miele, anzi, di quello che stilla dai favi. Anche il tuo servo è da essi ammaestrato; v’è gran ricompensa a osservarli (Salmo 19:7-11).

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Timoteo 3:16,17).

È interessante notare che il catechismo presenta la fede cattolica come uno sgabello a tre gambe, che non può reggersi con la sola Bibbia. Quindi la Bibbia non sarebbe “perfetta” e sufficiente da sola, che è il contrario di quello che Dio afferma. 

Paolo infatti, nel versetto appena citato, dice che sono gli insegnamenti delle Scritture che rendono completo l’uomo di Dio.

Una delle tre gambe dello sgabello sarebbero proprio le cosiddette sacre tradizioni. Tradizioni religiose esistevano già ai tempi dell’Antico testamento. Dio le ha sempre odiate. Non hanno fatto altro che cercare di inquinare la pura verità biblica. 

Gesù, citando Isaia, ha detto: “Questo popolo [si accosta a me con la bocca e] mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini (Matteo 15:8-9). 

E Paolo ha scritto: “Guardate che non vi sia alcuno che faccia di voi sua preda con la filosofia e con vanità ingannatrice secondo la tradizione degli uomini, gli elementi del mondo, e non secondo Cristo (Colossesi 2:8).

Proprio da questo errore, non attenersi cioè soltanto agli insegnamenti delle Scritture, nascono le dottrine cattoliche contrarie a quelle bibliche.

Perciò l’esclusività della Parola di Dio come autorità in materia di fede, non è affatto un dettaglio secondario, perché preclude molte dottrine cattoliche.

2. Come si diventa cristiani? — Sola fede

Per “cristiano” intendiamo un seguace di Cristo, una persona che da nemico di Dio è stato riconciliato con Lui per mezzo della fede in Cristo. Questa è l’unica accezione biblica del termine cristiano. Come lo si diventa è una domanda fondamentale, e le risposte cattoliche sono molto diverse da quello che afferma la Bibbia. 

Il Catechismo insegna che 

“...La Chiesa non conosce altro mezzo all’infuori del Battesimo per assicurare l’ingresso nella beatitudine eterna; perciò, si guarda dal trascurare la missione ricevuta dal Signore di far rinascere «dall’acqua e dallo Spirito» tutti coloro che possono essere battezzati. Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti.” (1257)

“Il Battesimo non soltanto purifica da tutti i peccati, ma fa pure del neofita una «nuova creatura»…” (1265)

La Parola di Dio invece afferma che si diventa cristiani credendo in Cristo. 

“A tutti quelli che l’hanno ricevuto egli [Cristo] ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome (Giovanni 1:12).

“Ora senza fede è impossibile piacergli, poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Ebrei 11:6).

“Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Giovanni 3:16,18).

È chiaro a tutti che un bambino appena nato non è capace di credere. Anche se battezzato, non può essere considerato cristiano fino a quando non crederà personalmente in Cristo. Infatti esiste un gran numero di cattolici battezzati che non crede affatto in Dio!

3. Come si fa a essere salvati? — Solo Cristo

Il catechismo dice: 

“… ogni salvezza viene da Cristo-Capo per mezzo della Chiesa che è il suo Corpo: Il santo Concilio… insegna, appoggiandosi sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione, che questa Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo, presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli, inculcando espressamente la necessità della fede e del Battesimo, ha insieme confermata la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano mediante il Battesimo come per la porta. Perciò non potrebbero salvarsi quegli uomini, i quali, non ignorando che la Chiesa cattolica è stata da Dio per mezzo di Gesù Cristo fondata come necessaria, non avessero tuttavia voluto entrare in essa o in essa perseverare [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 14]”. (846)

La Bibbia esclude che la Chiesa (o qualsiasi organizzazione o agente umano) sia necessaria per la salvezza. Basti pensare che la Chiesa non era ancora nata, quando il ladrone sulla croce fu salvato per la sua fede in Cristo.

Gesù ha affermato: Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura” e “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Giovanni 10:9 e 14:6).

In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12).

Gesù Cristo è chiamato il Salvatore proprio perché è l’unico che salva. Questa salvezza non può arrivare a noi in nessun altro modo.

Nonostante la Parola di Dio dica chiaramente che la salvezza viene da Dio esclusivamente per mezzo di Cristo, 

“La Chiesa afferma che per i credenti i sacramenti della Nuova Alleanza sono necessari alla salvezza [Cf Concilio di Trento: Denz. -Schönm., 1604].” (1129)

E a proposito di questi sacramenti “necessari alla salvezza” il catechismo sostiene che 

“Tutta la vita liturgica della Chiesa gravita attorno al Sacrificio eucaristico e ai sacramenti [CfConc. Ecum. Vat. II, Sacrosanctumconcilium, 6]. Nella Chiesa vi sono sette sacramenti: il Battesimo, la Confermazione o Crismazione, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Unzione degli infermi, l’Ordine, il Matrimonio [Cf Concilio di Lione II: Denz. -Schönm., 860; Concilio di Firenze: ibid., 1310; Concilio di Trento: ibid., 1601].” (1113)

Dio aveva previsto che l’idea errata di dover fare delle opere per ottenere la salvezza sarebbe serpeggiata già fra le prime chiese. Perciò ha ispirato l’apostolo Paolo a scrivere agli Efesini in modo chiaro come avviene questa salvezza: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8,9).

Lo stesso concetto è ribadito in Tito: “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna” (Tito 3:5-7).

4. L’uomo e il peccato — Sola grazia

Il catechismo sostiene che 

“È opportuno valutare i peccati in base alla loro gravità. La distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, già adombrata nella Scrittura, si è imposta nella Tradizione della Chiesa. L’esperienza degli uomini la convalida.” (1854)

Dice inoltre che 

“Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell’uomo a causa di una violazione grave della Legge di Dio; distoglie l’uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore. Il peccato veniale lascia sussistere la carità, quantunque la offenda e la ferisca.” (1855)

La Bibbia non riconosce l’esistenza di peccati meno gravi di altri. 

Anzi, perfino pensieri e atteggiamenti sbagliati, addirittura un solo sguardo fatto con concupiscenza, sono tutti condannati da Dio (Matteo 5:22,28). 

Infatti, Giacomo scrive: “Chiunque infatti osserva tutta la legge, ma la trasgredisce in un punto solo, si rende colpevole su tutti i punti. Poiché colui che ha detto: «Non commettere adulterio», ha detto anche: «Non uccidere». Quindi, se tu non commetti adulterio ma uccidi, sei trasgressore della legge” (Giacomo 2:10,11). 

E l’apostolo Paolo dice chiaro e tondo che “il salario del peccato è la morte” (Romani 6:23a).

Anche un solo peccato, per quanto possa sembrare umanamente insignificante, è un’offesa contro la santità perfetta di Dio, e produce la condanna eterna.

Quando l’apostolo Giovanni dice che “Vi è un peccato che conduce a morte” e “un peccato che non conduce a morte” (1 Giovanni 5:16,17) sta dicendo che il peccato dell’incredulità conduce immancabilmente alla morte eterna: “Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” e “Chi crede nel Figlio ha vita eterna; chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui (Giovanni 3:18,36). 

Per il non credente, quindi, la condanna è la morte eterna. 

Per un figlio di Dio che persiste nel peccare, Dio può essere indotto a castigarlo con la morte fisica, come ha fatto con Anania e Saffira e con alcuni credenti della chiesa di Corinto (leggi l’avvertimento di Paolo riguardo la cena del Signore in 1 Corinzi 11:27-30).

Avere timore di Dio è una cosa seria, è salutare, ed è comandato in tutta la Bibbia (Deuteronomio 6:13; 2 Pietro 2:17).

Mi fermo qui. Potremmo riempire libri interi per affrontare le tante altre discrepanze tra gli insegnamenti della Chiesa cattolica e le Sacre Scritture – il culto di Maria, l’immacolata concezione, la sua assunzione in cielo, i santi, la confessione e l’assoluzione, la messa, i sacerdoti ecc. – ma i quattro punti che abbiamo trattato sono sufficienti per illustrare che pur parlando delle stesse cose non è vero che siamo tutti uguali. Non siamo tutti fratelli. Le differenze tra la fede biblica e la religione Cattolica romana sono ampie e molto nette.

I pilastri della riforma sono ancora veri: Sola Scrittura, Sola Fede, Solo Cristo, Sola Grazia, Solo a Dio la Gloria (anche se non ne abbiamo parlato in dettaglio, penso di aver reso l’idea). 

Con questo articolo non voglio attaccare nessuno, ma voglio solo mettere in chiaro che non tutti crediamo nella stessa cosa. Dobbiamo essere cauti per non dare l’impressione che la dottrina non abbia importanza. È piuttosto una questione di vita o di morte eterna. 

Ecco alcuni esempi delle conseguenze negative derivanti dal credere a una dottrina non biblica: 

• Una visione errata del peccato porterà a sminuire il timore e il giudizio di Dio.
• Una visione errata della sufficienza delle Scritture porterà a preferire opinioni personali o tradizioni alla verità della Parola di Dio.
• Una visione errata del giudizio di Dio porterà a conclusioni errate su cosa succede dopo la morte.
• Una visione errata della grazia di Dio porterà a fare affidamento sulle opere meritorie, e a credere che esistano altri modi di essere salvati.
• Una visione errata di Maria o dei santi porterà a essere illusi su chi può salvare, e a chi bisogna pregare.

Ogni persona è responsabile di valutare attentamente quale autorità stia seguendo riguardo la sua fede. Noi abbiamo scelto la Bibbia, a esclusione delle opinioni umane e delle tradizioni religiose.

Ai nostri amici cattolici vogliamo dire che la salvezza è spiegata chiaramente nelle Scritture, e invitiamo tutti a esaminarle per vedere se quello in cui ognuno crede corrisponda alla verità. Ne va del nostro destino eterno.

Alcuni consigli per gli evangelici

A volte possiamo essere molto appassionati nel parlare della nostra fede, e dimentichiamo che davanti a noi potrebbe esserci chi non è abituato a parlare “l’evangelichese”. Per comunicare bene è importante essere capiti, spiegando le Scritture con parole semplici, e dare una definizione chiara a ogni termine teologico che usiamo. 

Con alcuni può sembrare di parlare la stessa lingua perché usiamo gli stessi vocaboli, ma dobbiamo accertarci che abbiano lo stesso significato per entrambi. 

Per questo può essere utile chiedere alla persona con cui parliamo di definire i termini che usa, per aiutarci a capire cosa intende. 

Per esempio, alcuni termini che i cattolici e gli evangelici definiscono in modo molto diverso sono: grazia, peccato, cristiano, chiesa, battesimo. Parlarne senza spiegare cosa si intende produce confusione e incomprensione. 

Dobbiamo fare attenzione a non dare l’impressione di essere arroganti o di sentirci superiori. Tutti noi, prima di conoscere la verità, credevamo cose sbagliate, convinti di avere ragione.

Mai e poi mai dobbiamo provocare o litigare. Sappiamo quanto sia facile farsi prendere dalla foga del momento e cercare di convincere l’altro a tutti i costi. Non è una guerra. Non dobbiamo avere l’ultima parola. 

Rispettiamo con umiltà le convinzioni diverse dalle nostre. È compito dello Spirito Santo convincere la persona.

Basiamo sempre sulle Scritture tutto quello che diciamo, citandole opportunamente. Questo aiuta a far capire che non propiniamo opinioni personali, ma parliamo di una verità obiettiva, attestata dalla Parola di Dio.

Uno dei pericoli più grandi è quello di cominciare a divagare passando da una obiezione all’altra, senza veramente rimanere sul punto principale che è il messaggio della salvezza. 

È quello il messaggio che dobbiamo avere bene in mente e sapere esporre con chiarezza.  Molte idee errate crollano quando si accetta il messaggio semplice del vangelo.

Soprattutto facciamo tutto questo con preghiera, e in sottomissione allo Spirito Santo. È Lui che convincerà i cuori, non noi. A noi spetta solo di essere testimoni amorevoli di Cristo.

È possibile che in passato abbiamo sbagliato nei modi e nei toni, e la nostra testimonianza non sia stata chiara. Che fare? Forse abbiamo sbagliato proprio con i nostri famigliari o gli amici più intimi, e abbiamo perso il loro interesse o li abbiamo offesi inutilmente. Cosa possiamo fare per riaprire il dialogo?

La preghiera aiuta. Possiamo pregare per una nuova opportunità. Possiamo chiedere a Dio saggezza per esprimerci più chiaramente e con amore. 

A volte aiuta anche chiedere perdono per il nostro atteggiamento sbagliato. 

E se una conversazione fosse impossibile, allora potremmo mettere per iscritto in una lettera la nostra testimonianza.

Detto questo, ricordiamoci anche che non dobbiamo portare dei pesi che non sono nostri. Noi siamo solo i portavoce di Dio. Ogni persona è responsabile davanti a Dio del suo destino eterno, e Lui è giusto nel giudicare, la sua è una giustizia perfetta. La loro salvezza non è nelle nostre mani, ma in quelle di Dio.

Che il Signore ci aiuti a essere attenti e pronti quando qualcuno ci chiede se ci sono differenze tra cattolici e protestanti. Restare sul vago o non dire le cose come stanno, non è una dimostrazione di amore, ma può dare luogo a false idee che di fatto condannano all’inferno.
– D.S.

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La VOCE MAGGIO 2021

Durante i miei anni all’università negli Stati Uniti, una volta fui ospitato a casa di un caro amico mio. Suo padre era l’amministratore di una casa di riposo, e una sera ci aveva offerto la cena nella sala da pranzo con tutti i residenti.

A un certo punto, non ricordo per quale problema, il padre del mio amico aveva fatto chiamare il cuoco.

Tra i due era subito nata una discussione, e alla fine il padre dell’amico mio aveva detto al cuoco con voce seria: “Lei lo deve fare. Lo faccia e basta!” Al che il cuoco, un omone come un armadio a tre ante, aveva ribattuto: “L’unica cosa che devo fare è morire!” tornandosene sbuffando in cucina.

La scena mi è rimasta impressa proprio per la risposta del cuoco. Riesco ancora a sentire la sua voce fare eco nella mia mente, come se l’unica cosa certa per lui fosse il fatto che tutti dobbiamo morire, e il resto è solo una grande incognita.

In questi tempi d’insicurezza, di cosa sei sicuro? Cosa ti dà speranza? 

TUTTA LA VITA, TUTTO IL TEMPO

Il re Davide, circa tremila anni fa, aveva avuto una vita particolarmente travagliata. 

All’inizio tutto sembrava andare per il meglio: era stato unto re d’Israele, e aveva ucciso il gigante Golia riportando una grande vittoria sui Filistei. 

Ma di lì a poco Davide sarebbe stato inseguito per anni dal re Saul che lo voleva morto; avrebbe perso in battaglia il suo migliore amico Gionatan; avrebbe peccato in modo pesante commettendo adulterio e omicidio; suo figlio Absalom avrebbe guidato una rivolta contro il regno e avrebbe dissacrato la famiglia reale e poi sarebbe stato ucciso. 

Anche il bambino nato dall’adulterio con Bat-Sceba sarebbe morto colpito dal Signore (2 Samuele 12:15). E la lista non è completa!

Ti sembra la descrizione di una vita caratterizzata dalla certezza della bontà di Dio nei propri confronti? 

Eppure è stata proprio così: in mezzo a tanti guai famigliari e guerre sanguinose che doveva combattere, il re Davide era assolutamente sicuro della bontà di Dio nei suoi confronti.

Nel Salmo 23 lui ha scritto queste parole: “Certo, beni e bontà m’accompagneranno tutti i giorni della mia vita” (Salmo 23:6).

Possibile che Davide avesse un concetto della bontà di Dio totalmente diverso dal nostro?

Ricordiamoci che Davide non conosceva Gesù. E benché lui sia uno dei 40 autori della Bibbia, non aveva il privilegio di avere a sua disposizione la rivelazione completa di Dio come l’abbiamo noi oggi, e non aveva lo Spirito Santo che dimorava in lui tutto il tempo.

Aveva forse ricevuto delle promesse talmente certe che nonostante le difficoltà potesse sentirsi in una botte di ferro?

Il salmo comincia con le parole: “Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.” La sua certezza partiva dal fatto che il Signore (Ebr. Yahweh) era il suo Pastore. 

Da giovane aveva pascolato il gregge di suo padre, e perciò aveva le idee chiare sul ruolo del pastore. Sapeva che il pastore aveva la responsabilità di curare e di proteggere le proprie pecore. 

La sicurezza di Davide era basata sulla sua conoscenza degli attributi divini dell’“Io Sono” che aveva promesso di prendersi cura di lui. Sapeva che il Signore era onnipotente, che aveva ogni capacità e autorità necessarie per essere un valente buon Pastore. 

Conosceva il cuore del suo Dio, sapeva che Lui era infinitamente saggio, perfetto in tutto quello che faceva. 

Sapeva che il suo Pastore era potente, nessuno poteva sopraffarlo ed era certo del suo amore e della sua cura. 

Aveva un Pastore perfetto sotto tutti gli aspetti, uno che diceva sempre il vero e manteneva tutte le promesse. 

Sapeva inoltre che la relazione col Pastore non si basa sulla bravura della pecora ma sulla competenza, compassione e dedizione del Pastore.

Non vorremmo anche noi avere questo tipo di certezza? Non vorremmo vivere nello stesso tipo di sicurezza?

Noi siamo sicuri?

Studiando la vita di Davide possiamo provare invidia per la relazione che aveva con Dio. E, forse, qualche volta scontrandoci con la nostra quotidianità dubitiamo che le parole “Certo, beni e bontà m’accompagneranno tutti i giorni della mia vita” possano applicarsi anche ai nostri giorni.

Ma se Davide poteva essere sicuro che beni e bontà lo avrebbero accompagnato tutti i giorni della sua vita, noi dovremmo esserne ancora più certi. 

Gesù ha detto: “Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Giovanni 10:11-15).

Va da sé che il primo passo da fare è diventare una sua pecora. 

Questo accade nel momento in cui mettiamo la nostra fede nella morte di Gesù per i nostri peccati, e Lui diventa il nostro Signore. Senza questo passo importante ogni pretesa di una relazione col Pastore è un’illusione. 

Ma spesso, pur essendo figli di Dio, la nostra vita non mostra la sicurezza che aveva Davide. Più che sicuri, ci sentiamo sconfitti e mancanti.

Non ci sono mezze misure nelle parole “Certo, beni e bontà m’accompagneranno tutti i giorni della mia vita.” Certo. Beni e bontà. Tutta la vita, tutto il tempo.

Interessante notare che nella lingua originale la parola “accompagnare” significa inseguire come fa un cane quando insegue qualcosa. È successo anche a voi? 

Io una volta mi sono ritrovato a scappare con tutte le mie forze perché due cani mi rincorrevano senza stancarsi. Sento ancora il loro fiato sul collo! Ringrazio Dio che ero molto più giovane e veloce, e sono riuscito ad arrivare alla mia macchina per mettermi in salvo. Non oso immaginare cosa avrebbero potuto farmi.

Nel Salmo 23 il concetto è che la bontà e la cura di Dio ci inseguono con la stessa determinazione, da cui quindi non possiamo sfuggire. 

Davide ha avuto diversi momenti nella sua vita in cui avrebbe potuto dubitare della bontà di Dio. A volte a causa di circostanze avverse e altre volte per colpa della sua disubbidienza, ma nonostante tutto era certo della continua e sicura bontà di Dio nei suoi confronti. 

A parole noi affermeremmo la stessa cosa, ma la nostra vita riflette quotidianamente questo tipo di certezza?

Un anno fa è successo

Solo poco più di un anno fa mio papà Guglielmo Standridge moriva di Covid, da solo, in una casa di cura a Milano. A causa delle restrizioni, noi della famiglia non potevamo stargli vicino, ma sono sicuro che anche in quegli ultimi giorni la bontà di Dio lo ha “inseguito”.

Perché ne sono così sicuro? Perché io conosco il mio Pastore e sono sicuro della mia relazione con Lui. Il nostro rapporto non si basa in alcun modo sui miei meriti (infatti non ne ho), e non riuscirei mai a sopperire minimamente al male che faccio con le mie buone azioni. Per papà era la stessa cosa.

Ogni vero seguace di Cristo, ogni vero cristiano sa che le parole di Paolo agli Efesini sono la sua speranza e la sua certezza: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8,9).

Gesù ha promesso che chiunque crede in Lui può essere certo della sua relazione col buon Pastore, e che Lui stesso lo curerà perfettamente come uno dei suoi. 

Perché allora non ci sembra di essere veramente “inseguiti” dalla bontà di Dio? 

Arrivano le difficoltà e diventiamo insofferenti, ci ammaliamo, perdiamo il lavoro e cadiamo in depressione, siamo delusi dalle nostre relazioni e ci amareggiamo anche contro i fratelli in fede che seguono lo stesso Pastore!

Il problema sta nel fatto che ci dimentichiamo com’è il nostro Pastore! Nella nostra mente lo riduciamo a nostra somiglianza, con tutti i difetti di un carattere umano. Lui non è così, ma è perfetto. Lo è in ogni cosa.

La nostra certezza È radicata nelle qualità del Pastore

Per spezzare il circolo vizioso di dubbi e incertezze, in cui cadiamo davanti ai problemi che ci assalgono, sarà bene che ripassiamo le qualità divine del Pastore, le quali ci faranno riscoprire la certezza della sua promessa di “inseguirci con la sua bontà”.

Il punto di partenza è che c’è solo un vero Dio, tutti gli altri sono invenzioni umane. 

Molti cercano di armonizzare le inconciliabili divergenze tra le religioni, sostenendo che si tratta di diverse descrizioni parziali, sebbene contraddittorie, dello stesso dio. È un affronto alla logica. Solo il Dio della Bibbia è immutabile, eterno e senza contraddizioni. E lo si può conoscere nella misura in cui Lui si è rivelato nelle Scritture. 

“Infatti così parla il SIGNORE che ha creato i cieli, il Dio che ha formato la terra, l’ha fatta, l’ha stabilita, non l’ha creata perché rimanesse deserta, ma l’ha formata perché fosse abitata: «Io sono il SIGNORE e non ce n’è alcun altro»” (Isaia 45:18).

Giovanni ha affermato: “Sappiamo pure che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato intelligenza per conoscere colui che è il Vero; e noi siamo in colui che è il Vero, cioè, nel suo Figlio Gesù Cristo. Egli è il vero Dio e la vita eterna” (1 Giovanni 5:20).

Conoscere Colui che è il Vero, significa anche conoscere come Lui è, quali siano le sue caratteristiche per le quali possiamo essere certi che Egli ci insegue veramente con la sua bontà.

Dio è misericordioso

Quando Dio si è rivelato a Mosè ha detto di sé: “Il SIGNORE! il SIGNORE! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà” (Esodo 34:6).

Dio mostra compassione, infatti, quando l’apostolo Paolo ne parla, dice: “Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo (è per grazia che siete stati salvati), e ci ha risuscitati con lui e con lui ci ha fatti sedere nel cielo in Cristo Gesù, per mostrare nei tempi futuri l’immensa ricchezza della sua grazia, mediante la bontà che egli ha avuta per noi in Cristo Gesù” (Efesini 2:4-7).

Non solo Dio è perfettamente misericordioso, ma la sua misericordia non ha limiti. Gesù ha mostrato compassione nelle sue interazioni con gli uomini quando “vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore” (Matteo 9:36).

Chi conosce Dio sa che è un Dio compassionevole. Inseguire i suoi figli con beni e benignità è in accordo con la sua indole.

Dio è amorevole

Giovanni scrive: “…Dio è amore. In questo si è manifestato per noi l’amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo affinché, per mezzo di lui, vivessimo. In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati” (1 Giovanni 4:8-10).

La Bibbia è piena di versetti che lo descrivono come un Dio d’amore, che ha mostrato il suo amore verso gli uomini con assoluta perfezione! 

Colui che ha sacrificato suo Figlio, compiendo il più grande atto d’amore mai mostrato nell’universo, è lo stesso che promette di amarci per sempre. 

Paolo scrive: “Infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8:38,39).

Dio ci ama perfettamente sin dall’eternità passata, e ci rassicura che nulla può fermare o interrompere questo amore.

Un amore eterno non può interrompersi, altrimenti non sarebbe eterno. Anche per questo la sua benignità fa parte della nostra vita. Sempre.

Dio è vicino

In un altro salmo Davide afferma che “Il SIGNORE è vicino a tutti quelli che lo invocano, a tutti quelli che lo invocano in verità” (Salmo 145:18).

Paolo, dal canto suo, ribadisce anche lui: “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi. La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino” (Filippesi 4:4,5).

Il Signore è onnipresente, quindi sempre vicino, particolarmente coi suoi. Non è mai distratto, non è mai lontano, non dorme né sonnecchia. 

È presente per mostrare la sua benignità ogni momento.

Dio è la verità

La nostra certezza è sorretta dal fatto che Dio non fa promesse false. 

Il Signore ha fatto dire di se stesso: “Dio non è un uomo, da poter mentire, né un figlio d’uomo, da doversi pentire. Quando ha detto una cosa non la farà? O quando ha parlato non manterrà la parola?” (Numeri 23:16,19).

Gesù ha affermato: “…colui che mi ha mandato è veritiero” (Giovanni 8:26).

E Paolo ha ricordato a Tito che “Dio… non può mentire” (Tito 1:2).

Se nutriamo sospetti verso ciò che Egli afferma nelle Scritture, dobbiamo essere onesti con noi stessi e ammettere di non conoscere Dio.

Alla luce delle caratteristiche di Dio che abbiamo ricordato fin qui (e ce ne sarebbero tante altre da considerare) come facciamo a NON avere la stessa certezza che aveva il salmista Davide quando scrisse il Salmo 23?

I beni e le benignità di cui Davide scrisse, parlano di quello che Dio fa nei nostri confronti.

Le stesse parole ebraiche originali sono tradotte in tanti modi diversi nella Bibbia, perché racchiudono in sé tanti significati che per essere spiegati in italiano hanno bisogno di diverse parole: bontà, grazia, misericordia, amore, amorevolezza, comprensione, compassione, favore.

La tua vita dichiara quali sono le tue certezze

Quante volte il nostro comportamento tradisce la nostra mancanza di pace! E quanto spesso la nostra insoddisfazione, la lamentela, la ribellione, l’insofferenza e la rabbia smentiscono le nostre parole pie! 

Sarà forse perché in quei momenti Dio non ci sta più inseguendo con la sua bontà e benignità? Credo proprio di no!

Il problema siamo noi. Abbiamo perso di vista Dio, i suoi scopi e la sua cura nei nostri confronti.

Non devono essere le circostanze a dirottare i nostri sentimenti e offuscare quello che pensiamo di Dio, ma dobbiamo essere guidati dalla fede nella sua Parola, e nelle sue promesse.

Io sono scappato a gambe levate da quei due cani, che non facevano presagire nulla di buono. Ma mi riprometto di non scappare da Dio. E non scappare nemmeno tu! 

Vivere come il cuoco che discuteva col papà del mio amico, con l’unica certezza di dover morire, è ben misera cosa.

– D.S.

 

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