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La VOCE ottobre 2019

Illusi! Cosa state pensando?

“Mio figlio è un bravo ragazzo, non ha mai fatto nulla di male!”  È il ritornello più ripetuto dai genitori di figli che hanno commesso un crimine. 

Uno di questi genitori è Ethan Elder che, come ha riportato Il Messaggero del 1 agosto, ha dichiarato: “Sono cresciuto in povertà, ho avuto fortuna più tardi nella vita. Ai miei figli ho insegnato l’importanza di condividere e dare. Entrambi sono divenuti due giovani adulti generosi e gentili.”

Ethan Elder è il padre del diciannovenne Finnegan Elder accusato di aver ucciso con undici coltellate alle spalle il carabiniere Mario Cerciello Rega. 

Se questa storia non sconcerta il pubblico, è perché ormai siamo abituati a tanti crimini inauditi. Il peccato dell’uomo sembra non conoscere limiti. 

Tutti i bambini nascono peccatori e i comportamenti sbagliati cominciano dalla nascita. Eppure troppi genitori adorano i propri rampolli a tal punto da non intervenire. Stanno allevando dei piccoli delinquenti che, se non diventano dei mostri, è solo per la grazia di Dio.

Succede nel mondo. Ma è particolarmente triste e fa anche rabbia che nelle famiglie dei credenti si sottovaluti quello che Dio dice nella Bibbia. 

È vero, ne abbiamo già parlato, anche più volte. Ma repetita iuvant.

Figlio mio, dammi il tuo cuore

Nel libro dei Proverbi è scritto: “La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l’allontanerà da lui” (Proverbi 22:15).

Non ci vuole un teologo né una laurea per afferrare il concetto.

Nel cuore del bambino, per quanto lui sia carino e piccolino, si nasconde la follia, e spesso neanche tanto bene. C’è solo una medicina che funziona contro l’incapacità del bambino di distinguere il bene dal male: la verga della correzione. 

La verga qui indica punizione che deve farsi sentire, essere ben percepita insomma, ma ci torneremo su alla fine dell'articolo.

Che tempi! Che costumi!

Vedo tanti bambini e ragazzini sempre più giovani incollati agli iPad e telefonini che li intrattengono. I genitori si illudono che vestirli griffati e pettinarli alla moda, o peggio ancora assecondarli in tutto e per tutto, sia sinonimo di buona educazione. Ciò però non fa altro che camuffare la follia insita nel cuore di questi piccoli. 

Tempo fa in spiaggia osservavo una scena che è durata una decina di minuti. Un bambino di sette o otto anni gridava parolacce e sputava sulla nonna che cercava di tenerlo buono. Era un continuo crescendo di insulti e grida. 

Ad un certo punto il “dolce fanciullo” ha preso una pala di plastica e ha colpito la nonna sul ginocchio. Lei, per difendersi, gli ha dato una botta sulla mano, al che il bambino, più per la sorpresa che per il dolore, si è messo a piangere e gridare. 

Sono intervenute due altre mamme cercando di calmarlo, ma lui ha cominciato a colpire anche loro. 

Per farlo smettere la nonna gli ha dato dei soldi per comprarsi un gelato, cosa che poi ha fatto. E mentre lo mangiava continuava a dire parolacce alla nonna. 

Dopo aver mangiato solo metà del gelato, ha buttato il resto e ha preteso altri soldi per andarsi a comprare altre cose. La nonna ha prontamente aperto la borsetta e ha fatto come le lui aveva chiesto. 

Così, alla fine, lui si è allontanato lasciando la nonna a massaggiarsi il ginocchio dolente colpito dal “bravo bambino!” 

Morale della storia: il bambino folle si era allontanato dalla nonna, ma la follia del bambino aveva solo messo radici più profonde.

Lezioni di civiltà

A volte provo pena per tutti quelli che, pur non essendo i genitori, devono esercitare una qualsiasi forma di autorità sui bambini. Gli insegnanti a scuola ne sanno qualcosa: in confronto alle generazioni passate di educatori, oggi si fa sempre più fatica a gestire gli alunni. Attualmente questi ragazzini pieni di follia sono obiettivamente più difficili da educare. È vero che molti insegnanti cercano di escogitare modi creativi di controllare le scolaresche, ma spesso è un lavoro senza speranza.

Ai tempi miei, se i genitori scoprivano che qualcuno di noi si comportava male a scuola, la punizione arrivava sicura e senza indugi. E quando i miei figli andavano a scuola c’era ancora quel senso di rispetto, anche se meno evidente, della figura del professore, che faceva sì che normalmente i genitori davanti ai comportamenti inaccettabili dei figli dessero ascolto agli insegnanti. Oggi sembrano schierarsi dalla parte del bambino prima ancora di scoprire il fatto vero, e senza dare peso alle difficoltà dell’insegnante. 

Morale della storia: molti insegnanti, nonostante la buona volontà, e mossi da un vero desiderio nonché da un reale bisogno dei bambini di essere educati, hanno le mani legate.

La Bibbia presenta tanti principi fondamentali su come allevare figli. È chiaro che chi non la conosce non li segue, ma è triste che tanti genitori credenti si facciano influenzare più dal modo di fare moderno che dalle sue verità.

I principi biblici sull’educazione non sono affatto legati alla cultura del tempo, ma alla natura del bambino, di cui Dio ha una conoscenza perfetta, il che fa di Lui anche l’autorità massima sull’argomento. 

Richard Baxter, un noto puritano del XVII secolo, aveva cominciato il suo ministero insegnando alla scuola elementare. Nel tempo poi è diventato un leader del movimento puritano. Quello che segue qui sotto è scritto da lui quasi 350 anni fa.

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Più giusto chiamarlo un diavolo che un genitore!

“...allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Efesini 6:4)

Genitori! Il vostro esempio e la vita sono un continuo, potente sermone che vostri figli vedono sempre!

Genitori! C’è un’eredità eterna di gioia che i vostri figli devono raggiungere – ed è in vista di essa che voi dovete allevarli. C’è una miseria senza fine a cui devono fuggire – ed è questo ciò che dovete insegnargli diligentemente. Se non insegnate loro a conoscere Dio e a servirlo, e come essere salvati e scampare alle fiamme dell’inferno, non gli insegnate nulla, anzi fate peggio di niente. È nelle vostre mani di fare loro la più grande gentilezza o la peggiore crudeltà che esista al mondo! Aiutateli a conoscere Dio e ad essere salvati, e fate di più per loro che se li aiutaste a diventare principi o principesse.

Se trascurate le loro anime e li allevate nell’ignoranza, mondanità, empietà e nel peccato, li tradite consegnadoli nelle mani del diavolo, il nemico delle loro anime, proprio come se li vendeste a lui. Li vendete per essere schiavi di Satana! Li tradite consegnandoli a uno che li imbroglierà e abuserà di loro in questa vita e li tormenterà per l’eternità. 

Se vedeste un uomo o una donna che osi nel suo cuore gettare il figlio in una fornace ardente, non pensereste che sarebbe più giusto chiamarlo diavolo piuttosto che genitore? Quanto più quando si tratta delle fiamme dell’inferno! 

Quali mostri disumani sareste allora, se leggendo nelle Scritture quale sia la via per l’inferno, e chi siano quelli che Dio consegnerà al diavolo per essere tormentati, allevaste lo stesso i vostri figli senza sforzarvi di salvarli da un destino simile!

Se li amate, mostratelo nelle cose da cui dipende il loro benessere eterno. Non dite che li amate, se poi li conducete all’inferno! E se non li amate, non siate così spietati nei loro confronti da dannarli! Non c’è peggiore cosa che possiate fare per dannarli che allevarli nell’ignoranza, incuria, mondanità, sensualità e empietà!

Non ci sono altre vie verso l’inferno. Eppure… Sareste forse capaci di allevare loro in questo tipo di vita e insistere che non desiderate la loro dannazione?

Ma se voi addestrate i vostri figli nell’empietà, dovreste ammettere che avete l’intenzione di dannarli! E non è forse vero che il diavolo è più scusabile di voi per aver agito con crudeltà verso i vostri figli, perché come loro genitori, la natura vi spinge ad amarli e a difenderli dalla miseria?

Lasciatemi parlare seriamente ai cuori di quei genitori disattenti ed empi che trascurano la santa educazione dei loro figli. Non siate così spietati verso chi avete portato al mondo! Abbiate pietà e soccorrete le anime che avete contaminate e rovinate! Abbiate pietà delle anime che dovranno perire nell’inferno se non si convertono!

Aiutate loro che hanno così tanti nemici che li assalgono, così tante tentazioni da affrontare, così tante difficoltà da superare e un giudizio tanto severo da subire!

Aiutate loro che sono tanto deboli e cosi facilmente ingannati e abbattuti!

Aiutateli prontamente, prima che il peccato li indurisca, e Satana si costruisca una fortezza nei loro cuori.

Non siate crudeli verso le loro anime!
Non vendeteli a Satana, a nessun prezzo!
Non traditeli all’inferno a causa della vostra empia negligenza!

E se uno di loro dovesse pur perire, che non sia a causa vostra, voi che avete il dovere di fare loro del bene.

La rovina delle anime dei vostri figli è più consona a Satana che a voi che siete i loro genitori!

Considerate quanto siano odiosi i genitori traditori delle anime: tradiscono i propri figli per farli diventare schiavi di Satana qui e tizzoni dell’inferno nell’eternità! Non unitevi al diavolo in questa orrida malvagità contro natura!

“Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno dei morti” (Proverbi 23:13,14).

—Richard Baxter

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È un testo duro, senza giri di parole,  quello di Baxter, ma non gli si possono fare appunti. 

Dio, nella sua misericordia, protegge i figli dalle mancanze e incapacità dei genitori, e salva anche bambini che sono stati cresciuti nell’incuria e disattenzione, ma non per questo possiamo trascurare le nostre responsabilità.

In molte famiglie entrambi i genitori lavorano fuori casa e, sebbene questa possa essere una necessità, non è un buon motivo per abdicare al proprio ruolo di genitore educatore. 

Non spetta alla scuola curare le anime dei figli. 
I nonni o le babysitter non possono sostituire l’amore e la cura da parte dei genitori. 

E sebbene Dio indubbiamente si serva della cura e delle attenzioni di tanti bravi insegnanti di scuola domenicale e di ore felici per avere un impatto eterno nella vita di tanti bambini trascurati dalla famiglia, la scuola domenicale non può supplire alle mancanze di coloro ai quali Egli ha assegnato la responsabilità di accudire, allevare ed educare i figli.

Un nuovo inizio

A questo punto voglio incoraggiarti a non ancorarti alle scuse che forse ti vengono naturali o alle opinioni che non sono in linea con la Parola di Dio.

L’anno scolastico sta ricominciando ed è un buon momento per rivalutare le proprie priorità, e per esaminare con più attenzione quelle che sono forse già diventate cattive abitudini in famiglia.

Come marito e moglie, perché non prendete il tempo per leggere insieme il libro dei Proverbi? In esso c’è una miniera d’oro di principi e avvertimenti sull’educazione dei figli. Studiateli e discutete insieme come metterli in pratica nella vostra famiglia.

Come genitori, ridedicatevi al compito santo di curare le anime dei vostri figli. 

Padri, leggete Deuteronomio 6:1-9. Prendete il tempo per chiedervi come potete svolgere meglio (o cominciare a svolgere!) il vostro compito di padri. Senza più cercare scuse, trovate il modo di svolgerlo con diligenza e costanza, davanti al Signore, per il bene dei vostri figli.

Madri, trovate il tempo e chiedete al Signore le forze per aiutarvi a trasmettere ai vostri figli l’importanza di avere un cuore per gli insegnamenti morali necessari per il benessere spirituale. 

È un progetto a lungo termine: i cambiamenti non avvengono solo perché si fanno dei buoni propositi, ma sono il risultato di una pianificazione attenta del vostro tempo e delle vostre priorità.

“La verga e la riprensione danno saggezza, ma il ragazzo lasciato a se stesso fa vergogna a sua madre. Correggi tuo figlio; egli ti darà conforto e procurerà gioia al tuo cuore” (Proverbi 29:15,17).

E quando poi parleranno dei vostri figli, possa il vostro cuore gioire ed essere fiero di loro. 

Punire secondo Dio
  • Chi risparmia la verga odia suo figlio, ma chi lo ama, lo corregge per tempo. Proverbi 13:24
  • Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno dei morti. Proverbi 23:13,14
  • La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l’allontanerà da lui. Proverbi 22:15 
  • La verga e la riprensione danno saggezza; ma il ragazzo lasciato a se stesso, fa vergogna a sua madre. Proverbi 29:15
  • Anche Dio usa la disciplina coi suoi figli: “...e avete dimenticato l’esortazione rivolta a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore, e non ti perdere d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli»”. Ebrei 12:5,6

Giochi proibiti  

Quando i gemelli erano abbastanza grandi per camminare e circolare nella loro stanza, ma ancora troppo piccoli per usare il vasetto, usavano una quantità indescrivibile di pannolini. Allora i pannolini che si buttano non si usavano molto perché erano molto cari (ancora oggi sono un peso non indifferente sul bilancio famigliare...); perciò ogni giorno c’era da fare il bucato, stendere i pannolini e ripiegarli. Poi li mettevo in un cassetto nella stanza dei bambini.

Daniele, uno dei gemelli, un giorno decise di inventare un gioco nuovo e divertentissimo.

Aprì il cassetto, tirò fuori un pannolino, lo spiegò e lo buttò attraverso la stanza. Poi fece lo stesso col secondo, col terzo e così via, finché il cassetto non fu vuoto. 

Quel giorno era in casa mio marito. Aveva un lavoro da fare e si congratulava per il silenzio e la calma che regnavano in casa (mai fidarsi quando c’è troppo silenzio!!). 

Ad un tratto, sentì i bambini che ridevano come matti e andò a vedere. 

Sembrava che nella stanza fosse passato Attila, flagello di Dio.

“Ma che avete fatto?” chiese mio marito.

“Niè gioca molto bene” (Niè voleva dire Daniele, nel linguaggio dei bambini).

Papà si mise a spiegare con pazienza che i pannolini non sono un gioco, che devono stare nel cassetto, a fare la “nanna”. Perciò, prese il bambino, gli fece piegare alcuni pannolini, glieli fece riporre nel cassetto, la maggior parte la ripiegò lui e il cassetto fu chiuso con fare solenne.

“I pannolini ora fanno la nanna. Non sono un gioco. Nanna” ripeté mio marito.

“Nanna” acconsentì Daniele.

“Se i bambini giocano con i pannolini, papà deve fare...”

“Pum, pum” ripeterono in coro i gemelli.

“Capito?”

“Capito.”

Il giorno seguente avevamo un ospite a pranzo e i bambini erano in camera loro perché avevano già mangiato.

Di nuovo, un grande silenzio dalla camera dei bambini. Andai a vedere. Era di nuovo passato il turbine fra i pannolini. Oltre ai pannolini, erano volati anche magliette e bavaglini.

“Ci penso io” disse mio marito. Infatti, è una buona regola, se possibile, che le punizioni siano date dalla persona che ha emanato la legge. In quel caso, mio marito.

“Allora, che cosa è successo?”

“Niè, gioca. Pannolini nanna. Niè sveglia.”

“E cosa aveva detto papà?”

“Pannolini nanna.”

Era chiaro: Daniele aveva capito perfettamente che cosa avrebbe dovuto fare e aveva disubbidito. 

Perciò doveva essere punito.

“Ci ha provato ancora?” domanderete.

No. Non con i pannolini, per lo meno. Anzi, con un sorriso birbone, metteva la manina sulla maniglia del cassetto e diceva: “Pannolini nanna, Niè non sveglia!” 

—Tratto dal capitolo 5 del libro Figli piccoli, gioie grandi di Maria Teresa Standridge


Uno degli errori più pericolosi

Uno degli errori più pericolosi che un genitore possa fare è vietare, o trascurare per ignoranza, che i suoi figli fin da piccoli frequentino la chiesa e siano istruiti nella Parola di Dio.

Uno dei più grandi tradimenti del volere di Dio avviene quando una chiesa locale, o i suoi responsabili, scoraggiano i genitori che desiderano portare i loro figli alle riunioni, non provvedendo loro ogni agevolazione e aiuto perché possano curare e accudire i loro bambini nell’ambiente della chiesa.

Ricordo, molti anni fa, un’esperienza mia e di mia moglie, quando dei credenti, forse senza rendersene conto, hanno dimostrato il loro desiderio di allontanare i bambini dalla chiesa o dai locali che possiamo chiamare, senza falsa retorica, la “casa di Dio”. Si tratta dei locali che sono consacrati all’insegnamento della Parola di Dio, che si frequentano per conoscere la verità di Dio, per adorarlo e per avvicinarci spiritualmente a Lui. 

Eravamo in un paese straniero di cui non capivamo la lingua, e la domenica ci siamo impegnati a trovare una comunità evangelica sana che potevamo frequentare per godere la comunione con Dio e con altri credenti. Ovviamente abbiamo portato tutta la famiglia, i nostri quattro figli, fra i tre e i sette anni. Abbiamo cercato di cantare quanto possibile in una lingua sconosciuta, e abbiamo ascoltato il messaggio, senza capirci nulla. Alla fine siamo rimasti orgogliosi del comportamento dei nostri figli, decisamente ordinato e rispettoso. 

Finché una signora di una certa età non ci ha salutati in italiano e, poi, commentato con un tono di sufficienza: “Noi, i bambini piccoli, non li portiamo all’adunanza”. 

Solo allora ci siamo resi conto che, effettivamente, oltre ai nostri, altri bambini non ce n’erano! 

In un primo momento, istintivamente, ci siamo un po’ vergognati: avevamo infranto le regole! Ma la nostra seconda reazione è stata orgoglio e tranquillità di cuore: i nostri figli non avevano causato disturbo a nessuno. 

E nella vostra chiesa, come va? C’è chi si oppone alla presenza dei bambini? C’è chi critica i genitori che ce li portano? E, d’altra parte, siete sicuri di poter dire in tutta onestà che i vostri figli non abbiano causato, o non causino, disturbo a nessuno? 

Ammettiamo, per prima cosa, che i problemi possono esistere e, poi, vediamo come possono essere risolti con la soddisfazione di tutti e, soprattutto, per il bene dei figli, dei genitori, della chiesa e per la gloria di Dio.  

Certamente è possibile. Ci state? 

—Tratto dal libro I miei bambini in chiesa? Sì, ma... di Guglielmo Standridge

 

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La VOCE settembre 2019

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Un pizzico di sale 


Tra i credenti si possono distinguere due correnti di pensiero, apparentemente contrastanti, riguardo al ruolo e l’impegno di un cristiano nel suo progresso spirituale, che forse hai notato anche tu. 

Ci sono quelli che mettono molta enfasi sui doveri dell’essere seguaci di Cristo: credere è ubbidire, e amare Dio è osservare la sua Parola.

Assolutamente vero. Chiunque abbia conosciuto Cristo, lo sa.

E poi ci sono quelli che fanno notare che un albero di mele non deve sforzarsi e affannarsi ogni volta per produrre i suoi frutti. Sta semplicemente lì, e le sue mele crescono spontaneamente. Questo per dire che il credente non deve preoccuparsi troppo di quello che il Signore compie nella sua vita. Lui fa quello che vuole fare.

Potremmo definire i primi pietisti, in quanto sostengono che il credente deve assumere un ruolo attivo nella sua santificazione. I secondi sarebbero quietisti, per i quali l’idea di qualunque opera umana che contribuisca alla salvezza è eresia. 

È una divisione molto grossolana (anche perché nel pietismo e nel quietismo c’è molto più di questa divisione), ma opportuna per chiarire la confusione che a volte abbiamo su ciò che Dio si aspetta da noi.

Le cose che facciamo, sono perché è Dio che le fa in noi? O le facciamo, anche controvoglia, semplicemente perché Lui ce le comanda? 

Se faccio le cose per il senso d’obbligo, sono legalista… Se faccio solo quello che mi va (perché Dio non mi ha ancora dato la gioia di fare altro) sono pigro e egocentrico… 

È meglio darci da fare o riposare?

Per capire cosa Dio si aspetta da me, e se ci sia un equilibrio tra il pietismo e il quietismo, ho bisogno della Parola di Dio.

Prendiamo in esame una frase di Paolo, scritta ai credenti di Filippi. 

L’apostolo esorta: “Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore” (Filippesi 2:12).

Il verbo principale di questo versetto è adoperatevi. Paolo sta dicendo che ogni credente deve personalmente adoperarsi al compimento della sua salvezza. Per essere chiari, lui NON sta dicendo che la salvezza possa essere ottenuta, o dipenda in alcun modo dalle nostre opere. 

Lui parla dell’ubbidienza di chi è già nato di nuovo.

La rigenerazione che lo Spirito Santo opera in chi si converte, produce in lui la sete per il puro latte della Parola di Dio e un desiderio genuino di voler piacere al Signore. Il credente ama il suo Salvatore perché nel suo cuore sa quanto è stato perdonato. È un amore che si traduce in ubbidienza.

A volte, però, col passare degli anni, ci dimentichiamo della gravità delle nostre offese prima di essere convertiti. Cominciamo a crederci migliori di quello che siamo, ed è proprio questo l’atteggiamento che ci deruba di quella gioiosa gratitudine che ci porta a ubbidire. 

D’altra parte, è possibile sentirsi schiacciati già in partenza dai tanti imperativi della Parola di Dio. Il comportamento santo, degno del vangelo, che Dio si aspetta dai suoi figli, è uno standard talmente perfetto di giustizia e di purezza che nessuno ne è all’altezza. 

Eppure Dio ce lo richiede.

Bisogna ammettere che la nostra ubbidienza è sempre imperfetta, ma questo non ci dà il diritto di essere indulgenti verso noi stessi.

È ovvio che certi comportamenti non sono degni del vangelo. Tollerarli nella nostra vita sarebbe in netta contraddizione con la fede che professiamo. 

L’esortazione di Paolo ai credenti di Filippi era chiara: dovevano sforzarsi di vivere come Dio vuole. 

E lo dovevano fare con l’atteggiamento giusto, con timore e tremore nei confronti del Signore. 

Timore e tremore sono due parole che di rado associamo al nostro rapporto con il Signore. Preferiamo parole e concetti più soft, che rassicurano e non ci chiedono troppo. E questo ci porta a dimenticarci, ancora una volta, come eravamo e dove eravamo diretti senza il Signore.

Ma la riverenza e la paura di dispiacere al nostro Salvatore giocano a nostro favore, perché ci spingono a fare solo quello che è giusto, e quindi buono e benefico anche per noi stessi. 

Se Paolo, scrivendo ai filippesi, si fosse fermato qui, allora il senso di inadeguatezza ci schiaccerebbe come un macigno. 

Ma, grazie a Dio!, il passo prosegue e dice: “Infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo” (Filippesi 2:13).

Nel testo originale in greco, la frase è espressa con maggiore enfasi: è Dio stesso la forza motrice nella vita del credente. 

Quando i nostri figli o amici non credenti non si comportano bene, non dovremmo sorprenderci; come peccatori si comportano da peccatori. Ma da un credente ci si aspetta un modo di vivere e relazionarsi diverso, santo, perché Dio ha promesso di produrre nei suoi figli sia il volere che l’agire, secondo il suo disegno benevolo.

Anche se, per lo standard perfetto di Dio, è impossibile per l’uomo comportarsi in modo totalmente irreprensibile, una persona che si professa cristiana, ma non lo dimostra nella vita pratica, desta sospetto e preoccupazione, perché Dio ha promesso di darci sia la volontà che la capacità di compiere il suo volere. 

Piacere a Dio è antitetico ai nostri desideri naturali. Se ci abbandoniamo a seguire quelli, adoperarci al compimento della nostra salvezza diventa uno sforzo destinato a fallire! 

CATTIVA MEDICINA CONTROVOGLIA

Come fa in tutte le sue lettere, anche in questa indirizzata ai credenti di Filippi, Paolo non si limita solo a parlare della nostra responsabilità di adoperarci al compimento della nostra salvezza, attraverso l’opera che Dio produce in noi, dandoci l’energia e la capacità di farlo. Ci dà anche istruzioni molto pratiche da seguire. E noi, come figli ubbidienti al nostro Padre celeste, vogliamo onorarlo, nonostante sia difficile e ci sentiamo appesantiti dalla nostra inadeguatezza.

Io vivo, infatti, in una continua tensione tra la mia responsabilità e l’opera che Dio sta facendo in me. E spesso devo tornare a ricordarmi che il piano di Dio è benevolo nei confronti dei suoi figli!

Me ne dimentico quando mi faccio distrarre, o sopraffare, dalle circostanze avverse e dalle persone difficili. Mi dimentico, e mi lamento.

So di non essere il solo ad avere questo problema. 

Paolo scrive: “Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute, perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato” (Filippesi 2:14-16).

Cosa sta dicendo? Che dobbiamo andare avanti a tutti i costi, stringendo i denti?

Mi ricorda quello che mia mamma raccontava di quando aveva lavorato per un periodo all’orfanotrofio “Comandi”. 

Diceva che all’epoca, specialmente durante l’inverno quando si rischiava di ammalarsi d’influenza, c’era l’abitudine di prendere dell’olio di ricino. Il sapore era terribile, ma se aveva delle proprietà salutari allora... La sera, prima di andare a letto, tutti i bambini si dovevano mettere in fila, e a ognuno veniva dato un cucchiaio di quest’olio. E dopo esser stati imboccati dalla direttrice, dovevano anche ringraziarla! (Lo scopo nel far dire “grazie” era di assicurare che la cattiva medicina fosse stata ingoiata!) 

A qualcuno potrebbe dare l’impressione che, con tutti questi imperativi impossibili, Dio sia un po’ come la direttrice austera del “Comandi” che ci dà la medicina cattiva e si aspetta pure che le siamo riconoscenti. Ma non è così.

Nel versetto di prima, il Signore ci mette davanti alla responsabilità che abbiamo, all’atteggiamento con cui dovremmo portarla avanti e alla motivazione che dovrebbe spingerci a voler ubbidire.

Dice di fare ogni cosa senza lamentarci, è vero, ma in questo comando ci sono delle verità implicite meravigliose che possiamo scoprire.

L’ERRORE DEGLI EBREI

È umano sottovalutare che brontolare sia una cosa grave. Ci lamentiamo facilmente, pensando che sia solo un modo di esprimere la nostra insoddisfazione del momento. Che male fa? In fin dei conti, siamo maturi abbastanza per fare, comunque, il nostro dovere.

Però il Signore non considera la lamentela come uno sfogo innocuo, anzi la trova offensiva! 

In Esodo 17:1-7 è raccontato come il popolo di Israele si mise a protestare contro Mosè nel deserto. Si erano accampati in una terra aridissima e avevano sete, 

loro e tutto il bestiame. Temevano di morire. Sembrava un motivo legittimo per fare delle rimostranze.

Non mi sono mai trovato in una situazione del genere, ma immagino che avrei avuto motivo di lamentarmi anch’io.

Gli israeliti non erano nati di nuovo.

Per comunicare con Dio, passavano attraverso Mosè e Aaronne. Chissà se sapevano come pregare personalmente? Sicuramente non avevano le Sacre Scritture che spiegano le vie del Signore. 

Ma avevano visto le piaghe d’Egitto, erano passati per il Mar Rosso come sull’asciutto, e ogni giorno e ogni notte c’era la colonna soprannaturale di nuvola e di fuoco che li accompagnava, i loro vestiti non si logoravano, e giorno dopo giorno si nutrivano della manna miracolosa (Neemia 9:9-21).

Avrebbero dovuto sapere.

Avrebbero dovuto comprendere e credere. E aspettare.

Invece, protestarono e tentavano Dio dicendo: “Il SIGNORE è in mezzo a noi, sì o no?” (Esodo 17:7). 

Ogni volta che ci lamentiamo stiamo mettendo in discussione il ruolo di Dio nella nostra vita.

Fermati e rifletti sul fatto che Dio è pienamente coinvolto nella tua vita.

Ricorda tutte quelle volte in cui il Signore si è mostrato tuo soccorritore, e ringrazialo di nuovo. Non dimenticare nessuno dei suoi benefici (Salmo 103). Non angosciarti di nulla, ma in ogni cosa fai conoscere le tue richieste a Dio in preghiere con ringraziamenti, e la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà il tuo cuore e i tuoi pensieri in Cristo Gesù (Filippesi 4:6,7).

È Lui che governa tutto quello che ti accade, come governa anche ogni persona, ogni datore di lavoro, vicino, parente e fratello della chiesa. 

Le situazioni e le persone che ci circondano sono parte della nostra vita, proprio perché volute dal Signore, parte del suo disegno benevolo per noi, attentamente pianificato. La salute, le finanze e tutte le ansiose preoccupazioni di questa vita (Luca 21:34) non devono offuscare la nostra serenità.

Nel chiederci di non lamentarci, ci sta dicendo di non dimenticare che Lui è con noi in qualunque situazione stiamo attraversando. Non è estraneo alla sofferenza, non è insensibile al nostro dolore. 

Riesci a ricordarti l’ultima volta che ti sei lamentato? Non era cosa innocua come potresti pensare. Nessuno di quegli israeliti che protestarono contro Dio entrò nella terra promessa!

Dio non vuole solo che evitiamo di lamentarci, ma che facciamo anche le cose senza dispute. 

OPPORTUNITÀ STRAORDINARIE

Abbiamo parlato delle circostanze, ora affrontiamo il problema delle persone difficili! Spesso sono proprio le persone la causa della nostra scontentezza e, se glielo permettiamo, riescono a derubarci della gioia di servire il Signore e di portargli gloria.

Le dispute e i litigi portano alla critica. 

Quant’è facile criticare… 

La critica, l’insoddisfazione e la lamentela: le tre gemelle sempre a braccetto!

Fare ogni cosa senza dispute è il nostro obiettivo. Lo possiamo affrontare come un peso o come un privilegio. 

La scelta è nostra.

La premessa per non criticare o litigare è la consapevolezza che quelle persone difficili nella nostra vita sono lì per volere di Dio. Abbiamo la possibilità di essere degli strumenti nella loro vita. Come Dio sta operando in noi, vuole operare anche in loro!

Questo pensiero può trasformare il tuo peso in privilegio, e la tua frustrazione nella gioiosa speranza di vedere Dio lavorare nei cuori di quelle persone.

Il mio atteggiamento irreprensibile e integro in circostanze e con persone che normalmente mi porterebbero a lamentarmi e a criticare, testimonia dell’opera di Dio in me in mezzo a questo mondo storto e perverso. È un privilegio straordinario! Più che una responsabilità schiacciante è invece una vera opportunità! È lo Spirito Santo che vive dentro di me che produce in me il volere e l’agire. 

Ti è mai capitato di trovarti in piena notte in mezzo alla campagna o in montagna lontano dalle luci artificiali? La vista del cielo stellato è da mozzare il fiato. Una distesa infinita e strabiliante di stelle. 

E non ce n’è una brutta! Qualcuna più fioca, altre più brillanti, ma nessuna brutta.

Così siamo noi. Paolo dice che splendiamo come stelle in un mondo buio, triste e senza speranza. Abbiamo l’opportunità di essere visti come qualcosa di bello, eterno, utile. 

Ci sono credenti che si preoccupano di essere notati per quello che posseggono, per la posizione che hanno raggiunto, per il loro aspetto fisico. Non voglio offendere nessuno, ma ci saranno sempre altre persone più belle e prestanti di noi, che hanno più cose e hanno raggiunto posizioni più ragguardevoli delle nostre. Il nostro valore non è in queste cose. 

Ma se abbiamo fatto risplendere la Parola di vita, abbiamo fatto qualcosa che ha un valore eterno, perché la Parola ha il potere di attirare le persone a Gesù Cristo e trasformare le loro vite! 

Qui si sta parlando di qualcosa che va al di là dello “sparare i versetti” e postare meme evangelici sui social. Dobbiamo essere pronti a dare una risposta a coloro che, osservando la nostra vita, ci chiedono le ragioni della nostra fede.

Fermati un momento… Sei come una stella nella tua famiglia? Brilli come un astro al lavoro? I tuoi vicini di casa sono incuriositi dalla luce che emetti? E a te importa brillare? A Dio certamente si!

Lo standard di perfezione che il nostro Padre celeste richiede da noi è umanamente irraggiungibile. Il pietista che è in me non potrà mai arrivarci con i suoi sforzi. E, come quietista, difficilmente mi offrirò per essere uno strumento straordinario nelle mani di Dio per produrre frutti eterni in persone difficili. A meno che tutto il brano di Paolo in Filippesi 2:12-16 non diventi una realtà in me. 

E io prego che così sia. 


Aiutanti e Collaboratori  

“Ti possiamo aiutare, Mamma?” chiesero Davide, Daniele e Deborah.  

“Sì, potete mettere a posto la verdura della spesa.” Mamma diede ad ognuno un sacchetto di plastica. 

“Davide, tu metti gli zucchini nel sacchetto, Daniele le melanzane; e tu, Deborah, porta le patate nel cestino. Chiaro?” 

“E le cipolle?” 

“A quelle penseremo dopo.” 

I tre si misero a lavorare. Deborah si ostinava a portare troppe patate in una volta sola e così perdeva tempo a raccattare quelle che le cadevano, ma tutto andò bene per un po’. 

“Ai, ai” si mise a piangere Daniele, “queste uova viola pungono. Io non voglio lavorare con queste!” 

“Allora, metti le cipolle vicino alle patate.” 

“Va bene.” 

Però ora Daniele e Deborah avevano la stessa strada da fare: si scontravano, si e aiutavano, ridacchiavano e trovavano divertentissimo che la pelle delle cipolle (loro la chiamavano carta) venisse via e svolazzasse. 

Davide, sereno, lavorava sugli zucchini e riempiva lentamente il suo sacco. “Io faccio molto bene, vero, Mamma?” 

“Molto bene. Ma cerca di fare più presto.”

Il sacco era pieno: Davide lo posò a terra e quello si rovesciò. 

“Oh, sono tutti fuori di nuovo… Mamma, adesso ho male di pancia, perché sono troppo stanco. Non posso più lavorare.” 

“Ora li butto tutti fuori e faccio da me” pensò Mamma; ma poi non li volle scoraggiare. 

“Su, lavoriamo insieme, Daniele, tu tieni il sacco e io ci metto dentro le melanzane (pungevano davvero quelle “uova” se non si stava attenti…). Poi rimettiamo gli zucchini nel sacco, tiriamo su le pelli delle cipolle e che cosa c’è qui? Ah, le pesche e l’uva da mettere via…”

“Mamma, ci dai un po’ di uva perché ti abbiamo aiutata così bene?” 

Con un grappolino di uva i tre aiutanti uscirono dalla cucina. 

Nel nostro servizio per il Signore, non facciamo molto meglio. Ci scoraggiamo, lo lasciamo a metà, perdiamo tempo e pazienza... Dio potrebbe farlo tanto bene senza di noi; eppure, no: ci fa suoi “collaboratori” e la parte più difficile offre sempre di compierla Lui. E alla fine, per di più, ci darà anche un premio...

Maria Teresa Standridge ("Un pizzico di sale" pubblicato sulla VOCE nel novembre 1962)

 

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La VOCE luglio 2019

L’estate è il periodo ideale per visitare le grandi città ricche di storia e di cultura. Certe cattedrali incutono un senso di stupore e di riverenza per la loro maestosità architettonica. Quella luce particolare… quell’eco dei passi composti e del brusio dei turisti… Ogni dettaglio sembra fare appello all’animo religioso di chi vi entra.

I locali delle nostre chiese evangeliche, invece, possono sembrare molto modesti in confronto. Chi conosce la Bibbia sa che Dio “che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa” (Atti 17:24,25). 

In realtà, le uniche due strutture che Dio abbia mai ordinato di costruire come luoghi di culto non esistono più. E se esistessero, noi come non Ebrei, non avremmo molta speranza di potervi entrare. 

Gesù ha detto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto” (Matteo 4:10).

È un comandamento, ma anche il desiderio sia di Dio che del credente. 

Ma in cosa consiste l’adorazione? Se Dio desidera che io lo adori, come lo devo fare in pratica? È adorazione quello che si fa nei nostri culti? 

Dobbiamo seguire qualche tradizione, o siamo liberi di scegliere noi come, quando e dove farlo? Questa, in sostanza, era ciò una donna samaritana voleva sapere da Gesù.

Tu sai in che modo Dio vuole essere adorato? 

Di chi è la mano che baci?

La domanda della donna samaritana sull’adorazione tocca un argomento attuale ancora oggi. Qual è il modo giusto di adorare Dio? C’entra qualcosa la religione, una chiesa o un luogo preciso? Richiede un atteggiamento pio, o riti e liturgie particolari? Un atmosfera mistica e musiche che trasportino le emozioni? 

Lei era samaritana, e ai samaritani era vietato entrare nel tempio di Gerusalemme. Avevano un loro monte sacro dove andavano ad adorare il Dio degli Ebrei, un Dio che, in realtà, non conoscevano (Giovanni 4:20-22). Quel monte rappresentava qualcosa di tangibile nel loro rapporto, altrimenti astratto, con il Signore.

Ancora oggi molte persone si sentono più vicine a Dio in edifici e luoghi specifici, adatti per il raccoglimento. Ricercano un contesto, un ambiente che susciti in loro un giusto senso di solennità. 

La risposta di Gesù alla samaritana deve averla sorpresa non poco: “Credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre” (4:21). Diceva che non c’entra affatto il luogo dove uno adora Dio, ma il modo in cui lo fa. 

È una notizia che stravolge tante opinioni, e altrettanti preconcetti: “L’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità” (4:23,24).

Spirito e verità. Sono le parole chiave della risposta di Gesù. Adorare Dio nel modo che Egli vuole, è vincolato a due presupposti fondamentali: essere nati di nuovo e conoscere la verità. 

Dio è Spirito. Per godere la comunione con Lui bisogna rinascere spiritualmente. Gesù l’ha spiegato a Nicodemo, un uomo di fede che pensava che bastasse avere la religione giusta: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo” (Giovanni 3:5-7).

I samaritani adoravano Dio, ma non lo conoscevano (4:22). Si potrebbe dire che lo adoravano come se lo immaginavano. 

Miliardi di persone fanno lo stesso oggi. 

Il dizionario Treccani definisce il verbo adorare come rendere culto, inchinarsi, amare teneramente e con grande trasporto, avere grande passione per qualcosa, o profonda ammirazione per qualcuno, apprezzare enormemente.

Come posso amare teneramente e avere una grande passione per qualcuno che non conosco? Pretendere di nutrire una profonda ammirazione verso uno sconosciuto è praticamente impossibile! 

Ma, se non è adorare Dio quello che faccio senza conoscerlo, che cos’è allora?

Generazioni alla deriva

La Bibbia afferma che prima di conoscere Dio – prima cioè di diventare suo figlio attraverso la fede in Gesù Cristo – di fatto mi è impossibile adorarlo. La realtà è che sto adorando tutt’altro.

L’apostolo Paolo spiega, per sua esperienza personale: “Dio ha vivificato anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli. Nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d’ira, come gli altri” (Efesini 2:1-3).

Ecco la verità nuda e cruda dalla parola di Dio: ogni uomo e donna che non è stato vivificato da Dio adora le idee, le religioni e le opinioni mondane, non divine. Generazione dopo generazione l’umanità segue il comportamento e l’andazzo del mondo. 

Adora Satana e adora se stesso.

Può sentire un grande trasporto religioso, ma se viene meno nel praticare misericordia e giustizia, dimostra di non aver conosciuto Dio (Osea 4:1,2). 

Qui non stiamo dicendo che non ci siano tante brave persone, sincere, altruiste e impegnate per le cause giuste. Stiamo dicendo che se mancano i due presupposti della vera adorazione – la nascita dallo Spirito di Dio e l’amore per la verità – non siamo gli adoratori che Dio cerca.

E fin quando uno adora qualcun altro, e non il vero Dio, sta servendo il padrone sbagliato. E come ha detto Gesù, nessuno può servire due padroni, perché amerà l’uno e odierà l’altro, o viceversa. 

Diritto esclusivo

Ovviamente, un non credente può assistere al culto insieme ai veri credenti e cantare le stesse canzoni, o gli inni che cantiamo noi, e forse anche pregare. Anzi, tutti sono più che benvenuti a venire e ad ascoltare la predicazione del vangelo con la speranza che, anche loro, possano diventare figli di Dio. Ma l’adorazione è qualcosa che solo un figlio di Dio può offrirgli. 

La vera adorazione comincia il giorno in cui una persona si converte attraverso l’opera di trasformazione dello Spirito Santo. Lo Spirito ci convince di peccato e di giustizia, e presenta Gesù Cristo come l’unico Salvatore che può condurci a Dio per essere perdonati. Da quel momento in poi, l’adorazione è uno stile di vita, una consapevolezza della presenza di Dio e volontà di vivere per il Signore. 

La trasformazione che lo Spirito attua nel credente è radicale: da persone che non hanno mai ringraziato Dio, né l’hanno glorificato, ma hanno adorato la creatura invece del creatore, diventiamo persone vivificate e capaci di adorare il vero e unico Dio. Nati dallo Spirito per adorare nello spirito.

Per adorare Dio, bisogna conoscerlo. Egli si è rivelato nella sua parola, la Sacra Bibbia, il mezzo stabilito da Lui per sapere chi è, cosa fa e cosa desidera da noi. 

Un culto inutile

Le parole chiave della risposta di Gesù alla samaritana erano: in spirito e in verità. Abbiamo visto che solo chi è nato spiritualmente può adorare Dio in spirito. Ma il problema è che pure un credente può adorare in modo vano. 

Dio aveva rimproverato questo peccato a Israele, e Gesù, citando le parole del Padre, denunciò l’ipocrisia dei religiosi del suo tempo: “Ben profetizzò Isaia di voi quando disse: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini»” (Matteo 15:8,9).

Per Dio è stato sempre una questione di cuore, di affetti, di priorità. 

L’adorazione non ha tanto a che fare con quello che si dice mentre si adora, ma con quello che si è dentro. 

Infatti, l’apostolo Paolo ha scritto queste parole: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà” (Romani 12:1,2).

L’adorazione è uno stile di vita. 

Il culto spirituale, gradito a Dio, è presentare i nostri corpi ogni giorno in sacrificio, morti a noi stessi ma viventi per il nostro Signore. 

Pensare di adorare con la bocca, senza essere pronti a sacrificare la nostra vita in modo completo e radicale, è adorare invano. È inutile. È mentire.

Nel Nuovo Testamento, la parola greca usata più comunemente per indicare l’atto dell’adorazione, significa letteralmente “inchinarsi” e “baciare la mano”. Tenendo questo in mente, i versetti in Romani 12 sul presentarsi a Dio come sacrifici viventi, assumono la giusta prospettiva di sobrietà e serietà. Quando adoriamo Dio non stiamo davanti a qualcuno che sia pari a noi. 

È vero che Dio ha messo lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: “Abbà, Padre” (Galati 4:6), ma questo è stato reso possibile solo per l’atroce morte di Gesù al posto nostro. 

Dobbiamo riconoscere chi abbiamo davanti, e capire che il nostro rispetto incondizionato, il servizio e la nostra sottomissione completa sono dovuti a Lui. La vera adorazione è caratterizzata dal timore di Dio (Malachia 1:6).

Troppo spesso nei nostri incontri quello che è vissuto come adorazione non è molto diverso dal tentativo di evocare un’atmosfera piacevole che ci faccia sentire rassicurati e coccolati. Sicuramente non assomiglia all’atteggiamento che avevano Mosè, Isaia, Ezechiele, Daniele, Pietro, Paolo e tanti altri uomini di Dio davanti alla sua maestà.

 “Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. 
“Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava. L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. 
“Allora io dissi: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!» 
“Ma uno dei serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle dall’altare. Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato». 
“Poi udii la voce del Signore che diceva: “Chi manderò? E chi andrà per noi?»  Allora io risposi: «Eccomi, manda me!»” (Isaia 6:1-8)

 Ecco l’esempio di quella adorazione che dovrebbe far parte della nostra vita. 

L’uomo che si avvicina a Dio in riverenza, riconosce che Egli è immensamente santo, e non può fare a meno di vedersi come peccatore che ha bisogno dell’opera continua della grazia di Dio nella sua vita. Con spirito umile, consapevole di non meritare niente, è pronto a servire.

Questo non può accadere solo la domenica al culto.

L’adorazione deve essere vissuta dal lunedì alla domenica, di settimana in settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Deve migliorare e crescere giorno dopo giorno. E un giorno, nell’eternità alla presenza di Dio, sarà gloriosa, perfetta e senza fine.

 “Chi non temerà, o Signore, e chi non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo; e tutte le nazioni verranno e adoreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi sono stati manifestati” (Apocalisse 15:4).

Adoratori ricaricati

Per non essere solo un trattato teologico sull’adorazione (argomento troppo vasto per un articolo breve come questo), vediamo come si esprime in pratica l’adorazione come stile di vita. 

È chiaro che ogni aspetto della fede biblica va vissuto tanto in famiglia, quanto al lavoro, nel quartiere dove abitiamo, nella società, ma soprattutto nella chiesa. 

È quello che l’autore della lettera agli Ebrei affermava quando ha scritto: “Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome. Non dimenticate poi di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace” (Ebrei 13:15,16).

La nostra voce esprime l’adorazione del cuore, i gesti confermano la sua genuinità.

Chi ci conosce, sa se stiamo adorando o “ipocritando”!

Il culto che offriamo a Dio la domenica è adorazione solo se è l’espressione onesta di quello che abbiamo messo in pratica durante la settimana.

Lo scrittore dell’epistola agli Ebrei dice ancora: “Avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse. Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci all’amore e alle buone opere, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il giorno” (10:22-25).

In tutta onestà dobbiamo ammettere che non siamo adoratori costanti. Abbiamo prove e difficoltà che ci ostacolano, ma più di ogni altra cosa è proprio la nostra vecchia natura che ci frena, e abbiamo bisogno del nostro tempo insieme a tutta la chiesa la domenica, proprio per ricaricarci e spronarci.

I nostri incontri regolari come credenti in Cristo sono essenziali nel piano di Dio per la nostra crescita spirituale. Perciò ogni momento del culto è importante e contribuisce alla nostra adorazione collettiva. Tu contribuisci al mio progresso nella fede, come io al tuo. 

Allora sii preparato quando arrivi. Il tuo cuore sia ben disposto. Non fare tardi il sabato sera per non arrivare mezzo addormentato: non è utile per una degna adorazione di Dio. 

Arriva in orario. Anzi, arriva prima che cominci il culto. Se prevedi traffico o che avrai difficoltà a trovare parcheggio, mettilo in conto, e parti prima. La puntualità non è solo segno di buona educazione, ma dimostra anche la tua voglia di adorare  insieme ai tuoi fratelli e sorelle. Arrivare in ritardo distrae gli altri, e ti fa perdere una parte importante del culto.

C’è un inno che dice: “È vano il cantare, è indegno il pregare, se altrove è la mente, se muto è l’amor!” Con poche parole esprime un concetto fondamentale. 

Anche con la musica adoriamo Dio. In alcune chiese la musica è diventata più importante delle parole. È giusto che sia fatta nel miglior modo possibile, degno del nostro Creatore, ma la musica deve essere funzionale allo scopo per cui ci si riunisce. E la musica che si fa, per essere eccellente, deve essere consona alle parole che si cantano. 

L’adorazione non ha a che fare con noi, ma con Dio. Stiamo parlando di Lui, dobbiamo farlo con il dovuto rispetto, e non per divertirci.

I canti nel culto, che siano scelti in anticipo da chi presiede o proposti dalla congregazione, hanno la loro ragione d’essere solo nella misura in cui, esprimendo verità bibliche, aiuteranno i credenti ad adorare a viva voce. Non è il karaoke, dove ognuno canta la sua canzone preferita. È il tempo in cui i credenti innalzano la loro voce insieme per riflettere su chi è Dio, cosa fa per noi, e per lodarlo e ringraziarlo. 

Se non sai cantare, se ti vergogni della tua voce, canta sottovoce o ascolta soltanto, e pensa nel tuo cuore alle parole cantate. Un tempo così non è mai perso!

La preghiera durante il culto è un momento importante in cui tutta la chiesa unita parla al suo Signore. Ascoltare le preghiere, e dire amen, è un’espressione dell’adorazione comunitaria. Non è la stessa cosa che la preghiera privata, per conto proprio. Qui si è un corpo unito, qui quello che si dice in preghiera riguarda tutti i presenti. Per questo è importante che chi prega lo faccia ad alta voce, in modo che gli altri possano comprendere, partecipare ed esserne incoraggiati. 

Anche contribuire all’offerta è parte dell’adorazione. Non è qualcosa che debba sorprenderci o coglierci impreparati. All’ammontare del dono bisogna pensare già a casa. Non va quantificato guidati dall’impulso del momento. 

L’offerta è adorazione, prima di tutto perché significa riconoscere che tutto quello che abbiamo viene da Dio. È anche un segno di gratitudine e di dipendenza da Dio. 

È un modo pratico di partecipare attivamente al progresso del vangelo. Ecco perché non deve essere solo una reazione emotiva a un appello, o qualcosa che facciamo per abitudine, o perché ci sentiamo in dovere di farlo.

Il fulcro dell’adorazione collettiva è chiaramente l’esposizione della Parola di Dio. Perciò è fondamentale che chi predica sia ben preparato, abbia studiato il testo biblico di cui parlerà, e abbia vissuto durante la settimana quello che insegnerà la domenica. Il suo messaggio deve essere così chiaro che chi l’ascolta sappia come adorare meglio, durante la settimana, il Dio del cielo e della terra. 

La cena del Signore è anch’essa una espressione di adorazione, un momento meraviglioso in cui ricordiamo quello che ha fatto. Celebrandola insieme affermiamo davanti a tutti su quale base si fonda la nostra fede: sulla sola opera di Cristo che per la sua grazia ha fatto sì che siamo riconciliati con Dio, e possiamo adorarlo in spirito e verità. 

È anche un richiamo per esaminarci, ognuno per conto proprio, e confessare a Dio  il nostro peccato, abbandonandolo.

L’adorazione come stile di vita cambia il tuo modo di pensare alla chiesa. Troverai voglia e piacere di essere puntuale per partecipare ai canti, alla preghiera, all’ascolto del messaggio, all’offerta e alla cena del Signore, perché dopo aver vissuto la settimana adorando Dio potrai ancora contribuire alla crescita degli altri. 

L’adorazione non è casuale, ma pensata, e prodotta da Dio in noi. 

Non più a Gerusalemme, nè in Samaria. 

La vera adorazione è uno stile di vita quotidiano, perché se non hai adorato Dio in spirito e verità durante la settimana, non basteranno le musiche, l’atmosfera e gli espedienti più suggestivi a evocare in te una vera adorazione in chiesa!

  

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La VOCE giugno 2019

È nella natura umana pensare che il “nostro” modo di ragionare e di fare le cose sia quello giusto. Da quando ci siamo convertiti a Cristo, abbiamo imparato e adottato il modo di vivere la fede della nostra chiesa locale, in cui siamo cresciuti e maturati. 

Ci è familiare il modo in cui si svolge il culto: così si è sempre fatto, e così si farà.

Ma che succederebbe, se una domenica mattina l’Apostolo Paolo in persona entrasse nella nostra chiesa? Proprio lui, che prima avrebbe ucciso persone come noi. Lui, che dopo la sua conversione, portava sulla sua pelle le cicatrici per il vangelo.

Cosa penserebbe osservando come ci stiamo preparando per il culto? 

Canterebbe anche lui i nostri coretti preferiti, con contenuti superficiali? O preferirebbe gli inni classici in un italiano arcaico? Troverebbe gli strumenti e gli arrangiamenti appropriati?

Si identificherebbe con le nostre preghiere? 
Sarebbe d’accordo con il messaggio predicato?

Ai tempi suoi nessuno aveva una Bibbia da portare alle riunioni, tanto meno un tablet o il telefonino con l’app per leggerla. Le Sacre Scritture erano un lusso che pochi potevano permettersi.

Molto è cambiato da allora, anche in meglio, ma certe cose non dovrebbero essere affatto diverse. 
Dio certamente non è cambiato. Ma i credenti?

Le chiese ai tempi di Paolo erano appena nate, Gesù era risalito in cielo da poco tempo. C’erano ancora dei credenti convertiti durante la Pentecoste, prima che cominciassero le persecuzioni. 
Molti avevano perso tutto, fuggendo in altre città. Le prove che dovettero affrontare non erano certo i disturbi psicoemotivi per le normali difficoltà della vita. 

Cosa direbbe l’Apostolo Paolo alla nostra assemblea la prossima domenica?

"Troppa vanità, amici miei!"

I credenti del primo secolo sarebbero sbalorditi di quanto è diversa la vita adesso: macchine, aerei, grattacieli, palazzi di vetro, plastica e altri materiali nuovi, cibi sintetici, medicine…  I figli vanno tutti a scuola, le mogli fanno carriera, non si lavora più tutto il giorno…  

Progresso in ogni campo.
Troverebbero tantissime novità “sotto il sole” di cui meravigliarsi. 
Eppure – lo afferma la Bibbia – nulla è cambiato dai tempi loro. 

 

Vanità delle vanità, dice l’Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità. Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? 
Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. 
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. 
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere e l’orecchio non è mai stanco di udire. 
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole.  C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo»? Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto. 
Non rimane memoria delle cose d’altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi. 
– Ecclesiaste 1:2-11

 

Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, le cose sono migliorate. Ma l’uomo stesso, nella sua essenza, non è cambiato affatto.

Gli stessi desideri e bisogni continuano a farla da padrone nel cuore umano, spingendoci a rincorrere cose futili. 

Salomone, per la singolare saggezza che Dio gli aveva dato, sapeva bene che tutto quello che gli stava intorno era un vapore. Purtroppo saperlo non è sufficiente. E così anche lui era stato sedotto e travolto dal desiderio di possedere, solo per scoprire dalla sua esperienza quello che avrebbe dovuto già sapere: tutto è vanità!

Se l’Apostolo Paolo potesse visitare le nostre chiese oggi, forse anche lui confermerebbe che c’è troppa vanità nel moderno mondo evangelico. 

Non lo direbbe con arroganza, lui che aveva rincorsa la vanità come tutti gli altri (Efesini 2:1-3).
Lo direbbe con la voce spezzata. 

Si siederebbe in mezzo a noi e, guardandoci negli occhi, direbbe con le lacrime: “Troppa vanità, amici miei! State vivendo troppo per il presente e poco per il futuro.”

In Atti 20 c’è un suo discorso in cui ripercorre il suo lavoro come anziano-pastore della chiesa di Efeso. Sono parole che esprimono tutta la sua premura, l’attenzione e un amore sincero per la chiesa. C’è la grande sollecitudine di aiutare ogni credente a scoprire e a perseguire i veri valori eterni della vita.

Noi, credenti del terzo millennio, cosa stiamo rincorrendo? Chi ci insegna a vivere con una prospettiva giusta?

Nelle prime chiese c’era un gruppo di credenti che l’aveva capito.

La chiesa di Tessalonica godeva della reputazione di essere approvata da Dio. La loro conversione a Cristo aveva avuto non solo un forte impatto su loro stessi, ma anche un effetto onda su vasta scala. Ecco come ne parlava Paolo: 

“Infatti il nostro vangelo non vi è stato annunciato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione; infatti sapete come ci siamo comportati fra voi, per il vostro bene. 
Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo, tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. 
Infatti da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne; perché essi stessi raccontano quale sia stata la nostra venuta fra voi, e come vi siete convertiti dagl’idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall’ira imminente” (1 Tessalonicesi 1:5-10).

La loro trasformazione era stata notevole. Non avevano fatto, come spesso accade oggi, una mera professione di fede solo a parole, una preghiera alla fine di una riunione e tutto finisce lì. 

Il loro modo di vivere era cambiato drasticamente. Tutti ne parlavano.

Qual è, allora, la differenza? Come mai questo tipo di cambiamento autentico spesso fa fatica a manifestarsi nelle nostre chiese?

I tessalonicesi non erano supereroi della fede. Ma quello che hanno fatto era imitare Paolo il quale, lungi dal vivere una finta spiritualità, si riconosceva il più grande dei peccatori. 

Con rammarico genuino, Paolo si rendeva conto che certe volte faceva cose che non avrebbe voluto fare, e che, invece, in altri momenti non faceva quello che voleva (Romani 7:21-25). Non era perfetto. 

Ma Paolo, e i tessalonicesi, si distinguevano da molti altri perché avevano abbracciato il lavoro dello Spirito Santo in loro. Avevano dato retta alla correzione di Dio, che mirava a convincerli, ad aiutarli a comprendere la sua volontà, e a dargli la forza di compierla. 

Non supercredenti, ma obbedienti a Dio. 

Erano cambiati, erano diventati degli esempi, e la loro fede si vedeva. 

Questa drastica trasformazione era diventata argomento di conversazione tra i credenti di tutta la regione.

La fede dei tessalonicesi era caratterizzata da tre azioni distinte:
- avevano lasciato la vecchia vita, 
- servivano il Signore con fedeltà 
- e vivevano in funzione del ritorno di Cristo. 

Per dirlo in altre parole, avevano rinunciato a rincorrere le vanità, come facevano in passato, per vivere il presente con una prospettiva futura.

La loro conversione non era stata facile, e la vita non gli aveva risparmiato difficoltà, ma la loro preoccupazione era vivere per cose che hanno un valore eterno.

E loro oggi sono un esempio per noi, che siamo facilmente distratti da mille attrazioni inutili. 

Se Paolo visitasse il nostro culto, molto probabilmente non interverrebbe sulle cose esteriori che non vanno. Le noterebbe senz’altro, perché denunciano qualcosa di più grave che non va. Ma farebbe massima attenzione alla sostanza, all’insegnamento, all’atteggiamento e allo scopo in ogni cosa che si fa. Ci inviterebbe a fermarci e a valutare la nostra vita, per capire se stiamo vivendo per il presente o per il futuro. 

E, onestamente, potrebbe essere difficile capire cosa significhi vivere per l’eternità. Se si è intrappolati nel presente che, con tutti i suoi tentacoli, avvolge e stringe da ogni parte, saremo incapaci di occuparci del bene eterno, sia nostro che di chi ci sta vicino.

Diventa tutto più chiaro, quando consideriamo le parole di Gesù.

“Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà.  Che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua? O che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?” (Matteo 16:24,25).

“Gesù parlò loro di nuovo, dicendo: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»” (Giovanni 8:12 ).

“E disse loro: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, lasciate subito le reti, lo seguirono” (Matteo 4:19,20). 

“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente»” (Matteo 28:19,20).

La chiesa ha il solenne compito di fare di ogni credente un discepolo di Cristo. Non per essere un bravo membro della comunità. Non per portare avanti i programmi della chiesa come si è sempre fatto. Non per perpetuare un’opera evangelica o una denominazione.

Discepoli. Discepoli che seguono il Maestro. Che vivono con una prospettiva eterna. Che capiscono che la vita è breve e che il mondo passa, e che solo il frutto che Dio produce in noi e attraverso noi è eterno.

Da questa prospettiva tutte quelle cose che consumano il nostro tempo e le nostre energie appariranno senza senso se non addirittura dannose. 

Questa consapevolezza di essere discepoli è ciò che la chiesa deve continuare a trasmettere nell’insegnamento biblico, nelle preghiere ad alta voce, nei canti e in ogni altra attività. 

Ovviamente è solo lo Spirito Santo che può produrre una vera maturità spirituale in noi, ma se la Parola di Dio non è predicata, cantata e vissuta con fedeltà, chi ci ascolta e osserva come fa ad essere sollecitato dallo Spirito?

Paolo aveva conosciuto molti credenti pronti a morire per la loro fede. Tanti di loro sono stati uccisi. Troverebbe la stessa prontezza in noi? Saremmo pronti a dare la vita per il vangelo?

La nostra priorità non può e non deve essere quello di inseguire ancora le vanità della vita. Rinunciare a se stessi vuol dire rinunciare tutto quello che per un non credente è priorità assoluta: possedere cose solo per il gusto di soddisfare se stessi, apparire per sembrare importanti e realizzati, avere una posizione per essere riconosciuti e sentirsi appagati.

Cos’è un cristiano se non uno che, per seguire Cristo e fargli piacere in ogni cosa, rinuncia al peccato e vive per attirare altri alla salvezza? 

“Okay”, dirai, “è tutto vero, e ci credo. Ma, in sostanza, cosa dovrebbe cambiare nella mia vita?” 

Tanto per cominciare, chiediamoci come stiamo vivendo le nostre relazioni, quali siano le nostre mete, quali le nostre priorità. Esaminiamo con onestà come e perché facciamo il nostro lavoro, cosa compriamo, cosa teniamo nel nostro armadio… 

Troppo radicale? Prova a invitare Paolo a casa tua a guardare da vicino le tue scelte! 

E più che Paolo, che non verrà né in chiesa né a casa, considera il Signore Gesù. Lui è sempre presente, osserva ogni cosa e scruta la nostra mente e il nostro cuore. A lui non possiamo nascondere nulla! 

Ma per aiutarci a rivalutare la nostra vita, facciamo qualche esempio pratico di tutto quello in cui possiamo senz’altro migliorare.

 

COMINCIANDO DAI SINGLE, perché lo siamo stati tutti, chi per pochi anni, chi per più a lungo, ecco alcune indicazioni.

Paolo ha detto che per un credente essere single ha dei vantaggi. 

È una condizione privilegiata per coloro che vogliono vivere per le cose eterne. Non devono preoccuparsi di piacere al marito o alla moglie, e sono quindi più liberi di dedicarsi a servire il Signore (1 Corinzi 7: 32-35).

Un credente single, però, se non ha una prospettiva eterna per la sua vita, rischia di chiudersi in se stesso per via delle responsabilità e dei problemi che si trova a dover affrontare da solo. La solitudine può farsi sentire e i tentacoli del vivere solo per il presente sono lì, pronti ad avvilupparlo e a isolarlo sempre di più.

Ma se ti pesa non essere sposato, non è il momento di arrendersi e continuare a credere che nessuno ti capisca. Dio capisce i single. È lui che ha permesso la condizione in cui ti trovi e la vuole usare per la sua gloria.

Può darsi che Dio ti stia preparando per una vita da sposato, ma nel frattempo sei nella condizione perfetta per servirlo come un discepolo senza legami! Pianifica il tuo presente e il tuo futuro, considerando che la tua priorità è essere un pescatore di uomini, un discepolatore, un servitore.

 

SE SEI SPOSATO, cosa vuol dire essere un marito o una moglie che vive per ciò che è eterno? 

Comincia con la consapevolezza che la vita di coppia richiede impegno e costanza. Bisogna darsi da fare e lavorare sodo su se stessi per essere sicuri che il matrimonio rispecchi la descrizione che Dio ha ispirato in Efesini 5. 

Il comportamento del marito deve riflettere quell’amore capace di donarsi completamente, lo stesso che Cristo ha per la chiesa. L’atteggiamento della moglie invece deve esprimere la gioiosa sottomissione della chiesa a Cristo. 

In un mondo dove il matrimonio viene preso sempre più sottogamba e disprezzato, la condotta santa dei coniugi credenti è un esempio abbagliante di questa prospettiva eterna. 

Se sei un marito, hai il sacro compito, che Dio ti ha affidato, di essere un esempio di Cristo per la famiglia, ma hai anche la responsabilità di aiutare tua moglie a diventare anche lei più simile all’immagine di Cristo. Il modo in cui la tratti e ne parli dovrebbe sorprendere positivamente coloro che vi osservano. 

Se sei una moglie, la tua collaborazione con tuo marito e la tua gioiosa sottomissione a lui dovrebbero attirare altri al Signore. In un mondo dove la sottomissione è una parolaccia, una donna che cura di più il suo cuore piuttosto che il suo look, sarà una luce irresistibile. 

E visto che il matrimonio biblico è un’immagine del rapporto di Cristo con la chiesa, è l’intenzione di Dio che la famiglia cristiana sia anche un richiamo a diventare seguaci di Cristo. 

Una coppia unita nell’amore e negli intenti è efficace per raggiungere un mondo che necessita del meraviglioso messaggio del vangelo. La loro è una casa ospitale, aperta, accogliente e invitante che rispecchia valori eterni.

 

E I FIGLI? È tragico vedere quanti figli di credenti abbandonino la fede molto presto. In passato poteva succedere che smettevano di farsi vedere in chiesa intorno ai 18 anni. Oggi tanti genitori si arrendono prima, sentendosi incapaci di trasmettere ai propri figli l’importanza della fede in Cristo.

Si sa, ogni ipocrisia, ogni fede finta è presto smascherata in casa. 

Per anni i figli hanno osservato il modo in cui i genitori si sono trattati in privato, l’atteggiamento con cui partecipano alla vita della chiesa e come si rapportano agli altri. 

Non gli è sfuggito con quanta facilità la vita cristiana prendeva il secondo posto rispetto al lavoro e alle attività in generale. I figli hanno imparato, senza che i genitori glielo abbiano mai detto a parole, che la scuola, lo sport, la musica e tante attività erano più importanti della vita spirituale. 

La mancanza di coerenza prima, e  della correzione poi, con conseguenze amorevolmente giuste per le disubbidienze, hanno eroso ogni traccia di insegnamento del vangelo nei figli. 

Se ami tuo figlio, non lasciare la tua responsabilità di inculcargli valori eterni solo agli insegnanti della scuola domenicale. Il tuo lavoro non è più importante della vita eterna di tuo figlio. 

 

FINO A QUANDO? Essere discepoli non finisce mai! Vivere per ciò che eterno comincia nel giorno in cui ci convertiamo a Cristo e finirà il giorno in cui il Signore ci prenderà con sé. 

Non saremo mai perfetti, non riusciremo sempre a fare la cosa giusta, ma il fatto che sia difficile non può essere il motivo per cui smettiamo di impegnarci. 

Troppo radicale? Spero che non lo pensi sul serio. L’Apostolo Paolo cosa ti direbbe? Ma ancora più: cosa direbbe il Signore? 

  

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La VOCE maggio 2019

L’estate sta arrivando, e cominciamo a guardarci allo specchio, tirando le somme… I vestiti invernali, fino a ieri, riuscivano a coprire una moltitudine di cene di troppo, ma ora le magliette estive gridano decisamente vendetta.

In ogni modo, pancia o non pancia, con l’arrivo della bella stagione la cosa che colpisce di più è quanti tatuaggi si vedono in giro. 

E se una volta si poteva intuire molto sulla personalità di qualcuno per il disegno inciso sulla sua pelle, oggi non è più così. 

Quello dei tatuaggi è un fenomeno trasversale, e in forte crescita. Atleti, professionisti, farmacisti, banchieri, operai e casalinghe, tutti appassionatamente tatuati. Chi con discrezione, e chi in modo eccentrico.  

In Italia la richiesta dei tatuaggi è aumentata del 60% (il dato è del 2018 e si riferisce all’anno precedente). Secondo l’Istituto Superiore di Sanità ci sono 7 milioni di tatuati, il 13% della popolazione dai 12 anni in su.

Una ricerca, condotta dall’Iss e dall’Istituto Ricerche e Analisi di Mercato, Ipr Marketing, ha rilevato che i tatuaggi sono più diffusi tra le donne (13,8% delle intervistate) rispetto agli uomini (11,7%), e che gli uomini preferiscono tatuarsi braccia, spalle e gambe, mentre le donne soprattutto schiena, piedi e caviglie. 

In Italia ormai si spendono circa 300 milioni all’anno per i tatuaggi, ed è un settore in crescita costante. Si dice che sia una grande opportunità professionale per i giovani.

Davanti a questa realtà, noi come credenti come dovremmo reagire? 

Alcuni si fanno dei tatuaggi addirittura come testimonianza…

Cosa ne dice la Bibbia?

UNA FEDE TATUATA?

Ormai, a far nascere discussioni e tensioni tra giovani e genitori, è il turno dei tatuaggi. Per un ragazzo, non essere tatuato lo fa sentire escluso dalla cerchia di coetanei, il suo gruppo di riferimento.

Argomento che le nostre chiese non hanno dovuto affrontare in passato, tuttora è poco trattato, sia per inesperienza che per paura di offendere. 

Le questioni sulla moda sono sempre delicate; qual è il confine tra buon gusto e trasgressivo? E tra decoroso e volgare? Quanti orecchini è giusto portare? C’è differenza tra maschile e femminile?

Una volta erano i marinai, i carcerati e le persone dei ceti più bassi a farsi tatuare. Era quasi un segno di riconoscimento. Oggi non è più così. Adesso si vedono tatuaggi dappertutto, perfino nelle nostre chiese. 

Alcune guide di chiese hanno imposto un divieto categorico sui tatuaggi, citando dei versetti dal libro di Levitico e Deuteronomio. “Non vi farete incisioni nella carne per un morto, né vi farete tatuaggi addosso. Io sono il Signore” (Levitico 19:28).

“Voi siete figli per il Signore vostro Dio; non vi fate incisioni addosso e non vi radete tra gli occhi per un morto, poiché tu sei un popolo consacrato al signore tuo Dio. Il Signore ti ha scelto, perché tu sia il suo popolo prediletto fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra” (Deuteronomio 14:1,2).

C’è da dire però che da uno studio più attento del testo, emerge che il divieto in questi versetti non era legato tanto ai tatuaggi o alle incisioni sul corpo di per sé, ma al motivo per cui si facevano. I disegni sulla pelle facevano parte del rituale legato alle credenze sui morti. Il popolo di Dio non poteva, e non doveva, in nessun modo adeguarsi alle religioni pagane.

Nella nostra società, benché alcuni disegni e certi simboli con i quali le persone scelgono di decorare i loro corpi, potrebbero avere un significato intimo e profondo per il portatore, non si può certo affermare che siano tutti per forza simboli religiosi pagani. Per tanti sono solo una moda.

Ma allora, se non c’è un divieto assoluto nella Bibbia, il credente è libero o no di farlo? Oppure ci sono dei principi biblici che si applicano anche ai tatuaggi e ai piercing? Come faccio a sapere se sia bene o male a fare una certa cosa?

Cominciamo con i principi generali.

La ricerca della saggezza 

Un credente che vuole onorare Dio in ogni cosa, fa bene a valutare attentamente le sue scelte alla luce delle Scritture.

La Bibbia parla spesso del fatto che come figli di Dio noi lo rappresentiamo; dovremmo somigliare a Cristo nell’essere e nell’apparire, e il nostro modo di vivere dovrebbe essere un invito aperto agli altri a seguire il Signore. Perciò dobbiamo essere saggi.

“Egli mi insegnava dicendomi: «Il tuo cuore conservi le mie parole; osserva i miei comandamenti e vivrai; acquista saggezza, acquista intelligenza; non dimenticare le parole della mia bocca e non te ne sviare; non abbandonare la saggezza, ed essa ti custodirà; amala, ed essa ti proteggerà; il principio della saggezza è: Acquista la saggezza; sì, a costo di quanto possiedi, acquista l’intelligenza; esaltala, ed essa t’innalzerà; essa ti coprirà di gloria quando l’avrai abbracciata; essa ti metterà sul capo un fregio di grazia, ti farà dono di una corona di gloria»” (Proverbi 4:4-9).

Da questi versetti si capisce che non abbiamo la saggezza come dote naturale, ma che la dobbiamo ricercare a costo di quanto possediamo. La saggezza spirituale viene solo dalla Parola di Dio. Seguire e attenersi ai principi biblici è una grande protezione contro scelte di vita impulsive e imprudenti. 

Una cattiva consigliera

I tatuaggi oggi sono un fenomeno di moda. Per quanto le mode possano sembrare durature, passano con il tempo. Farsi trascinare dalle tendenze del momento perché gli altri le esaltano e le abbracciano, non è qualcosa di conveniente.

“Lo zelo senza conoscenza non è cosa buona; chi cammina in fretta sbaglia strada” (Proverbi 19:2).

È tipico dei giovani appassionarsi a cose anche in modo esagerato; fa parte del normale sviluppo della personalità. A quell’età molte idee sembrano geniali, e si tende a seguirle e a prendere decisioni senza riflettere troppo sulle eventuali conseguenze, e sulle loro reazioni a catena. Al momento tutto sembra divertente e innocuo, ma poi il tempo dimostrerà se lo è davvero.

Un tatuaggio è permanente. Non è come un taglio di capelli, che poi ricrescono. Fatto con leggerezza, sarà per sempre un monumento a un istante di poca saggezza. Le tecniche per cancellare i tatuaggi esistono, ma sono costose e dolorose. E possono causare problemi di pigmentazione della pelle.

Tu sei un tempio

Alcuni credenti mi hanno detto che, in fin dei conti, il corpo è loro e possono farne quello che vogliono. Ma è veramente così? La Bibbia dice: no, proprio no!

“Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:19,20).

Ecco la risposta a questa idea.

Il nostro corpo non è nostro, ma proprietà di Dio. Qualunque cosa ne facciamo, non può essere determinata esclusivamente dai nostri desideri e dalle preferenze, senza prendere in considerazione la volontà di Dio.

Una gloria pubblica

Portare gloria a Dio è un concetto che conosciamo, ma ci siamo mai fermati a riflettere su cosa significhi veramente? È solo una questione di comportamento, delle nostre azioni e del nostro parlare? O va oltre questo, coinvolgendo anche il nostro apparire, che tutti vedono, e le motivazioni del nostro cuore che solo Dio conosce? 

“Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio; così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, cercando non l’utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati” (1 Corinzi 10:31-33).

In questo versetto, portare gloria a Dio non è qualcosa che faccio per conto mio, nella mia cameretta; piuttosto ha a che fare con gli altri. La nostra vita deve essere un invito alle persone a conoscere il Dio che ci ha salvato e che ha cambiato la nostra vita. Quello che facciamo, o non facciamo, incide sul nostro essere testimoni (o ostacoli!) per la salvezza di chi ci osserva. Apparire è tanto importante, quanto essere.

Rappresentanti di un altro

Se prendiamo sul serio il motivo per cui siamo sulla terra, tutto ciò che facciamo come credenti ha un fine specifico. 

È facile pensare che vivere tranquilli e realizzare i nostri desideri senza peccare siano i nostri compiti principali. Non ammetteremmo mai che cerchiamo la nostra soddisfazione, ma le nostre decisioni lo dimostrano.

“Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio. Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2 Corinzi 5:20,21).

Come credenti non rappresentiamo noi stessi. Rappresentiamo Cristo, colui che ci ha salvati, ha cambiato la nostra vita e ci ha affidato un compito di valore eterno.

Simboli di cosa?

Chi si fa tatuare sceglie il disegno che più gli piace, con un significato personale. Disegni come i dadi, l’ancora, la coccinella, il gufo, certi simboli cinesi e altri sono considerati dei portafortuna. La fortuna con i credenti non c’entra niente: noi serviamo il Dio sovrano, l’onnipotente Creatore dell’universo che con la sua parola governa e sostiene tutto e si cura di noi.

Invece i simboli tribali e celtici, per quanto possano essere belli e intriganti, non si può avere la certezza che non provengano da qualche religione pagana. Infatti ne hanno una forte connotazione, innegabile solo per lo stile del disegno.

Tatuaggi che rappresentano la malavita e il carcere sono una categoria particolare, riservata a un tipo di persone che si identificano con quella vita.

Esistono anche moltissimi tatuaggi con temi religiosi, ma esprimono più che altro misticismo e spiritualità alieni alla fede biblica, e lanciano messaggi vaghi e confusi.

Qualche credente mi ha assicurato che i suoi tatuaggi non vogliono esprimere niente di particolare, ma sono solo disegni senza un significato profondo. Il problema è che il tuo tatuaggio, che per te non simboleggia un bel niente, lancia comunque dei messaggi che forse non vorresti dare. Non sai mai come gli altri interpreteranno il disegno che sfoggi. 

È un segno di maturità, di persona responsabile, porsi delle domande serie prima di disegnare sul corpo qualcosa di permanente.

Il rischio di essere fraintesi

“E ci risiamo!” dirai, “Ma che diritto hanno gli altri di criticare o di imporre le loro opinioni su me? Se pensano male il problema è il loro, non mio.”

L’apostolo Paolo avvisa i credenti: “Esaminate ogni cosa e ritenete il bene; astenetevi da ogni specie di male” (1 Tessalonicesi 5:21,22).

Ogni credente ha il dovere di esaminare e di valutare attentamente le proprie scelte e le azioni che compie. Non solo per quello che concerne la sua persona, ma anche per come influiscono sugli altri, e come potrebbero essere percepite, perché nell’esaminarci, dobbiamo tenere in considerazione quello che pensano gli altri. 

Infatti, la versione Diodati traduce la parola “specie” più correttamente con la parola “apparenza”. 

Astenersi da ogni apparenza di male vuol dire non dare adito a nessuno di pensare il male. Ricordati che la tua vita deve attirare le persone al Signore, e non essere un deterrente per la loro salvezza.

Perché lo fai?

La risposta più comune è: “Perché mi piace!” 

Ma dimmi, ti piacerebbe ugualmente se non andasse di moda, o se solo poche persone lo facessero? 

Trovo interessante che i tatuaggi non piacevano praticamente a nessuno prima che attori, cantanti e atleti cominciassero a sfoggiarli. Infatti, anche portare gli orecchini da parte dei maschi è una moda relativamente recente, lanciata da personaggi famosi.

“Il vostro ornamento non sia quello esteriore, che consiste nell’intrecciarsi i capelli, nel mettersi addosso gioielli d’oro e nell’indossare belle vesti, ma quello che è intimo e nascosto nel cuore, la purezza incorruttibile di uno spirito dolce e pacifico, che agli occhi di Dio è di gran valore” (1 Pietro 3:3,4).

Se pensi che questo versetto si riferisca alle donne, hai ragione. Ma con il degrado degli usi e costumi della società, la vanità non colpisce solo le donne: anche gli uomini sono soggetti allo stesso peccato di pensare che l’esteriore sia più importante di quello che siamo dentro. 

Dio, però, si aspetta che il nostro esteriore rifletta la trasformazione interiore del nostro cuore, dei nostri atteggiamenti, delle nostre parole e delle nostre reazioni – la trasformazione duratura per l’opera dello Spirito Santo.

Chi non ha sostanza interiore, ricorre all’esteriore per distrarre l’attenzione da quello che conta!

Libertà che scandalizza?

Subiamo tutti delle pressioni per adeguarci a quello che fanno le persone intorno a noi. La Bibbia ci avverte di non essere influenzati dal mondo. La verità è che lo siamo molto facilmente. L’apostolo Paolo, parlando del mangiare, ha scritto cose molto utili.

“Non distruggere, per un cibo, l’opera di Dio. Certo, tutte le cose sono pure; ma è male quando uno mangia dando occasione di peccato. È bene non mangiare carne, né bere vino, né fare cosa alcuna che porti il tuo fratello a inciampare. Tu, la fede che hai, serbala per te stesso, davanti a Dio. Beato colui che non condanna se stesso in quello che approva. Ma chi ha dei dubbi riguardo a ciò che mangia è condannato, perché la sua condotta non è dettata dalla fede; e tutto quello che non viene da fede è peccato” (Romani 14:20-23).

In altre parole: in ogni cosa, tieni in mente come il tuo comportamento influenza i credenti. Se non si è veramente sicuri di fare bene, è meglio astenersi. Spesso, infatti, in particolare nel caso dei tatuaggi, si tratta di una decisione poco ponderata.

Adescati dalla moda

Se sei come me, ogni tanto ti capita di aprire il guardaroba e trovare dei vestiti, o delle scarpe talmente buffe e strane che ti sembra incredibile di averle mai indossate. Sono l’emblema della mutevole e capricciosa moda. 

Non è un segreto che lo scopo degli stilisti e delle grandi case di moda sia spingerti a spendere per sentirti a posto. L’intera macchina della moda non è alimentata da proponimenti spirituali, ma mondani. Non è la gloria di Dio che cerca, ma l’effimera soddisfazione umana.

“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà” (Romani 12:1,2).

Se dipendesse solo da te...

Quello che scrive Geremia è così chiaro! “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; chi potrà conoscerlo?” (Geremia 17:9).

Per quanto possiamo essere convinti di aver ragione, il cuore ci inganna e abbiamo bisogno di essere consigliati dalle persone più mature, che vogliono il nostro vero bene.

I ragazzi devono prestare attenzione a quello che insegnano i loro genitori, i credenti a quello che insegnano le guide della chiesa. E non solo. Bisogna anche considerare il nostro ambiente di lavoro. 

La cosa più saggia da fare è ascoltare i consigli delle persone che Dio ha messo nella nostra vita. “La via dello stolto è diritta ai suoi occhi, ma chi ascolta i consigli è saggio” (Proverbi 12:15).

Moltissimi si sono pentiti di essersi tatuati. Alcuni si pentono subito, altri scoprono che quei disegni che sembravano tanto affascinanti quando il corpo era sodo, ora sono raggrinziti, e hanno perso tutto il fascino e il significato che potevano avere quando se li erano fatti fare.

È vero, la Bibbia non vieta espressamente i tatuaggi. Ma alla luce dei versetti che abbiamo visto, ogni credente ha molto su cui riflettere prima di farsi tatuare. I principi espressi si applicano praticamente a ogni aspetto della vita. I genitori hanno la responsabilità di proteggere i figli da decisioni avventate e poco attente. 

Ormai ce l’ho, cosa fare?

Se riconosci che quando ti sei fatto tatuare l’hai fatto per motivazioni sbagliate, puoi chiedere perdono a Dio. Ha promesso di perdonarci i peccati, piccoli o grandi che siano. La sua grazia è immensa.

“Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1 Giovanni 1:9).

Non sta a noi giudicare il cuore degli altri. A noi tocca dimostrare a tutti la stessa grazia che Dio ha verso di noi, e proporci di vivere ogni situazione secondo i principi biblici. 

Prima di qualunque decisione, domandati:

Porta un chiaro beneficio? “Perché in passato eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Comportatevi come figli di luce – poiché il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità – esaminando che cosa sia gradito al Signore. Non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre; piuttosto denunciatele” (Efesini 5:8-11).

È utile? “Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla” (1 Corinzi 6:12).

È necessario? “Ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa è utile; ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri” (1 Corinzi 10:23,24).

Mi fa assomigliare a Cristo? “Chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò” (1 Giovanni 2:6).

È consono alla buona testimonianza? “Comportatevi con saggezza verso quelli di fuori, ricuperando il tempo” (Colossesi 4:5).

È una scelta eccellente? “E prego che il vostro amore abbondi sempre più in conoscenza e in ogni discernimento, perché possiate apprezzare le cose migliori, affinché siate limpidi e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di frutti di giustizia che si hanno per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” (Filippesi 1:9-11).

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La VOCE aprile 2019

Se ti è mai capitato di parlare con dei Testimoni di Geova, può darsi che a primo impatto la loro fede non ti sia poi sembrata tanto diversa dalla tua. 

Offrono di studiare la Bibbia con te, e vogliono farti pensare che credono alle stesse cose a cui credi tu. Solo in un secondo momento escono fuori le contraddizioni e che la loro dottrina è contraria alla Parola di Dio.

Come loro, ci sono anche giovani ben curati, tutti in camicia bianca e cravatta, che girano in bicicletta a due a due. Si presentano come “anziani della chiesa dei mormoni”. 

Anche loro vorrebbero che tu li considerassi cristiani, ma se confronti la loro dottrina con la Bibbia, noterai che attribuiscono un significato diverso ai termini biblici. 

Succede la stessa cosa con la chiesa Cattolica: spesso il significato che dà alle parole – grazia, redenzione, giustificazione – non è quello biblico.

Ora, ho citato queste tre religioni solo come un esempio tra tante. Non voglio assolutamente dubitare della buona fede di nessuno, ma c’è da dire che non basta “essere sicuri” del proprio credo, non basta neanche essere ortodossi e ligi alla propria dottrina. 

E dirò di più: morire per la propria fede non prova che sia vera, se la fede si basa su una bugia. 

Credere in una cosa non vera vuol dire avere solo una speranza illusoria. E una falsa speranza è molto pericolosa.

Sai che c’è stato un evento che se non fosse avvenuto la fede sarebbe vana? Anche la tua. È scritto nella Bibbia.

UNA RELIGIONE CHE NON MANTIENE QUELLO CHE PROMETTE È UNA PERICOLOSA PERDITA DI TEMPO!

È “oppio dei popoli” come ha detto Karl Marx. Non ha nulla di concreto da offrire se non quello di anestetizzare le coscienze e attutire in qualche modo l’amarezza della vita.

Quello che fa la differenza tra il vangelo e tutte le religioni del mondo, incluse le cosiddette cristiane, è l’evento senza il quale ogni fede sarebbe solo una farsa. 

È la resurrezione corporale di Gesù Cristo. 

È il fondamento della fede cristiana e regge ogni altra dottrina. Da essa dipende tutto il resto.

I Testimoni di Geova, i mormoni e i cattolici dicono tutti di credere nella resurrezione, ma a guardare bene, le loro idee non si allineano perfettamente con il testo biblico.  

Ma l’apostolo Paolo scrive: “Se Cristo non è stato risuscitato, vana è la vostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Corinzi 15:17).

Se la resurrezione fosse un’invenzione, un’allegoria da intendere solo in senso astratto, o insufficiente a giustificare chi crede, allora i cristiani sarebbero davvero i più miserabili tra gli uomini. 

Ma se è veramente avvenuta, ha delle implicazioni eterne di grandissima importanza. 

L’inevitabilità della morte e l’incognito su quello che succede dopo, ha afflitto la mente umana sin dal principio. Ogni religione tenta di rispondere a quest’afflizione universale, e spera di portare una misura di serenità a quel momento che, prima o poi, toccherà ogni uomo.

Ma come sarà l’al di là: l’oblio, il grande vuoto, il nirvana, la reincarnazione…? 

Solo Gesù ha fatto sapere la verità sul destino eterno dell’uomo, perché è l’unico che è tornato in vita dopo la morte per non morire mai più. 

La resurrezione di Cristo è il caposaldo della fede. È menzionata ben centoquattro volte nel Nuovo testamento. Non è una leggenda. Non è una dottrina parentetica.

Infatti, quando gli apostoli dovettero scegliere un nuovo apostolo al posto di Giuda, questi doveva essere un testimone oculare della vita, morte e resurrezione di Gesù: “Bisogna dunque che tra gli uomini che sono stati in nostra compagnia tutto il tempo che il Signore Gesù visse con noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno che egli, tolto da noi, è stato elevato in cielo, uno diventi testimone con noi della sua risurrezione” (Atti 1:21,22).

Non solo doveva essere stato presente al battesimo di Gesù al Giordano, aver cioè visto e sentito l’approvazione di Dio, ma doveva aver seguito Cristo, osservato i suoi miracoli e ascoltato i suoi insegnamenti, e, cosa essenziale, doveva essere testimone della sua resurrezione dai morti. 

Alla pentecoste fu proprio questo il punto chiave della predica di Pietro: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamo testimoni. Egli dunque, essendo stato esaltato dalla destra di Dio e avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, ha sparso quello che ora vedete e udite” (Atti 2:32,33).

Quell’uomo che i Giudei avevano fatto uccidere era risorto e ora, tramite gli apostoli, esortava loro a riconciliarsi con Lui, altrimenti avrebbero subito le giuste conseguenze del loro peccato. 

Questo è stato anche il messaggio che l’apostolo Paolo predicava ovunque andasse. In Atti 17:31, dichiara a tutti che Gesù è colui che giudicherà ogni uomo e donna, e che Dio ne ha dato prova sicura risuscitandolo dai morti. 

Più tardi, difendendosi davanti re Agrippa, tutta la sua difesa verteva sulla realtà del Cristo risorto che aveva incontrato sulla via di Damasco (Atti 26). 

La dottrina della resurrezione è talmente rilevante che NON si può essere salvati senza credere che Gesù sia risorto corporalmente. 

“Questa è la parola della fede che noi annunciamo; perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso»

“Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato” (Romani 10:8-13 grassetto dell’autore).

È inutile invocare un morto. Un morto non può fare nulla per l’uomo. La salvezza del credente dipende anche dalla certezza nel cuore che Gesù è risuscitato per opera di Dio.

A questo punto è importante definire cosa s’intende col credere nella resurrezione di Gesù. È solo un atto di fede in qualcosa che si spera sia vera? È una resurrezione simbolica? È un mistero che bisogna saper interpretare? 

Oppure ci sono delle prove inconfutabili con cui tutti devono fare i conti, a meno che non rifiutino qualsiasi evidenza?

Gesù aveva predetto la sua morte e resurrezione 

“Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti fare un segno». Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti” (Matteo 12:38-40).

In un’altra occasione “i Giudei allora presero a dirgli: «Quale segno miracoloso ci mostri per fare queste cose?» Gesù rispose loro: «Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!» 
“Allora i Giudei dissero: «Quarantasei anni è durata la costruzione di questo tempio e tu lo faresti risorgere in tre giorni?» 
“Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 
“Quando dunque fu risorto dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che egli aveva detto questo; e credettero alla Scrittura e alla parola che Gesù aveva detta” (Giovanni 2:18-22).

Gli scribi e i farisei avevano capito benissimo che Gesù parlava del suo corpo, perché il giorno dopo la sua sepoltura volevano prendere delle precauzioni contro un possibile inganno. 

“L’indomani, che era il giorno successivo alla Preparazione, i capi dei sacerdoti e i farisei si riunirono da Pilato, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quel seduttore, mentre viveva ancora, disse: “Dopo tre giorni, risusciterò”. Ordina dunque che il sepolcro sia sicuramente custodito fino al terzo giorno; perché i suoi discepoli non vengano a rubarlo e dicano al popolo: “È risuscitato dai morti”; così l’ultimo inganno sarebbe peggiore del primo». 
“Pilato disse loro: «Avete delle guardie. Andate, assicurate la sorveglianza come credete».
 “Ed essi andarono ad assicurare il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia” (Matteo 27:62-66).

È sorprendente, però, che quando le guardie tornarono e raccontarono ai capi del popolo quello che era successo alla tomba, questi non li hanno presi per bugiardi, ma hanno comprato il loro silenzio con i soldi (Matteo 28:11-15). 

Per i discepoli era diverso. A loro il Signore aveva detto tutto più chiaramente: “Poi cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, e fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse” (Marco 8:31).

L’aveva predetto più volte proprio perché questo evento avrebbe costituito la base della fede dei suoi discepoli. Infatti è interessante notare che mentre gli scribi e i farisei avevano capito molto bene le parole di Gesù, i suoi discepoli le compresero solo dopo la sua resurrezione.

Come si fa a sapere che c’è stata davvero la resurrezione?

L’apostolo Paolo presenta tre motivi per cui possiamo essere certi che Cristo sia veramente risorto.

“Vi ricordo, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato, che voi avete anche ricevuto, nel quale state anche saldi, mediante il quale siete salvati, purché lo riteniate quale ve l’ho annunciato; a meno che non abbiate creduto invano. Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; che apparve a Cefa, poi ai dodici. Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all’aborto; perché io sono il minimo degli apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio io sono quello che sono; e la grazia sua verso di me non è stata vana; anzi, ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Sia dunque io o siano loro, così noi predichiamo, e così voi avete creduto” (1 Corinzi 15:1-11).

Il primo motivo è la fede della chiesa primitiva. I primi cristiani erano totalmente persuasi da questa verità. Erano stati contemporanei di Gesù, alcuni l’avevano anche conosciuto personalmente, e avevano potuto parlare con i testimoni oculari della sua resurrezione. 

Non avrebbe avuto alcun senso convertirsi, se Gesù fosse rimasto morto. Non ci sarebbe stata nessuna buona notizia a cui credere. La morte e la resurrezione di Cristo SONO la buona notizia. Non c’è salvezza senza la resurrezione, e senza di essa ogni presentazione del vangelo è incompleta.

Il secondo motivo è che la resurrezione non era un’invenzione di Paolo. Era stata predetta chiaramente non solo da Gesù, ma anche dalle Scritture, cioè dall’Antico testamento che gli ebrei conoscevano molto bene.

Il Salmo 22 e il capitolo 53 di Isaia contengono profezie straordinariamente dettagliate sulla morte di Gesù, ma il Salmo 16, versetto 10, aveva predetto che Gesù sarebbe risorto: “…poiché tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione.”

Il terzo motivo è che molti hanno visto Gesù risorto. Se fossero state solo un paio di persone a vederlo, e se fosse apparso solo una volta, potremmo sospettare che sia stata una specie di allucinazione collettiva. Ma non è così!

Per quaranta giorni Gesù risorto ha vissuto in mezzo ai suoi discepoli. Lo hanno visto, ascoltato, hanno toccato le sue cicatrici e mangiato con lui. 

Questi incontri, proprio come con i discepoli sulla via di Emmaus, hanno provocato una trasformazione radicale in questi uomini e donne “ai quali anche, dopo che ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi vedere da loro per quaranta giorni, parlando delle cose relative al regno di Dio” (Atti 1:3).

A sostegno dell’onestà del racconto biblico c’è anche il fatto che non tutti erano pronti a credere tanto facilmente. 

Toma, uno dei discepoli, aveva dubbi e non si sarebbe convinto senza prove: “Or Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò»” (Giovanni 20:24,25).

Quando poi lo vide, Gesù gli mostrò le sue mani e il suo costato e Toma, sopraffatto da questo gesto d’amore nei suoi confronti, non poté che esclamare: “Signore mio e Dio mio!” (v. 28).

Vedere Gesù risorto ha convinto i discepoli dell’identità del loro Maestro: è colui che sosteneva di essere, l’unigenito eterno Figlio di Dio, l’unico che può perdonare e salvare l’uomo dalla perdizione eterna. 

Questa fede in Gesù, morto e risorto, è quella che ha dato la forza ai credenti di tutti i tempi di affrontare ingiurie, offese, persecuzioni e morte per la loro testimonianza.

L’apostolo Paolo stesso, che prima della sua conversione andava in giro per imprigionare e maltrattare coloro che avevano creduto in Cristo, afferma che avere incontrato Cristo risorto cambiò la sua fede e lo scopo della sua vita. Da persecutore è diventato perseguitato e martire.

Pensare che siano stati pronti a soffrire maltrattamenti e a morire per difendere delle favole o per aver avuto allucinazioni è illogico. Chi mai morirebbe per un ideale che non offre alcun tornaconto?! 

I primi cristiani preferivano morire piuttosto che rinnegare la fede nella resurrezione. È lo stesso anche per noi oggi?

Che tipo di fede è una che non riconosce la resurrezione di Cristo?

Paolo ce lo dice chiaramente: “…se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede… e se Cristo non è stato risuscitato, vana è la vostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati. Anche quelli che sono morti in Cristo sono dunque periti” (1 Corinzi 15:14,17,18).

La grande illusione
- Se Cristo non è stato risuscitato, lui era un impostore e ha mentito su tutto.
- Se Cristo non è stato risuscitato, la Bibbia non è vera e non è degna di fiducia.
- Se Cristo non è stato risuscitato, credere in Lui non ha senso.
- Se Cristo non è stato risuscitato, non c’è stato nessun sacrificio per i nostri peccati.
- Se Cristo non è stato risuscitato, tutti sono ancora irrimediabilmente sotto il giudizio di Dio.
- Se Cristo non è stato risuscitato, tutti i predicatori cristiani sono dei falsi testimoni.
- Se Cristo non è stato risuscitato, quelli che sono morti da credenti sono perduti.

Ma Gesù è risorto! E credere alla sua resurrezione ha dei benefici inestimabili.

1. La resurrezione dimostra chi è Gesù veramente

L’apostolo Paolo scrive: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sottoterra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre” (Filippesi 2:5-11). 

Gesù è stato “dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti” (Romani 1:4). La resurrezione ha svelato la vera identità di Gesù. 

2. La resurrezione conferma che possiamo essere perdonati

Risuscitando Gesù dai morti, Dio ha dimostrato di aver accettato il suo sacrificio per i nostri peccati. Egli è stato l’Agnello di Dio che ha tolto il peccato del mondo. Se Gesù fosse stato un peccatore, sarebbe morto per i suoi peccati senza poter risorgere, perché la morte è la giusta condanna del peccato.

Ora, invece, abbiamo l’immensa gioia di poter confessare a Lui i nostri peccati e sapere con certezza che Egli è fedele e giusto da purificarci da ogni iniquità (1 Giovanni 1:9).

Riconciliati con Dio tramite il sacrificio di Cristo, nessuno di noi deve portare il peso del proprio peccato. Non esiste un peccato troppo grave da non poter essere perdonato. 

3. La resurrezione toglie la paura della morte

Odio la morte! Sono stato a troppi funerali. Ho dovuto vivere e assistere al dolore che la separazione dai propri cari produce. Ancora oggi provo dolore perché sento la mancanza del sorriso e della saggezza di mia mamma. La morte tocca piccoli e grandi, non c’è nessuno immune a essa.

Paolo scrive: “«O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?» Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge; ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo” (1 Corinzi 15:55-57).

La resurrezione di Gesù dimostra che la morte è stata sconfitta, e la morte per i credenti è solo un passaggio alla vita eterna.

4. La resurrezione ha portato una speranza meravigliosa

Per la sua resurrezione, ogni promessa di Gesù è ancora valida per il credente: “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che io vado a prepararvi un luogo? Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi; e del luogo dove io vado, sapete anche la via” (Giovanni 14:1-4).

Se non fosse risorto, come farebbe a prepararci un posto in cielo! Pensaci: vivremo alla presenza di Dio, lo conosceremo ogni giorno di più, non ci saranno più lacrime ma solo gioia eterna!

5. La resurrezione assicura il ministero di Cristo oggi

Solo un Cristo risorto può compiere il ministero che il Signore Gesù svolge nei cieli davanti a Dio in favore dei suoi. È il nostro sommo sacerdote. Non solo ci sta preparando una casa per la nostra eternità, ma vive per sempre per intercedere per noi. Possiamo avvicinarci a Dio attraverso la sua opera. 

“Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, stiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno. Egli invece, poiché rimane in eterno, ha un sacerdozio che non si trasmette. Perciò egli può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, dal momento che vive sempre per intercedere per loro” (Ebrei 4:14-16; 7:24,25)

Che meravigliosa certezza: in Cristo abbiamo un mediatore che simpatizza con noi, che conosce la nostra fragilità e ci soccorre quando ne abbiamo bisogno. Infatti, si comporta proprio come un avvocato difensore per noi contro ogni accusa. “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; e se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto” (1 Giovanni 2:1).

Siamo privilegiati a godere oggi del ministero che Gesù fa per noi ogni giorno. Senza la sua grazia e il suo sostegno saremmo persi.

6. La resurrezione di Cristo è garanzia della nostra resurrezione

“Ma ora Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti. Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati” (1 Corinzi 15:20-22).

Nei versetti da 35 a 57 Paolo spiega che, grazie alla resurrezione di Cristo, anche noi risusciteremo in un corpo nuovo, glorificato e eterno. Anche questa è davvero una buona notizia!

No! Non ho una fede vana!

La resurrezione è un fatto storico, veramente avvenuto. Abbiamo un Salvatore vivo e onnipotente. Perciò non mi vergogno di parlare di lui agli altri. Anzi, lo devo fare, perché Gesù morto e risorto è l’unica speranza per ogni persona che conosco.

“Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore” (1 Corinzi 15:50).

Non è una perdita di tempo, quindi, proprio in questa stagione di pasqua, che per molti è poco di più di una colomba o un coniglietto di cioccolato, parlare loro di un Gesù risorto. È fondamentale e opportuno.

 

La verità sulla morte di Gesù

LA VERITÀ SULLA MORTE DI GESÙ

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La VOCE marzo 2019

Condividere tutta la verità con amore

Come ti sentiresti se scoprissi che a un tuo caro, colpito da una grave malattia, fosse somministrato solo un placebo? Immagino la tua rabbia. Faresti di tutto per assicurargli la più efficace e appropriata terapia. 

Il placebo è una sostanza farmacologica senza alcun principio attivo. L’unico “effetto” che può avere è tranquillizzare, mentalmente, pazienti ipocondriaci, malati immaginari che non necessitano di alcuna cura reale.

Eppure, tante volte, come credenti  rischiamo di offrire alle persone un placebo al posto della verità.    

Il peccato è come una malattia mortale. Ha effetti devastanti nella vita, ma nell’eternità si vedono chiaramente le sue inesorabili conseguenze. 

Hai mai pensato che il tuo modo di parlare della fede potrebbe essere nocivo? 

Non c’è posto per il placebo nell’evangelizzazione. Credere alla verità porta risultati eterni meravigliosi. Ma un messaggio non pienamente conforme al vangelo è un inganno che ha effetti disastrosi.

Dobbiamo seguire l’esempio di Gesù. Lui non ha ammorbidito, né falsato il messaggio per non turbare la gente. Non cercava seguaci, ma discepoli!

IL VANGELO È UNA BUONA NOTIZIA 

La salvezza non costa nulla, ma seguire Gesù costa tutto. Anche se pare una contraddizione, è una verità biblica. 

Spesso si evita di parlare del costo di seguire Gesù, per non scoraggiare persone dal convertirsi. Il problema è che entrambi gli aspetti, il dono gratuito della salvezza e il costo del discepolato, sono indispensabili per una presentazione corretta e completa del messaggio di salvezza.

La buona notizia del vangelo sta nel fatto che Dio ha risolto il nostro problema del peccato e del conseguente giusto ed eterno giudizio su esso, cioè la morte. La salvezza non costa nulla, perché Gesù ha pagato tutto. 

“Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8,9). 

Dal momento che la salvezza è totalmente gratuita, qualunque pensiero, o azione, che insinui l’idea di dover fare qualcosa, o comportarsi in un certo modo per essere salvati, ne perverte il messaggio, rendendolo un vangelo falso, che non salva, bensì maledice.

Ogni tentativo per meritarsi la salvezza è un affronto alla persona e all’opera di Cristo. Sarebbe come dire che Gesù abbia fallito e che la Parola di Dio sia falsa, quando afferma che Gesù, “reso perfetto, divenne per tutti quelli che gli ubbidiscono autore di salvezza eterna… Perciò egli può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, dal momento che vive sempre per intercedere per loro… Infatti con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati” (Ebrei 5:9; 7:25; 10:14). 

IL VANGELO È ESCLUSIVO

Gesù ha affermato: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). E l’apostolo Paolo ribadisce: “Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1 Timoteo 2:5).

Non ci sono altre vie per arrivare a Dio. Non ci sono altri mediatori. Credere in un’entità, una forza superiore, in un dio diverso da quello biblico, affidarsi ai santi, vivi o morti, è un falso vangelo che non salva affatto. 

“Credo in Dio a modo mio” è un’affermazione presuntuosa e pericolosa, perché non trova fondamento in quello che Dio dice nella sua Parola.

IL VANGELO RIVELA LA VERITÀ SUL TUO PECCATO

Fin qui, le persone che frequentano le nostre chiese e si considerano credenti, per la maggior parte, sono d’accordo con tutto quello che abbiamo detto. 

Ma c’è ancora un aspetto di cui dobbiamo parlare, senza il quale la presentazione del vangelo non sarebbe completa: seguire Cristo ha un costo alto. 

Alcuni lo tralasciano pensando che, casomai, sarebbe meglio parlarne dopo che l’altro avrà accettato il nostro discorso. 

Gesù, Dio incarnato, ha fatto tutto perfettamente. Studiando il suo modo di evangelizzare, sembra quasi che volesse scoraggiare le persone a seguirlo. 

Il suo messaggio consisteva in alcuni elementi fondamentali costanti. Non ha presentato la buona novella prima di aver sollecitato una consapevolezza profonda del peccato e delle sue conseguenze. 

Anche Giovanni Battista, che era stato l’apripista del Salvatore, ha predicato contro il peccato, denunciando le opere malvagie delle persone che venivano da lui. La chiamata al battesimo di ravvedimento era la preparazione perfetta per la buona notizia che Gesù avrebbe portato loro. 

Giovanni ha perso la testa a causa del suo parlare chiaro e diretto. A nessuno piace essere rimproverato per quello che fa, tantomeno essere definito un peccatore, e mai e poi mai sentirsi condannato eternamente all’inferno.

Oggi rischieremmo molto meno di Giovanni, ma saremmo sicuramente additati come fondamentalisti radicali, senza amore. È più facile parlare di soluzioni ai problemi, consigliare su matrimoni difficili, o proporre nuove amicizie piuttosto che proclamare quella fede che richiede un dietro front totale allo stile di vita e alle credenze che si avevano prima.

Invece avvertire le persone delle conseguenze del loro peccato è un vero atto di amore. Le loro coscienze potrebbero essere sollecitate dallo Spirito Santo e portate al ravvedimento. Altro che placebo!

IL VANGELO NON TEME DI ALIENARE LA GENTE

Quando Gesù era sulla terra, i suoi fratelli si stupivano che lui non volesse rendersi noto a tutto il mondo (Giovanni 7:2-7). Le folle lo seguivano già. Sarebbe bastato poco per tenersele buone: parole dolci e promesse di felicità. 

Lui invece, alzava la posta in gioco esigendo una separazione netta dal peccato e dal mondo e una resa totale alla sua autorità. 

Era perentorio anche nel definire cosa vuol dire credere in lui.

Ha detto: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua. Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Matteo 10:32-39).

Seguire Gesù non è un hobby. Vuol dire vivere una vita santa, moralmente pura e onesta. Questo può creare frizione e divisione con la famiglia, con gli amici. 

Essere cristiani significa morire a se stessi. Significa anche essere pronti a morire fisicamente per amore di Gesù. 

La croce che dobbiamo portare non sono le difficoltà della vita (quelle ce l’hanno anche i non credenti), ma sono le ostilità e le persecuzioni nei nostri confronti, in quanto seguaci di Cristo. 

“Ricordatevi della parola che vi ho detta: «Il servo non è più grande del suo signore». Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo ve lo faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato” (Giovanni 15:20,21).

L’amore perfetto di Dio fa parte del vangelo, ma la buona notizia diventa molto più bella quando si è pienamente consci della propria condizione di peccatori perduti.

IN TUTTO QUESTO, quando presentiamo il vangelo biblicamente, abbiamo un perfetto alleato nello Spirito Santo: “Quando sarà venuto, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato” (Giovanni 16:9-11).

È compito nostro parlare di Gesù, ma non vogliamo essere colpevoli di portare un messaggio poco chiaro, o incompleto.

Preghiamo che Dio usi l’opuscolo preparato anche quest’anno (vedi qui sotto) per toccare le vite delle migliaia di persone, che sono malati terminali intorno a noi. 

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Il foglio evangelistico "TI LANCIO UNA SFIDA" è una presentazione chiara e semplice del problema più grave dell'uomo e la soluzione di Dio. Come tutti i nostri opuscoli evangelistici, anche questo può essere personalizzato con un tuo messaggio che inseriamo nello spazio predisposto.

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La VOCE febbraio 2019

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SCANDALO IN CHIESA – Guglielmo risponde


 

Perché dovrei accontentarmi?

Essere schizzinosi della chiesa che frequentiamo non è un lusso che ci possiamo permettere in Italia. Con più di 30.000 tra paesi e cittadine senza alcuna presenza evangelica, dobbiamo considerarci fortunati se abbiamo una chiesa da frequentare!

Il problema è che, nel piano biblico, la chiesa ha una funzione tutt’altro che marginale per un cristiano. Per crescere sano e diventare maturo in Cristo ogni credente deve identificarsi nel corpo del Signore, la chiesa: deve vivere, partecipare, servire e confrontarsi con i suoi fratelli in fede. 

Può capitare di trovarsi isolati da altri credenti, anche per periodi piuttosto lunghi, ma è un’eccezione, non la norma prevista da Dio per i suoi figli.

Oggi possiamo ovviare a questo isolamento: basta uno smartphone e puoi seguire in tempo reale riunioni e conferenze delle chiese in qualunque parte del mondo. Questo però non potrà mai sostituire una chiesa locale.  

I primi credenti si riunivano assiduamente per ascoltare l’insegnamento degli apostoli. 

A Tito e Timoteo, Paolo scrive di mettere in ordine non chiese virtuali, ma locali e reali, con problemi veri. I membri delle chiese si conoscevano tra loro. Conoscevano le loro guide. Se qualcuno veniva ripreso, si sapeva da chi. Sapevano chi s’impegnava a seguire la sana dottrina e chi invece faceva compromessi con la sua fede.

Oggi, in alcune chiese si rischia davvero di non sapere non solo chi ne faccia parte o chi siano le guide, ma anche quali siano i principi biblici che ogni membro deve seguire. Assomigliano a quei club dove si entra e si esce senza un grande senso di appartenenza e tantomeno di responsabilità. 

Sai riconoscere una chiesa sana? 

Chiese di legno, opere di fieno, fede di paglia...

1. Una chiesa sana è formata da veri credenti

Normalmente, in una chiesa ci sono sempre persone  in visita, che non ne fanno parte ufficialmente, e persone che frequentano anche regolarmente ma che non hanno mai fatto professione pubblica di fede. Non sono loro la chiesa locale. 

Una chiesa locale sana è formata da un gruppo di persone che sono chiaramente dedite alla crescita spirituale personale e quella degli altri.

“...come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza, se davvero avete gustato che il Signore è buono. Accostandovi a lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini, ma davanti a Dio scelta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pietro 2:1-5).

Il primo segno di una chiesa sana è che sa riconoscere i veri credenti, si impegna a farli crescere, ed evangelizza coloro che non lo sono.

Si preoccupa anche di coloro che hanno fatto una professione di fede, ma non fanno progressi. Hanno assunto le abitudini e i comportamenti “giusti” per fare parte dello “stare insieme”, ma sono privi di frutti chiari di cui la Bibbia parla.

2. È dedita alla predicazione espositiva

La predicazione espositiva per molti è diventata sinonimo di un sermone arido e noioso. La colpa è dell’uso improprio dei termini. E dei cattivi esempi di predicazione pseudo espositiva. 

Il difetto è da attribuire non al metodo, ma all’applicazione d’esso. 

La migliore definizione di predicazione espositiva è la lettura del testo biblico, la sua spiegazione e la sua applicazione alla vita pratica. 

Non è un’invenzione del nostro tempo. Guarda quello che ha fatto Esdra: “Essi leggevano nel libro della legge di Dio in modo comprensibile; ne davano il senso, per far capire al popolo quello che leggevano” (Neemia 8:8).

Commentare le Scritture versetto per versetto è noioso e sterile solo nella misura in cui l’oratore non si è impegnato nel prepararsi. Pensieri sconnessi e confusi non fanno onore alla Parola di Dio.

Una chiesa sana si riconosce dall’insegnamento basato esclusivamente sulla Bibbia, non sulle opinioni o tradizioni del predicatore o della chiesa. 

L’insegnamento della Parola di Dio non è solo un aspetto della vita di chiesa, ma ne è il cuore stesso. Dev’essere costante, assolutamente biblico e praticamente applicabile alla vita dei credenti.

3. Ha guide qualificate

Lo status di alcune chiese è nel migliore dei casi confusionale, nel peggiore totalmente antibiblico.

Quando Paolo ha scritto a Tito che “Per questa ragione ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine nelle cose che rimangono da fare, e costituisca degli anziani in ogni città, secondo le mie istruzioni” (Tito 1:5), è ovvio che le chiese non erano in ordine finché non avrebbero avuto guide qualificate. 

Le guide hanno un compito fondamentale: insegnare la sana dottrina, predicare la Parola di Dio, sorvegliare la chiesa e proteggerla da attacchi interni ed esterni, e pregare per ogni suo membro.

Troppe chiese moderne si accontentano di avere delle guide non qualificate o di non averle affatto. Sembra quasi un motivo di vanto per alcune. Come se avessero trovato nella “democrazia” la soluzione migliore. 

Altre chiese, senza grandi criteri eleggono e mandano via le guide come meglio credono. Poi ci sono anche guide che si dimettono, eppure continuano a dirigere la chiesa. 

La chiesa non è sana quando accantona, per scelta o per ignoranza, i chiari principi biblici riguardo a chi può guidare una chiesa locale.

4. Ha convinzioni dottrinali chiare e bibliche

“La dottrina divide, ma l’amore unisce.” L’avrai sentita anche tu questa banalità. È il sentimento di tutti gli ecumenisti: bisogna essere uniti ad ogni costo.

Dottrina però non è una parolaccia. Significa semplicemente insegnamento. La Bibbia ne è piena.

Senza insegnamento, senza dottrina, non sapremmo nulla su Dio.

Dare insegnamento è lo scopo principale della Parola di Dio. Di conseguenza la dottrina deve essere l’elemento centrale della vita di chiesa.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Timoteo 3:16,17).

Nei versetti che seguono quelli citati, l’apostolo Paolo comanda a Timoteo di continuare a predicare la Parola, cioè di indottrinare i credenti.

Una chiesa dove non c’è chiarezza dottrinale non produrrà mai credenti completi, forti, ben preparati, con convinzioni bibliche solide. 

5. Cura e discepola i credenti 

Curare i credenti non è lo stesso che avere dei programmi! Certe chiese sono forti nel proporre “6 sedute per i nuovi convertiti”, programmi speciali per “approfondimento spirituale”, conferenze di consacrazione ecc. L’intento è certamente nobile. Ma discepolare un credente va ben oltre questi incontri mirati, ma limitati.

È difficile che corsi e programmi intensivi da soli riescano a produrre un cambiamento concreto e duraturo. Passata l’eccitazione iniziale le persone rimangono deluse e scoraggiate. Tutto ritorna a un’apatia generale. 

Curare i credenti è un’occupazione costante che durerà fino a che il Signore non sarà tornato o la persona non sarà andata in cielo. 

Discepolare è trasmettere a qualcuno, a parole, ma soprattutto con l’esempio, come si vive da credenti in famiglia, in chiesa, a lavoro, nelle relazioni, nel tempo libero, nelle varie fasi d’età – in gioventù e in vecchiaia, in salute e in malattia. Richiede spirito di sacrificio, sia da parte del discepolo che del discepolatore.

Forse pensavi che il modello biblico potesse funzionare quando la società era diversa e meno frenetica della nostra. Il comando di Gesù però non è legato a un periodo storico particolare, bensì al concetto di avere una chiesa sana che funzioni!

“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:19,20).

Noi tutti siamo chiamati a camminare l’uno accanto all’altro, il più maturo con altri meno preparati. Siamo chiamati a fare discepoli, indipendentemente da programmi, manuali e corsi speciali. Semplicemente, come credenti che si aiutano a vicenda nel cammino cristiano. 

E, come Gesù ha promesso, abbiamo in Lui il miglior tutore possibile per fare questo!

6. Evangelizza

Questo è un aspetto che molte chiese si prodigano a fare regolarmente. Quello che distingue una chiesa sana, però, è che parla di Gesù in modo esclusivamente biblico.

L’Italia è un paese difficile, evangelizzare è un compito arduo e per molti versi lo si fa senza grandi risultati. Spinti dal desiderio di avvicinare le persone si è tentati di adottare stratagemmi e metodi che hanno poco o niente di biblico. 

Per esempio, ho sentito parlare di metodi di evangelizzazione dove il neofita si converte quasi senza saperlo. Comincia a frequentare un gruppo, partecipa alle discussioni, si trova d’accordo con quello che si dice. Così, senza neanche aver vissuto coscientemente la transizione, abbraccia un nuovo stile di vita senza traumi o crisi di coscienza.

Non stiamo cercando di aumentare gli adepti alla nostra fede! Non usiamo parole e promesse ingannevoli per attirare persone alla nostra religione! 

Un messaggio diverso da quello storico, ortodosso, non è affatto una buona notizia, ma un messaggio che condanna le persone all’inferno.

Una chiesa sana invece predica il vangelo con tutti i suoi elementi: il peccato, l’ira di Dio, l’inferno, il ruolo unico di Cristo nella salvezza, la sua resurrezione e il suo riconoscimento come Signore e salvatore della chiesa. Il vangelo non va per il sottile, perché si tratta del destino eterno delle anime.

Il tutto condito dall’amore e dalla profonda riconoscenza per l’opera di Dio nella nostra vita.

7. Ama e difende l’unità

Forse è l’aspetto più sottovalutato nelle chiese. L’amore non è una bella aggiunta. È un elemento fondamentale e necessario.

Professare la fede senza mostrare amore tangibile per tutti i credenti non è solo una contraddizione, ma una vera e propria eresia.

“Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello” (1 Giovanni 1:20,21).

Sapevi che l’intensità del tuo coinvolgimento e la tua relazione con gli altri credenti è un elemento fondamentale della tua testimonianza? “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

Sottovalutare l’unità della chiesa è un grande ostacolo alla crescita dei credenti e della chiesa stessa. Le incomprensioni, le chiacchiere, i sospetti, i rancori, le invidie non sono attraenti. E non restano nascosti a lungo.

Dio ci comanda di amare i nostri nemici. Perché ameresti meno un tuo fratello con cui passerai l’eternità?

8. Osserva gli ordinamenti biblici

Il battesimo e la cena del Signore.

Il battesimo per immersione è l’espressione visibile della salvezza. In esso, in ubbidienza alle Scritture, il credente adulto testimonia la propria identificazione con la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Il battesimo in sé, senza una testimonianza chiara della propria salvezza e di una nuova vita, non ha alcun valore. 

La cena del Signore commemora anch’essa la morte e la resurrezione del Signore, ma laddove il battesimo esprime la salvezza, la cena del Signore ha a che fare con la santificazione del credente. 

È un momento di esame di se stessi. 

Non deve parteciparvi nessuno che ha del peccato inconfessato nella sua vita. 

Chi mangia del pane e beve del vino dimostra di avere una relazione trasparente e coerente con Dio e con gli altri membri della comunità. Infatti è scritto: “Ora ciascuno esamini se stesso, e così mangi del pane e beva dal calice” (1 Corinzi 11:28).

Ogni chiesa sana osserva regolarmente questi ordinamenti. 

E ogni credente deve essere spronato a rivalutare regolarmente il proprio cammino col Signore.

9. Riconosce i doni dei credenti e li aiuta a svilupparli 

Una chiesa sana è un luogo dove i credenti sono incoraggiati a scoprire i loro doni e a metterli a servizio di Dio per il beneficio di tutti.

“Da lui tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare se stesso nell’amore” (Efesini 4:16).

 “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri. Se uno parla, lo faccia come si annunciano gli oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (1 Pietro 4:10,11).

I doni glorificano Dio, non il credente!

10. Pratica la disciplina biblica

I problemi dovuti al peccato ci saranno sempre. Anche nelle chiese sane.

In una chiesa sana, infatti, affrontare il peccato è una priorità, perché la chiesa deve rispecchiare, per quanto possibile, la santità e la purezza di Dio. 

Nella famiglia di Dio non c’è posto per inquisizioni e processi per la condanna; il peccato deve essere affrontato biblicamente. 

Lo scopo non è quello di squalificare qualcuno, ma di correggere e aiutare i veri credenti a vivere in un modo che glorifichi Dio.

La disciplina biblica mira a ristabilire il credente che ha peccato alla comunione col Signore e con la chiesa, e a mettere in guardia gli altri a non sottovalutare la gravità e le conseguenze del peccato.

“Se tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d’ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano” (Matteo 18:15-17).

Le istruzioni bibliche sono chiare. Le guide di una chiesa sana le seguono fedelmente.

11. La chiesa sana promuove la preghiera

La vita di una chiesa sana non è facile, anzi è impossibile senza l’aiuto del Signore. Perciò la preghiera deve essere la forza dietro ogni decisione e ogni compito svolto nella chiesa.

È la responsabilità delle guide pregare regolarmente per tutti i ministeri e i membri della chiesa – se l’hanno fatto gli apostoli nella chiesa primitiva, quanto più ne abbiamo bisogno noi oggi!

Tempi di preghiera, con tutta la comunità unita e partecipe, caratterizzano la vita di una chiesa sana. La preghiera promuove una consapevolezza di dipendenza da Dio e la necessità di trovare nel Signore le proprie forze. 

Credenti sani pregano gli uni per gli altri anche in privato, e questo consolida la comunione e alimenta l’amore genuino gli uni per gli altri.

Queste undici caratteristiche 

non sono un modo per fare una graduatoria delle chiese, ma sono le qualità bibliche che distinguono quei credenti e quelle chiese che vogliono onorare Dio in ogni cosa. 

Se non si è sempre attenti a tenere vive queste caratteristiche, si rischia di sostituire la centralità di Dio con l’uomo. La chiesa diventa un covo di uomini carnali, che cercano di prevalere gli uni sugli altri, e dove la soddisfazione umana diventa più importante del voler piacere a Dio. 

La Bibbia ci ha messo in guardia proprio su questo: “Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole” (2 Timoteo 4:3,4).

È l’istantanea dei nostri tempi. 

Tenere alta la Parola di Dio, onorarla e osservarla in tutto e per tutto non appaga la carne. 

I compromessi sono in agguato. L’apostasia comincia con le guide che non fanno il loro dovere, e con le congregazioni insoddisfatte che non conoscono le Scritture e non hanno il timore di Dio. 

Quando è doveroso cercare una nuova chiesa

Se frequenti una chiesa che mostra chiari segni di non essere sana, cosa dovresti fare?

- Prima di tutto assicurati che le tue valutazioni siano corrette, non puoi sempre sapere tutto quello che avviene “dietro le quinte”.

- Prega regolarmente e con serietà per le guide e per gli altri credenti.

- Sii d’esempio ai credenti nel parlare, nel comportamento, nell’amore, nella fede, nella purezza, nell’attaccamento alle Scritture.

- Attenzione a non parlare male di nessuno, e non fare nulla che possa dividere la chiesa, o nuocere a qualcuno.

- Se hai delle perplessità fondate, parlane con le guide in privato. Fallo con rispetto senza belligeranze, pronto ad ascoltare. 

- Evita i rancori.

- È possibile che dopo aver fatto questo arrivi il momento di lasciare la chiesa. Se le motivazioni sono giuste, lo farai anche a costo di dover fare sacrifici personali per trovare una chiesa che, se non altro, aspira a essere una chiesa sana.


—Guglielmo Risponde—

Scandalo in chiesa

Caro Guglielmo, 

Succede nella nostra chiesa una cosa che mette molti di noi a grande disagio. O, forse, sarebbe più vero dire che ci causa grande dolore.

Due fratelli abbastanza importanti e noti non vanno d’accordo fra di loro. Anzi, più di una volta hanno litigato davanti ad altri e per lunghi periodi non si sono rivolti neanche la parola e salutati.

Cosa possiamo fare? Tutti hanno un po’ paura di intervenire per non peggiorare le cose, o per non offendere nessuno.

—Senza nome, per favore

 

Il vostro problema non è da poco. 

Le liti fra fratelli, anche fra fratelli anziani, come anche fra sorelle, fra marito e moglie credenti o fra giovani della chiesa, sono fatti gravissimi, se non vengono risolti bene e presto.

Anzi, per dire la verità, queste situazioni rientrano pienamente in ciò che la Bibbia chiama “scandali” e, perciò, vanno affrontate e risolte biblicamente.

In Luca, capitolo 17, versetti 1-4, gli scandali fra credenti sono messi direttamente in relazione al rifiuto di perdonare un altro credente. 

Il grande guaio dello scandalo è che non fa male soltanto a chi lo crea, ma alla chiesa e in particolare ai “piccoli”, che potrebbero essere i più giovani nella chiesa, o per età o perché convertiti da poco, oppure i credenti più deboli in senso generale.

Lo “scandalo” (significa letteralmente “trappola”) induce altri a peccare, o scusandosi perché chi è più maturo di loro pecca pure, o perché sono indotti a prendere, poco saggiamente, le parti di uno o dell’altro litigante.

Cosa fare? Anzi tutto, riconoscere che si tratta di uno stato di peccato che avviene all’interno della chiesa e che, perciò, non può essere tollerato, pena la vita spirituale della chiesa e il contagio di questo o di altri peccati fra gli altri membri.

Paolo ha raccomandato a quelli che sono “spirituali”, che camminano, cioè, in comunione col Signore, di cercare di rialzare chi è stato sopraffatto da un peccato, operando con grande umiltà per garantirsi di non rimanere coinvolto e invischiato nel peccato stesso.

Quando, però, ciò non porta alla soluzione del problema o del pentimento di chi pecca e alla sua restaurazione in comunione con l’altro fratello e con la chiesa, bisogna usare dei metodi appropriati, che sono la condanna pubblica del peccato e, se ciò non portasse alla soluzione, alla disciplina di chi vive in questo peccato.

Uno dei problemi che impediscono la soluzione può essere che tutte e due le persone coinvolte possono credere di avere ragione e che il torto sia dell’altra. E qui la chiesa, o chi cerca di favorire una soluzione, può sentirsi forzato a fare da giudice, per condannare il colpevole e assolvere l’innocente.

Anche quando fosse chiaro che uno dei contendenti ha sbagliato più dell’altro, o è più intransigente nel rifiutare la rappacificazione, è molto improbabile che l’altro abbia seguito con cura tutti i passi dettati dalla Bibbia per risolvere i problemi fra fratelli. 

O che non abbia, a sua volta, offeso o interpretato male l’altro e permesso ai suoi sentimenti e emozioni di trascinarlo in peccato. 

Perciò, il problema potrà essere risolto soltanto quando tutte e due le parti riconoscono la propria colpa, o nella situazione che ha dato inizio alla lite o nel suo sviluppo. Poi, quando ciascuno avrà chiesto umilmente perdono, senza avanzare difese, e avrà perdonato di cuore l’altro e con parole appropriate, il problema non dovrà essere solo considerato risolto, ma anche messo da parte per sempre.

Ma, se una delle persone, fosse anche quella che si ritiene la meno colpevole, non partecipasse con completa sincerità a questo processo, rifiutasse di chiedere perdono e di perdonare, la chiesa non avrebbe scelta. Deve avvenire ciò che Gesù ha inteso dicendo: “Sia per te come il pagano e il pubblicano”, cioè non più in comunione con la chiesa.

L’unico scopo della chiesa, nella sua decisione è, ovviamente, la gloria di Dio, la benedizione della chiesa e il ricupero dei fratelli coinvolti.

Hai scritto che tutti hanno paura di procedere alla soluzione del problema, per un motivo o per un altro. Ma, malgrado il fatto che sia difficile affrontarlo con decisione e, se necessario, pubblicamente, i veri risultati negativi del trascurarlo sono molto più seri per la chiesa che non i possibili risultati tristi del confronto diretto.

Sappi che questa tentazione ad accettare il peccato in seno alla chiesa, è una prova comune, e purtroppo diffusa, sofferta da molti altri fratelli. 

Ma Dio è fedele e vi darà una via d’uscita. Forse sarà una via difficile, ma senz’altro benedetta, se seguita in umile e piena sottomissione a Lui.

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