log in

La Voce del Vangelo

La VOCE aprile 2022

 

Negli anni ho visitato molte chiese e ho conosciuto credenti in diverse parti del mondo. Entrati un po’ più in confidenza, alcuni mi hanno confessato il proprio risentimento verso la loro assemblea. La cosa strana, a prescindere se la comunità che frequentavano fosse grande o piccola, progressista o tradizionalista, l’accusa era sempre la stessa: in questa chiesa non c’è amore! 

A volte era una sola persona a essere arrabbiata, ma altre volte lo erano intere famiglie o gruppi coalizzati contro qualcuno o qualcosa che non andava nella chiesa. 

Uno sdegno e un disprezzo che nel tempo hanno consumato queste persone, portandole al punto di scagliare le loro pesanti accuse e andar via dalla chiesa sbattendo la porta. Non hanno mai dato agli accusati possibilità di difesa: processo terminato e verdetto sentenziato! E alla fine hanno tagliato ogni contatto con i fratelli. In molti casi hanno agito senza un confronto aperto con le guide della chiesa, ritenute le prime colpevoli. 

Chi lascia la propria comunità in questo modo non è quasi mai disposto a mettersi in discussione né si chiede quanto amore abbia sparso lui nella vita di chiesa. E ciò è molto triste.

È facile accusare gli altri della mancanza d’amore nei nostri confronti ma, in fin dei conti, sappiamo davvero cosa significa amarsi nella chiesa? 

Come posso misurare l’amore dei fratelli per me? Centra forse il bisogno di sentirmi considerato e importante, oppure voglio solo che si facciano le cose come voglio io?

Gesù ha detto: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

È un bel trampolino di lancio questo versetto! Sta dicendo, senza mezzi termini, che il mondo ostile che ci giudica, ci riconoscerà discepoli di Cristo dal modo in cui ci amiamo tra fratelli. 

Ma le parole di Gesù dovrebbero far riflettere anche noi aiutandoci a esaminarci: credo in Gesù? Sono un suo discepolo? Frequento una chiesa di discepoli? Qual è la mia caratteristica più evidente? E quella della mia chiesa?

L’apostolo Giovanni, che nel suo Vangelo è presentato come il discepolo che Gesù amava, ha scritto sotto ispirazione dello Spirito Santo uno dei versetti più belli sull’amore di Dio: “Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16). 

Sono parole che hanno attirato migliaia di persone a Dio, e sono tanto care ai credenti. 

D’altro canto, Giovanni ha anche scritto: “Chi dice: «Io l’ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo. Da questo conosciamo che siamo in lui: chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò (1 Giovanni 2:4-6).

Un discepolo deve camminare come ha camminato il suo maestro Gesù! 

La chiesa locale dovrebbe essere formata da individui che credono col cuore alla Parola di Dio e sono imitatori genuini di Cristo. Ma non è sempre così. Non tutti quelli che si professano cristiani sono salvati, e non tutti quelli che dicono di essersi convertiti vivono in sottomissione alla signoria di Cristo. 

A volte la colpa è della predicazione poco chiara sul fatto che Gesù è il Signore e che noi credenti siamo suoi servi (leggi schiavi). Messaggi superficiali tendono a produrre più simpatizzanti che conversioni. Ma un messaggio che non predica pentimento, ubbidienza e consacrazione non è un messaggio biblico. 

Se tutti i credenti camminassero come Gesù, le chiese sarebbero il fulcro dell’amore sulla terra. Ogni chiesa locale sarebbe un’oasi d’amore, totalmente diversa da tutto quello che il mondo offre.

A complicare tutto è il fatto che ogni credente si trova a un punto diverso di maturità, sia spirituale che caratteriale. Non siamo quindi sempre amabili, portiamo ancora con noi mentalità e modi di fare che non piacciono a Dio e che dovremmo abbandonare. Siamo spesso orgogliosi, permalosi, egocentrici e poco amorevoli. È un problema che riguarda tutti, e che non si risolve in un istante. 

Da un certo punto di vista, dire che c’è poco amore nelle chiese è vero, dato che sono formate da persone propense al peccato. Ma non possiamo usarlo come un pretesto per continuare nella nostra carnalità.

Dio ci ha destinati a essere simili al suo Figlio anche nei nostri affetti, nelle ambizioni e negli atteggiamenti. 

L’apostolo Paolo ci ricorda com’è l’amore di Cristo che noi dobbiamo imitare:

“Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione” (Romani 5:6-11).

Gesù non cercava persone facili da amare. Noi, forse, proviamo empatia e pietà davanti a scene di sofferenza, dove vediamo vittime o persone che hanno bisogno di aiuto. Ma il suo era un amore mirato, era verso persone cattive, indegne, incapaci di fare il bene. Quelle che avrebbero reagito male a ogni suo gesto e parola tradendolo e rifiutando l’amore vero e compassionevole di Dio.

Qualsiasi giustificazione alla nostra mancanza d’amore nella chiesa è invalidata dall’obbligo che abbiamo di imitare l’amore di Gesù. 

Non abbiamo alternative, perché le parole di Cristo sono chiare e perentorie:

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio. Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga; affinché tutto quello che chiederete al Padre, nel mio nome, egli ve lo dia. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Giovanni 15:12-17).

Gesù ci ha scelti e ci ha amati quando non eravamo amabili. Ci chiama suoi amici e ci comanda di amarci gli uni gli altri. Amare Gesù implica che dobbiamo ubbidire a questo suo comando: amarci gli uni gli altri.

A questo punto dovremmo chiederci se siamo veramente pronti a ubbidire a Gesù in tutto.

La risposta per me non è complicata, ma è difficile da applicare quando penso al comando “devo amare i fratelli”! 

Non posso sbattere la porta e andarmene con aria altezzosa come giudice degli altri credenti. Anzi, se lo faccio, do prova della mia stessa incapacità di amare, il ché mi squalifica automaticamente dal giudizio veritiero sullo stato spirituale della mia chiesa.

Siamo amici di Gesù, ovvero suoi discepoli se facciamo le cose che Lui ci comanda e il suo comando è di amare i fratelli nella fede. Non ne possiamo fare a meno. 

Ma cosa significa in pratica amare i credenti? 

Vuol dire salutarli con piacere e baciarli quando si entra in sala? Oggi il Covid l’ha reso impossibile. 

Vuol dire invitarci a casa a turno? I due anni di pandemia ci hanno disabituati anche a quello! A essere onesti, già da prima non si vedeva molta ospitalità tra le famiglie, schiacciate dagli impegni e dalle responsabilità fuori e dentro casa — e le porte di alcune case sono rimaste ermeticamente chiuse. 

Ognuno ha una sua idea su come l’amore debba essere espresso in una chiesa, ma quello che conta, però, è la spiegazione che dà Dio su come fare.

“L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno” (1 Corinzi 13:4-8).

Questa è la definizione di questo amore, ed è importante notare che riguarda esclusivamente il nostro atteggiamento verso le persone davanti a noi. Non importa come sono, conta piuttosto il modo in cui le avviciniamo, cosa pensiamo di loro, il modo in cui camminiamo accanto a loro. 

Questo passo non è la nostra cartina tornasole per giudicare l’amore degli altri e promuoverli o bocciarli, ma ci serve per valutare il nostro amore, i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti. Effettivamente il problema grande non sono gli altri, ma siamo noi!

Quante volte abbiamo sbattuto la porta dentro di noi, nel nostro intimo, senza uscire dalla sala.

Delusi dall’atteggiamento nei nostri confronti, pensiamo di “amare” gli altri più di quanto loro amino noi. Ci mostriamo cordiali, ma lo facciamo a denti stretti e per pura formalità “evangelica”. 

Il Signore ci chiama a ravvederci e a esaminare i nostri cuori. 

Il problema più grande risiede proprio negli atteggiamenti, e non nelle azioni. Quando impariamo ad amare come Cristo ci ama, anche le nostre azioni saranno pure.

Questo non vuol dire che amare i credenti diventerà facile. E può essere pericoloso ignorare questa dura realtà. Se amare non fosse difficile non servirebbero tanti versetti che ne parlano. 

La difficoltà persiste perché siamo limitati e perché non tutti siamo amabili.

Paolo ci ricorda: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Filippesi 2:2-4).

Scrive ancora agli Efesini: “Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti” (Efesini 4:1-6).

Alla chiesa di Colosse dice ancora: “Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione” (Colossesi 3:12-14).

È evidente quanto dobbiamo ancora lavorare con l’aiuto di Dio su noi stessi. 

Il nostro carattere deve essere trasformato, le reazioni carnali devono sparire e devono essere rimpiazzate da quelle bibliche, che piacciono a Dio e lo onorano, che riflettono il nostro cammino nelle orme di Cristo.

Dio deve sviluppare in noi tutte quelle virtù che Paolo elenca nell’ultimo passo citato, perché spesso le persone, già difficili da amare, a loro volta non ci amano come dovrebbero. Che bisogno ci sarebbe di essere pazienti, misericordiosi, benevolenti e pronti a perdonare se non esistessero credenti difficili, se nessuno ci facesse dei torti?

Prendiamo, per esempio, il perdono. A tutti piace essere perdonati. Ogni volta che confessiamo i nostri peccati a Dio ci aspettiamo che Lui ci perdoni. Ci aspettiamo di essere perdonati anche per le offese che non ricordiamo e di cui non abbiamo coscienza, perché Gesù è morto per tutti i nostri peccati, passati, presenti e futuri. Ci aspettiamo di essere perdonati persino dei peccati che continuiamo a ripetere, quelli che in qualche modo abbiamo accettato come facenti parte del nostro carattere di cui non possiamo fare nulla. Da Dio ci aspettiamo un perdono continuo, ma quando tocca a noi…

Eppure, perdonare è indispensabile se si vuole avere un rapporto duraturo con qualcuno. Lo stesso vale per le nostre relazioni in chiesa che vanno protette.

Ma c’è anche un altro elemento fondamentale senza il quale non si può essere perfetti nell’amore. Lo troviamo nelle parole di Giovanni: “ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo” (1 Giovanni 2:5).

Non puoi essere un discepolo di Cristo senza conoscere la Parola di Dio e senza desiderare di metterla in pratica. Amare la chiesa comincia con l’ascoltare e osservare la Parola di Dio, perché le sacre Scritture producono nel vero discepolo un profondo desiderio di assomigliare a Cristo.

L’apostolo Paolo ha testimoniato: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte” (Filippesi 3:7-10).

Per il vero credente diventare come Cristo non è un vago desiderio irraggiungibile, ma una priorità assoluta. Solo chi è trasformato dalla Parola di Dio può veramente amare, può veramente essere usato da Dio.

È giusto farsi delle domande a questo punto:

  • Leggo la Parola di Dio regolarmente, e cerco di capire sempre meglio quale sia la volontà di Dio per me?
  • Per me è una priorità frequentare le riunioni della chiesa dove la Parola di Dio è insegnata accuratamente? Forse ci sono delle chiese che dovrebbero essere lasciate non per mancanza d’amore, ma per mancanza di un insegnamento sano!
  • Cosa faccio per ricordarmi quello che ascolto o leggo nella Parola di Dio per metterla in pratica? La lettera di Giacomo avverte che chi ascolta soltanto, senza che qualcosa cambi in lui, è un illuso. Illuso anche riguardo a cosa vuol dire amare ed essere amati.
  • Leggo dei buoni libri che mi aiutano nella mia crescita spirituale?

La mia capacità di amare è legata proporzionalmente alla mia disciplina nel diventare sempre più simile a Cristo: più tendo a questo obiettivo, più sarò capace di amare.

La Bibbia parla di fare del bene a tutti, ma specialmente a coloro che sono della famiglia di Dio. La chiesa è formata da persone molto diverse fra loro, adulti, bambini, anziani, persone singole, adolescenti, di diverse culture, etnie e anche di diverse possibilità economiche. Tutti questi individui, che normalmente nel mondo non avrebbero nulla in comune, sono unti soprannaturalmente da Dio stesso. Tutti i credenti fanno parte di un solo corpo, hanno un solo Spirito, hanno una sola mèta, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo e un solo Dio e Padre (Efesini 4:4,5).

Amarsi nella chiesa vuol dire prima di tutto curarsi spiritualmente a vicenda. La Parola di Dio afferma che lo Spirito Santo dà a tutti i credenti nella chiesa uno o più doni per la crescita spirituale degli altri (1 Corinzi 12 e Romani 12). Non solo Dio dà dei doni, ma ha già preparato le buone opere per ogni credente. In altre parole, il modo per eccellenza di amare i credenti nella chiesa sta nell’usare i doni che Dio ha dato per il beneficio e la crescita spirituale dei credenti. 

A volte nelle chiese i credenti affermano di non conoscere i loro doni, il che fa capire che non li stanno usando. Altri si sono convinti che se hanno un dono è solo per la loro crescita personale. Ma Pietro afferma sotto ispirazione di Dio: “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri. Se uno parla, lo faccia come si annunciano gli oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (1 Pietro 4:10-11).

Quando nelle chiese non si vede l’amore di Dio all’opera, non sarà forse perché i credenti sono troppo pigri nell’usare i doni che il Signore gli ha dato per la cura reciproca?

Una chiesa sana è formata da credenti veri che crescono nella conoscenza della Parola di Dio, che sono assidui nel diventare sempre più simili a Cristo, aiutandosi a vicenda. E quando ci sono problemi si affrettano a metterli a posto per non avere nulla che possa minare l’unità del corpo di Cristo.

In conclusione, la prossima volta che cominci a pensare che nella tua chiesa non c’è amore, prima di tutto esamina la tua vita. Stai amando bene, con lo stesso zelo e atteggiamento con cui Gesù ha amato te? Sei pronto a soffrire come ha sofferto lui per te? Probabilmente dovrai rivalutare le tue reazioni.

La tua chiesa dimostra un amore per la parola di Dio nell’insegnarla e applicarla con accuratezza? Se la risposta è sì, fidati dell’opera di Dio nella vita dei fratelli. 

Davide Standridge

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE novembre 2021

La nuova governatrice dello stato di New York, Kathy Hochul, in un suo discorso su coronavirus e vaccino, ha detto ai suoi sostenitori: 

“Indosso tutto il tempo la mia collana di persona vaccinata per affermare che ho fatto il vaccino. E voi tutti – lo so che siete vaccinati, voi siete quelli intelligenti – sapete che ci sono altri là fuori che non danno ascolto a Dio. Non fanno ciò che Dio vuole, e voi lo sapete e li conoscete. 
“Ho bisogno di voi, ho bisogno che voi siate i miei discepoli, che andiate a parlare [del vaccino], e che diciate che lo dobbiamo l’uno all’altro. Noi ci amiamo a vicenda. Gesù ci ha insegnato ad amarci gli uni gli altri. E in che altro modo possiamo mostrare questo amore se non prendendoci cura gli uni degli altri, al punto di dire: «Per favore, fatti vaccinare perché ti amo e voglio che tu viva!»?”

Tutt’altra cosa il governatore della Florida, Ron de Santis, che si è scagliato contro ogni imposizione sul vaccino, dicendo che sancirà multe fino a 5.000 dollari contro qualsiasi impresa e altra entità lavorativa, governativa e non, che impone il vaccino ai suoi impiegati.

La governatrice Hochul è cresciuta in una famiglia cattolica ed è a favore dell’aborto, mentre Ron de Santis, cattolico anche lui, si schiera invece contro l’aborto. Due persone di “fede”, ma con opinioni diametralmente opposte.

Questi due esempi dimostrano che anche dall’altra parte dell’oceano si acuiscono posizioni divergenti sul Covid e sui vaccini che, portate all’estremo, possono sfociare in violenza. 

L’opinione pubblica è fortemente divisa su questo argomento, ma lo sono anche le chiese e i credenti. 

Cosa sta succedendo? Come abbiamo fatto a farci trascinare in litigi e divisioni? E cosa dobbiamo fare per uscirne fuori?

LA MASCHERINA COPRE LA BOCCA MA NON FERMA LA LINGUA

“SIGNORE, poni una guardia davanti alla mia bocca, sorveglia l’uscio delle mie labbra.” Salmo 141:3

Davide, che ha scritto questo salmo, era consapevole che senza l’aiuto di Dio, dalla sua bocca potevano facilmente uscire parole e frasi che avrebbero fatto del male e offeso Dio. 

Anche Giacomo avverte del pericolo di parlare in modo avventato che porta conseguenze disastrose. Nella sua lettera dice che “la lingua è un piccolo membro, eppure si vanta di grandi cose. Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità. Posta com’è fra le nostre membra, contamina tutto il corpo e, infiammata dalla geenna, dà fuoco al ciclo della vita” (3:5,6).

Adesso che le opinioni sul coronavirus stanno infiammando gli animi di tutti, perfino i credenti stanno permettendo alle loro lingue di incendiare e rovinare rapporti coi fratelli in fede, con giudizi reciproci, provocando addirittura spaccature nelle chiese.

In effetti, la pandemia ha palesato quanto siano fragili l’unità e l’amore fra i credenti nelle chiese evangeliche.

Non è stato il coronavirus ad aver introdotto i dissensi nelle chiese, che purtroppo ci sono da sempre, ha solo contribuito a riportare alla luce problemi non affrontati e irrisolti. È triste dover ammettere che i litigi nelle chiese non sono una novità, e temo che non cesseranno finché saremo su questa terra.

DISTINTAMENTE DISCEPOLI 

Molti sono pronti a difendere le loro posizioni nelle controversie, citando versetti biblici come se fossero armi. 

Anche se alcune divisioni sono legittime, perché basate su chiare indicazioni delle Scritture, molte altre non lo sono affatto, anche perché è raro che una spaccatura sia dettata dall’amore. Le scissioni sono piuttosto eventi senza espressioni di affetto.

Ma l’amore nella chiesa non è un’opzione, come un’ideale da ricercare “quando possibile”. Al contrario, è un elemento fondamentale per la vita in comune dei veri cristiani.

Proprio perché Gesù lo sapeva ha dichiarato: “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri (Giovanni 13:34,35). 

Quando l’amore è manifestato e vissuto in modo pratico nella chiesa locale, si ha la dimostrazione che i veri cristiani sono anche veri discepoli. Non professano la fede soltanto a parole, ma la vivono in pratica nei rapporti. 

“Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:18-20).

Il piano di Dio è che chi crede in Cristo sia anche suo discepolo, e che, mettendo in pratica la sua Parola, evangelizzi altre persone invitando anche loro a diventare discepoli di Gesù. 

Ma non tutti quelli che fanno una professione di fede diventano automaticamente discepoli. Forse bisognerebbe spiegare bene che chiamarsi cristiano implica l’essere un discepolo di Cristo. Magari parliamo della salvezza senza menzionare che è strettamente legata al concetto di discepolato.

Fare di qualcuno un discepolo di Cristo vuol dire “insegnargli a osservare tutte quante le cose che Cristo ha comandate”. Il Signore ne ha comandate tante che fanno sì che la vita cristiana sia un cammino vero e proprio, ossia un progredire durante tutta la vita. Ma cosa dimostra che un cristiano è anche vero discepolo? L’amore fra i credenti ne è la prova. 

Non si tratta di un amore fatto di parole vuote, ma di fatti e gesti concreti che lo esprimono e lo fanno vivere. Ma troppo spesso le nostre parole tradiscono quello che cova effettivamente il nostro cuore, e così demoliamo con la nostra bocca rapporti che abbiamo costruito in anni.

Parliamo di evangelizzazione, altra prova di amore. Se nemmeno i bollettini dei morti per Covid, quotidianamente aggiornati, ci spingono a riflettere sulla realtà della morte, mi domando che cosa mai potrà farlo allora. 

Non si tratta solo di numeri. I morti sono morti davvero, e quelli che non erano diventati figli di Dio credendo in Cristo Gesù sono realmente andati all’inferno, indipendentemente dalla causa della loro morte. Davanti a tutto questo, il vero credente è impossibile che rimanga insensibile. 

La comunione tra i credenti è una testimonianza importante quanto la nostra vita privata. Per questo Gesù ha detto: “Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:20,21).

L’unità tra i veri cristiani è un mezzo che Dio ha stabilito per invitare le persone nel mondo a credere che Gesù è il Figlio di Dio, e che è venuto per salvare coloro che credono in lui.

L’unità nella chiesa e l’amore tra veri credenti riguardano te personalmente, e cominciano da te. 

Sono l’espressione visibile che Dio ci ha salvati. Ecco le parole dell’Apostolo Pietro chiare e solenni: 

“E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l’opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno; sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della fondazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi; per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio.
“Avendo purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore, perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio” (1 Pietro 1:17-23).

Avere conosciuto Cristo, essere quindi stati acquistati da lui e rigenerati, produce in ogni vero credente un intenso amore sincero, non forzato. L’ascolto della Parola di Dio e la sua applicazione pratica alla nostra vita dovrebbe spingerci ad amare gli altri proprio in questo modo. 

Ma il nostro amore deve anche essere messo alla prova, perché l’unità tra i credenti è minata dal fatto che siamo fallibili e difficili da amare. Proprio per questo motivo Pietro scrive: “Soprattutto, abbiate amore intenso gli uni per gli altri, perché l’amore copre una gran quantità di peccati” (1 Pietro 4:8). 

Sapevi che la parola “intenso” nella lingua originale significa amare “con la mano tesa”? Una mano tesa invita fratelli e sorelle ad avvicinarsi a te. 

Ami con le braccia tese o conserte? 
Il tuo braccio è teso per accogliere o per tenere lontano? 
Ami in modo discriminatorio, dimenticando che se non fosse per Cristo saremmo tutti odiosi e difficili da amare (Tito 3:1-7)?

I dissidi fra credenti e fra chiese per opinioni diverse sul Covid stanno influenzando anche i veri credenti a vivere con il braccio teso pieno di giudizio, in aperto conflitto gli uni contro gli altri. 
È possibile che abbiamo dimenticato cosa ci unisca e cosa Dio abbia fatto in noi?

L’ORIGINE DELL’UNITÀ

Da dove proviene l’unità di cui abbiamo parlato, e cosa si aspetta Dio da noi? 

L’Apostolo Paolo lo spiega alla chiesa di Efeso così: 

“Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti” (Efesini 4:1-6).

Leggendo questo passo alcune verità basilari devono rimanere impresse nella nostra mente.

Prima di tutto, con il nostro comportamento possiamo onorare Cristo e ciò che ha fatto per noi, oppure possiamo comportarci in modo indegno e irrispettoso verso di lui. Un discepolo, ovviamente, desidera solo seguire il Maestro, ed evitare qualunque cosa possa diffamarlo. 

Non siamo degni della salvezza (“vocazione”) e non lo saremo mai, perché più volte la Parola di Dio ribadisce che non possiamo meritare il favore di Dio. La salvezza è un dono (Efesini 2:1-10). È poco ma sicuro, però, che possiamo essere incoerenti col nostro comportamento rispetto al nostro rapporto con Dio.

Una seconda verità, sottintesa nelle parole di Paolo, è che il credente non è risparmiato dalle difficoltà. Lui scriveva dalla prigione, infatti da quando si era convertito a Cristo la sua vita era stata segnata da momenti di grande sofferenza, spesso a causa della sua testimonianza e dell’ostilità dei capi religiosi e delle autorità politiche del suo tempo. 

Alcuni pensano che l’assenza di problemi sia una conferma che Dio approvi il nostro comportamento, ma non è così! L’unico modo per valutare e capire senza errori se Dio sia soddisfatto del nostro comportamento oppure no, è confrontarci con la sua Parola.

La terza verità è che siamo chiamati a conservare l’unità, e non a produrla. Non possiamo creare l’unità, ma possiamo rovinarla e siamo anche bravi nel farlo!

Umiltà, mansuetudine, pazienza e sopportazione amorevole sono gli atteggiamenti necessari nella vita di coloro che non vogliono essere un ostacolo all’unità nella chiesa.

La mancanza di umiltà non è solo un problema tra un credente e l’altro, ma anche tra il credente e Dio. 
Dio resiste ai superbi, quelli che si confrontano in prima persona con sé stessi. L’orgoglio dell’uomo, il voler diventare come Dio, è stato il motivo principale della sua caduta e continua a essere il suo tallone d’Achille. 

L’orgoglio ci spinge a credere che le nostre opinioni siano le migliori, e che debbano prevalere nei confronti degli altri. 

L’orgoglio distrugge qualsiasi possibilità di unità nella chiesa. 

Per orgoglio lasciamo le nostre convinzioni soggettive fermentare incontrollate dentro di noi fino a che, in un attimo, traboccano producendo astio e disprezzo quando ci confrontiamo con gli altri. 

Avere idee diverse e fare valutazioni differenti è normale, ma con la mansuetudine è possibile prevenire le reazioni sbagliate. Quando manca la mansuetudine, che è la forza sotto controllo, le reazioni rischiano di essere peccaminose, portando anche divisione. 

La pazienza è la capacità di non reagire quando si è sotto stress. 
Ci vuole pazienza nelle situazioni che non ci piacciono, davanti a opinioni o comportamenti che ci urtano e che ci sembrano sbagliati. 

Il fatto che Paolo menzioni la pazienza, dimostra che ci saranno sempre motivi per potenziali conflitti. Cosa sceglieremo di fare in quei momenti? Sceglieremo la sopportazione pacifica? Fino a che punto siamo pronti a spingerci per proteggere la pace? 

Giacomo scrive: 

“Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza.
Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione. 
La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (Giacomo 3:13-18).

Pensi di poter difendere il tono aspro delle tue parole e legittimare l’atteggiamento con cui le dici, solamente citando le Scritture? 
Tendi a giustificare la durezza dei termini che usi ostentando la tua spiritualità? 

È difficile conciliare le parole di Giacomo con l’atteggiamento intollerante sempre più comune tra le persone.

PRESERVARE L’UNITÀ 

L’unità dei credenti non nasce per sforzi, patti e alleanze umane. È Dio che la produce tra i suoi figli. Nessun credente è capace di crearla. Il Signore stesso la stabilisce in modo sovrannaturale, in un modo inimmaginabile per l’uomo. 

Dio ha già compiuto delle azioni per il vero cristiano che lo hanno unito realmente a tutti coloro che Egli ha salvato nei secoli, in tutto il mondo (Efesini 2:11-18).

I veri cristiani del 2021 sono uniti da un vincolo sovrannaturale a tutti i cristiani del primo secolo. E sono uniti anche ai credenti dell’anno 500 e del 1500. Sono uniti perché Dio li ha uniti.

Questa unità continua a esistere attraverso tutte le epoche, e si estende anche geograficamente, arrivando a ogni credente ovunque nel mondo. Noi che siamo in Italia siamo uniti ai nostri fratelli islandesi, i credenti francesi sono uniti con i credenti brasiliani, come i fratelli giapponesi sono uniti ai fratelli canadesi e quelli americani con quelli afgani. Uniti di fatto!

Ma attenzione! Dato che non richiede nessuno sforzo particolare mantenere l’unità con chi non ho mai visto e non conosco (non può mica pestarmi i piedi né i miei modi possono offenderlo!) serve una prova del nove.

Per questo l’unità deve manifestarsi nella chiesa locale, dove chiunque potrebbe dire e fare cose che mi irritano, avere convinzioni diverse dalle mie, educare i figli in modo diverso da me… 

Per non parlare del fatto che a volte veniamo da culture diverse, forse qualcuno parla troppo o troppo poco, c’è chi è puntuale mentre io fatico ad arrivare in orario alle riunioni... C’è chi serve con gioia e chi schiva qualsiasi responsabilità. Forse si cantano i canti che ci piacciono o si preferiscono gli inni che ci addormentano, c’è chi prega a lungo e chi non prega in pubblico… 

L’unità è messa sotto pressione e provata proprio nella comunità!

I PARAMETRI DELL’UNITÀ

Un corpo, uno Spirito, una speranza, un Signore, una fede, un battesimo, un Dio e Padre. 
Sette realtà singolari che solo un vero cristiano può avere. 

Dio non ci ha chiamato a unirci con tutte le persone religiose, morali o sincere. Vuole piuttosto che ci impegniamo a preservare l’unità con tutti coloro che Lui sovranamente ha deciso di unire a noi in un solo corpo.

Solo i veri cristiani fanno parte del corpo di Cristo, e noi abbiamo la responsabilità di curarli e accettare tutti senza reputarci superiori o considerarli inutili. Questo Dio vuole da noi.

Lo Spirito Santo ha convinto loro come ha fatto con noi di peccato, di giustizia e di giudizio, e continua a camminare accanto a loro nel processo di santificazione. 

Tutti i veri cristiani trascorreranno certamente l’eternità con noi, quindi sarà meglio che impariamo ad andare d’accordo già da ora. 

Ogni vero credente ha un solo Signore: appartiene a Gesù Cristo, è suo schiavo e suo servitore. Come noi, anche lui deve rispondere delle sue azioni direttamente a Cristo. 

La chiesa è un gruppo esclusivo perché c’è solo una fede che permettere di entrarvi, ed è la fede in Gesù Cristo. 

C’è un solo vangelo che salva, un solo mediatore fra Dio e gli uomini. Gesù è il Signore e Salvatore di ogni vero cristiano. 

C’è un solo battesimo biblico che esprime visibilmente quello che Dio ha fatto interiormente nei suoi figli, ed è il battesimo per immersione che ci accomuna a Cristo: siamo morti al peccato, rinati come nuove creature, desideriamo camminare in santità, e Dio è il nostro Padre perché ci ha fatti rinascere quando abbiamo creduto in Cristo Gesù. Egli è sovrano e attento alle nostre vite.

Sono realtà che non possiamo contraffare né produrre per noi stessi o per un’altra persona. Possiamo solo pregare che Dio lo faccia.

PROTETTORI DELL’UNITÀ

Tu e io abbiamo il compito importante di proteggere l’unità nella chiesa prevenendo le spaccature, vaccino o non vaccino, mascherine o non mascherine. 

Per quanto le nostre opinioni possano essere ragionate e radicate, la responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri è più importante. 

Nessuno si aspettava una pandemia come il coronavirus. Nessuno di noi la poteva immaginare né aveva mai vissuto prima un evento di tale portata. 

Ma è anche proprio in vista di tempi come questi, quando la chiesa è messa sotto pressione da eventi politici o catastrofici, che Dio ha stabilito delle guide in ogni chiesa con il compito di pascere il gregge, che è difficile da guidare. Lo devono fare con l’atteggiamento giusto, con attenzione e sottomissione al Signore.

Le istruzioni molto pratiche di Paolo a  Timoteo valgono ancora: “Evita inoltre le dispute stolte e insensate, sapendo che generano contese. Il servo del Signore non deve litigare, ma deve essere mite con tutti, capace di insegnare, paziente” (2 Timoteo 2:23,24).

Piangiamo per il nostro peccato di permettere o provocare divisioni! Piangiamo perché le moltitudini muoiono senza Cristo. Piangiamo se nelle nostre chiese non c’è amore e unità. 

Ma se invece nella tua chiesa l’amore e l’unità regnano, allora ringrazia Dio, e sii pronto e sveglio per proteggerla contro qualsiasi nemico voglia minarla.

Comportiamoci da figli di Dio!

– D.S.

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE ottobre 2021

“Ciao Arnaldo, come stai?” “Sto bene, grazie. Solo molto indaffarato!”

“Ah, davvero? Che ti succede?”

“Beh, sto ristrutturando casa… Ho pianificato tutto, ma ora devo trovare la ditta che eseguirà i lavori.”

“Non c’è qualcuno del mestiere in chiesa che potrebbe darti una mano?”

“Ma che scherziamo?! Io non mi fido dei credenti. Non so tu... Ho avuto troppe brutte esperienze. Lavorano male e sono poco affidabili...”

Le parole di Arnaldo mi hanno rattristato molto, ma non ho potuto fare a meno di ricordare che anch’io sono stato deluso dai credenti. Li assumi per fare un certo lavoro, anche perché ti sembra giusto e gentile aiutare fratelli in difficoltà. Ma se poi non fanno quello che avevano promesso o lo fanno malamente, sei a disagio perché discutere con loro è l’ultima cosa che vorresti.

Sembra che tu sia obbligato,  per il semplice fatto che sei un credente, a “comprenderli” quando ogni altra faccenda ha precedenza sull’impegno pattuito con te.

Ci resti male, è chiaro, e sei insoddisfatto del lavoro eseguito, ma per non creare problemi in chiesa non reclami più di tanto. Metti in pratica quello che Paolo scrive in 1 Corinzi 6:7 e “patisci qualche torto o danno.”

Ti resta però il coltello dalla parte del manico: puoi fare come Arnaldo e decidere di non assumere più credenti o peggio, non pagare il lavoro.

Ma deve essere così? Tu e io, facciamo parte della soluzione o del problema?

Di che patto sei?

Anzitutto dobbiamo tenere presente che non tutti quelli che si definiscono cristiani lo sono davvero. Alcuni, guardando la loro vita, sembrano aver stipulato solo una polizza contro l’inferno, e il loro modo di vivere non è cambiato un granché. 

A volte, quando si parla dell’essenza della vita cristiana, si mette molta enfasi sulla preghiera, sulla lettura della Bibbia e su altri aspetti spirituali, ma si tende a dimenticare che Dio desidera che la vita del credente cambi e migliori da tutti i punti di vista. Anche l’essere affidabili fa parte di questo processo.

Secondo la Treccani la parola affidabile si riferisce “a cosa o persona sulla quale si può fare affidamento, di cui si può fidare”, che è “attendibile, corretta, coscienziosa, credibile, leale, seria e sicura.” 

È una qualità che si dovrebbe trovare in tutti coloro che sono nati di nuovo, ma che, nel momento del bisogno, si rivela sorprendentemente rara.

Nella sua prima lettera ai Corinzi l’Apostolo Paolo ha scritto: “Del resto, quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele” (4:2). 

Certo, stava parlando di Pietro, di Apollo e di sé stesso in quanto apostoli e ministri del vangelo, ma sarebbe riduttivo pensare che la fedeltà sia richiesta solo ai cosiddetti servitori di Dio. Cercare di trovare nelle parole di Paolo una facile scappatoia dalle proprie responsabilità, è come arrampicarsi sugli specchi.

Infatti, Dio si aspetta che ogni moglie, figlio e marito, ogni studente e lavoratore, ogni guida e membro di chiesa, insomma ognuno si dimostri affidabile. Allora è opportuno farci un esame di coscienza per vedere se lo siamo. Facciamolo con questo piccolo esercizio sulla frase di Paolo:

“Si richiede” – Chi lo richiede? Cosa significa? Ha il diritto di farlo?

“Amministratori” – Chi sono gli amministratori? Cosa amministrano? Chi gli ha affidato questo compito?

“Sia trovato” – Chi lo deve trovare? Quando lo deve trovare?

“Fedele” – Cosa vuol dire? Fedele a chi e in che cosa?

Proviamo a rispondere a queste domande confrontandoci con le nostre responsabilità. Per aiutarci a procedere in modo logico, cominciamo dall’ultima parola: fedele.

Essere fedeli

La parola fedele ricorre spesso nel Nuovo Testamento. Racchiude in sé il concetto di essere degno di fiducia, qualcuno su cui ci si può contare, coscienzioso, che mantiene la parola data, che compie le proprie responsabilità.

Una persona fedele fa quello che sa essere giusto, anche quando nessuno la vede. L’Apostolo Paolo comanda ai credenti di essere questo tipo di persone:

“Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo. 
“Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute, perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato” (Filippesi 2:12-16).

Questi versetti sono un concentrato di istruzioni molto pratiche per una vita cristiana che Dio gradisce.

Il principio di fondo è che chi è fedele, lo è sempre, indipendentemente dal fatto che sia osservato o meno. 

La fedeltà è strettamente collegata alla salvezza. Mi spiego: la salvezza non dipende dalla nostra capacità di essere fedeli, ma ubbidire a Dio diventa fonte di gioia per noi come conseguenza del nostro nuovo rapporto con Lui. 

È Lui il nostro punto di riferimento assoluto, non le persone intorno a noi. 

E benché la Bibbia ci esorti a essere sottomessi a ogni autorità come buoni cittadini, la nostra fedeltà incondizionata deve essere principalmente verso Dio e la sua Parola, e solo di conseguenza verso le autorità – giuste o ingiuste che siano. 

Il fatto che viviamo in mezzo a peccatori che amano il peccato e approvano chi pecca, non deve indurci ad abbassare il nostro standard, paragonandoci a loro. 

Il loro stile di vita lontano da Dio non sarà mai una giustificazione per la nostra mancanza di affidabilità. 

Restare fedeli è difficile, ma la fedeltà di cui parla Paolo spicca sicuramente in confronto alla normalità, perché risplende!

Nel buio della notte gli astri si distinguono senza sforzo, la gente li ammira e li studia. Sono talmente riconoscibili che tanti hanno addirittura un nome. Brillano in netto contrasto con quello che li circonda. 

Similmente, il credente fedele si distingue per la sua affidabilità: è diverso dagli altri e si tiene fuori dalla mischia, perché ci tiene alla sua testimonianza. 

In questo mondo caduco la fedeltà è come un diamante rarissimo. 

Senza l’aiuto di Dio i nostri più tenaci tentativi di restare fedeli sarebbero insufficienti. Come chiunque altro, saremmo motivati dall’egoismo, e la nostra fedeltà si esaurirebbe nel momento in cui il nostro tornaconto svanisce. 

Ma proprio perché Dio è colui che produce in noi il volere e l’agire, ci troviamo in una situazione di estremo vantaggio: Lui stesso viene in aiuto alla nostra infedeltà.

Perciò, se a volte ci sembra che essere fedeli sia troppo gravoso, ricordiamoci che questo è il suo disegno e il suo piano benevolo per noi e per le persone su cui abbiamo influenza.

La nostra fedeltà, quindi, riguarda più Dio che chi ci sta intorno, che senza dubbio ne beneficerà. Ma in realtà, il Signore deve essere il beneficiario principale, e noi vogliamo soprattutto piacere a Lui. 

Forse gli altri non meritano i frutti del nostro impegno verso il Signore e, per come si comportano, ci potremmo anche permettere di essere integri a metà nei loro confronti. Ma con Dio questo ragionamento non regge! 

Egli richiede da noi fedeltà perché Lui la merita, e perché il nostro comportamento influisce sulla sua reputazione. Siamo portatori della sua immagine, dato che i cristiani rappresentano Cristo.

Si richiede

È ovvio che ognuno vuole che siamo degni della loro fiducia: se lo aspetta nostra moglie, nostro marito, i nostri genitori, i nostri insegnanti, i nostri datori di lavoro, i nostri amici e il nostro governo. Ma spesso e volentieri vediamo che tutte queste persone, fallibili come noi, sono poco affidabili, non mantengono la parola, e ci viene la voglia di ripagarle con la stessa moneta.

Concentrarci sulle mancanze altrui e agire di conseguenza, è un ostacolo alla nostra crescita spirituale. Ricordiamoci piuttosto che Dio vuole che il nostro comportamento lo onori in ogni situazione.

Uno degli aspetti su cui molti sorvolano è il mantenere la parola data. Gesù ha detto: “Il vostro parlare sia: «Sì, sì; no, no»; poiché il di più viene dal maligno” (Matteo 5:37).

Ogni volta che apriamo la bocca le persone non devono avere dubbi sulla veridicità di ciò che diciamo. 

Quando affermi o prometti qualcosa, devi renderti conto che non parli solo a chi ti sta davanti, ma stai dicendo queste cose davanti a Dio.

Gesù ha affermato anche che “di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12:36,37).

Sarai d’accordo con me che spesso parliamo a sproposito, e usiamo la lingua con estrema superficialità. 

Per alcuni promettere cose, senza l’intenzione di mantenere ciò che si è detto, è uno stile di vita.

Altri invece, per esempio a un colloquio di lavoro, sono pronti a promettere al di là di quello che potranno garantire, solo per essere sicuri di aggiudicarsi il posto. “Sono paladino della puntualità… Non perdo tempo con social media durante le ore di lavoro… Reggo benissimo lo stress… Mai preso un giorno di malattia...”

Il credente non può e non deve farlo, dovesse anche costargli di perdere l’occasione della vita. E se ha dato la sua parola, deve mantenerla a qualsiasi costo, tranne, ovviamente, che per cause di forza maggiore. 

Periodicamente succede che ci sono lavori da fare a casa o in ufficio. Allora chiamo sempre un operaio per un sopralluogo e per un preventivo. Preferisco rivolgermi ai credenti, ma ricordo pure che proprio da loro ho avuto le delusioni più grandi. Alcuni, forse per la troppa confidenza o proprio perché “siamo fratelli”, sono stati superficiali, e non hanno eseguito con attenzione e responsabilità il proprio lavoro. 

Oppure hanno rispettato i patti solo a metà, perché in fondo tra “fratelli” il rapporto di lavoro è meno vincolante e l’altro è più comprensivo. 

Le parole di Cristo, però, valgono per tutti. Essere fratelli in fede non dà il diritto di essere meno attenti alle promesse fatte.

Un altro fattore che spesso influisce sulla qualità e sull’esecuzione del lavoro tra i credenti sono i soldi. 

In passato ho frequentato diverse chiese per un lungo periodo, e sono stato coinvolto in qualche ministero. Ho potuto notare che quando un servizio è gratis l’affidabilità, ossia il lavoro svolto in modo eccellente, è una virtù poco praticata.

Chi si occupa delle pulizie dei locali? Qualche anima buona, senz’altro…

Le piante del vialetto all’entrata sono troppo cresciute e c’è erbaccia dappertutto. Che fare? Possiamo chiamare dei giovani “volontari”...

L’impianto elettrico, del riscaldamento, dell’audio ha bisogno di un intervento. C’è un fratello che sa smaneggiare…

Chi vuole partecipare alla cura dei locali va certamente incoraggiato, perché servendoci gli uni gli altri serviamo Cristo.

A lungo andare però, può succedere che quel particolare servizio non porti più tanta gioia come all’inizio: “Qualcun altro si occupi di riordinare i locali questa domenica e di mettere le sedie a posto prima dell’apertura della sala. Io proprio non me la sento, sono stanco, mica mi pagano… Che ci posso fare? Troveranno pure una soluzione…”

Oppure: “Tocca a me insegnare alla scuola domenicale questo fine settimana, ma ho avuto altri pensieri per la testa e non mi sono preparato come avrei voluto. E va bè, si dovranno accontentare…”

Dio richiede fedeltà anche in quello che facciamo gratis, infatti esige la nostra lealtà in ogni nostra attività! Perché?

Siamo amministratori

Un amministratore non serve sé stesso. E, nel caso nostro, non ci siamo autonominati “amministratori”. Qualcuno che di risorse umane ne sa più di tutti ci ha affidato incarichi e capacità, e dobbiamo svolgerli onorando il compito assegnatoci.

L’amministratore deve usare bene quello che il suo superiore gli ha affidato.

Sull’argomento c’è questa storia che Gesù ha raccontato: 

Avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 
Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone. 
Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 
Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: «Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque». 
Il suo padrone gli disse: «Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore». 
Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: «Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». 
Il suo padrone gli disse: «Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore». 
Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: «Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo». 
Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l’interesse. 
«Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti.» —Matteo 25:14-30

La storia è semplice. Dio affida a ognuno di noi dei talenti, capacità da usare per produrre risultati che siano graditi a Lui. Ovviamente non hanno tutti le stesse capacità, quindi anche le aspettative sono diverse. Ma essere svogliati, oziosi, pigri o anche spaventati e timidi non annulla quello che il Signore si aspetta da noi.

Nell’essere affidabili è incluso il concetto che la nostra vita deve essere produttiva in un modo o in un altro. 

Oggi molti si adagiano nella propria inerzia e diventano pigri, un po’ a causa di politiche di assistenzialismo con poca logica, un po’ per colpa di genitori troppo indulgenti. Comunque sia, il credente pigro si rovina con le proprie mani, ma poi si irrita con Dio (Proverbi 21:25; 24:30-34). 

Genitori non permettete che i vostri figli lo diventino!

Ogni credente ha capacità che Dio gli ha dato perché siano messe al suo servizio in primis, e di conseguenza verso gli altri. Infatti, un amministratore deve rendere conto a chi lo ha impiegato.

Sia trovato

“Il suo padrone gli disse: «Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore»”.

Il servo con cinque talenti e quello con due hanno ricevuto entrambi la stessa lode dal padrone soddisfatto del loro operato. Servi buoni e fedeli. 

In realtà, la parola servo nel testo originale greco è schiavo.

Spesso dimentichiamo che siamo schiavi di Cristo, schiavi di Dio. Certo che alla luce dell’essere schiavi, considerare il problema della nostra inaffidabilità e irresponsabilità diventa più palese, e capiamo chiaramente che non abbiamo scuse.

Giorno per giorno Dio ci scruta, e valuta la nostra vita.

Ci ha dato capacità, ci ha messo nelle circostanze in cui ci troviamo, e si aspetta che siamo fedeli e affidabili.

Perciò, non preoccuparti solo di quello che pensano gli altri, di bene o di male, ma preoccupati soprattutto di quello che pensa Dio.

A questo punto, dopo il nostro piccolo esame, facciamoci qualche domanda un po’ più pratica.

Siamo affidabili nel nostro lavoro? Siamo riconosciuti come persone che eccellono in ciò fanno, che rispettano i tempi pattuiti senza compromettere i risultati?

Siamo affidabili come genitori? I nostri figli sanno di poter contare su quello che diciamo, che non siano cose dettate dallo sfogo del momento che poi ritrattiamo? Sanno che ogni ubbidienza è premiata e la disubbidienza punita? Stiamo attenti a non promettere ciò che non possiamo mantenere?

Come mariti e mogli siamo affidabili? Ci diciamo le cose apertamente, con onestà e senza “giochi di potere”? Il nostro partner può contare su di noi per proteggere e custodire la nostra intimità dalle intromissioni esterne? Siamo leali l’uno verso l’altra?

Come studenti facciamo i nostri compiti con eccellenza? I nostri professori ci vedono come allievi che risplendono?

Nella chiesa gli altri possono fare affidamento sulla nostra presenza e sul nostro servizio? Contribuiamo con perseveranza al buon andamento della vita di chiesa, amando e servendo tutti senza pretendere di essere riconosciuti e ringraziati? 

Quanto siamo affidabili nelle piccole cose? Arriviamo puntuali agli appuntamenti? Restituiamo ciò che abbiamo preso in prestito appena possibile? Ripariamo le cose se si rompono per colpa nostra? Se qualcuno ci chiede un favore, lo facciamo senza procrastinare o sbuffare? 

Non tocca a noi cambiare il comportamento altrui. Al massimo possiamo migliorare noi stessi, ma è proprio questo che Dio vuole fare: renderci simili a suo 

Figlio, il Veritiero e il Fedele. 

Anche io voglio sentirmi dire dal Signore: “Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore!”

Basta con le scuse, Dio si aspetta da me fedeltà! 

– D.S.

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE novembre 2019

Tu, che ne sai?

Anni fa, una giovane donna che conoscevo era rimasta vedova quando suo marito poliziotto era stato ucciso da un malvivente. Avevo conosciuto anche il marito e così mi sono trovato a dover incoraggiare la vedova e accompagnarla in questo tragico evento. 

Lei era rimasta sola con i figli ancora piccoli, che non riuscivano a capacitarsi del perché papà non sarebbe tornato più a casa.

Uno dei bambini aveva appena quattro anni e, sebbene non sembrasse aver afferrato tutta la gravità della situazione, capiva abbastanza da esserne turbato. Aveva assunto un comportamento scontroso, fuori ogni controllo. Era sempre arrabbiato, si rifiutava di andare a dormire, alzava la voce per qualunque motivo e rompeva i giocattoli senza nemmeno sapere il perché. 

La sorella, solo qualche anno più grande di lui, era frastornata da tutto quello che stava succedendo intorno a lei.

La madre, naturalmente affranta dal dolore e confusa su come andare avanti, era totalmente impreparata per una tragedia di tale portata. La vedevo che cercava di proteggersi come meglio poteva da chi le proponeva soluzioni di ogni tipo per gestire il suo dolore, e forse qualcuno cercava anche di approfittarsi di lei.

Era convinta che nessuno la capisse. Nessuno tra i suoi conoscenti aveva mai vissuto una prova simile, come potevano allora anche minimamente immedesimarsi?

Non era l’unica a pensarla così.

Infatti, nelle nostre tragedie personali, è praticamente impossibile che qualcuno stia vivendo esattamente la nostra identica esperienza.

Chi, allora, potrebbe capirci, abbandonati come siamo a noi stessi, in balia delle circostanze? Potremmo mai contare sulla comprensione di qualcuno?

Quello che ti propongo non è un banale prontuario del tipo “10 passi verso la serenità”. 

È decisamente molto di più!

Egli ci conosce, Egli si ricorda

Prima di tutto bisogna ammettere che affrontare situazioni pesanti e complicate non è mai facile. Non voglio affatto sminuirne la sofferenza o i sentimenti che ne conseguono. Nel mondo accadono catastrofi che ci lasciano tutti allibiti e senza parole: terremoti, guerre, malattie ed efferatezze di ogni tipo.

A casa nostra, a cena, mia moglie e io preghiamo per persone che conosciamo che soffrono per malattie difficili. Abbiamo una serie di nomi a cui ogni tanto ne aggiungiamo qualcuno nuovo, purtroppo. La lista si fa sempre più lunga mentre veniamo a conoscenza di altre persone che devono affrontare, non solo infermità ma anche altre situazioni spesso umanamente senza speranza.

Per molti la domanda che viene naturale è: “Ma Dio, dov’è?”

La gente si ricorda di Lui quando ormai ogni altra soluzione si è dimostrata inefficace. Negli anni ho visto tornare a frequentare la chiesa persone che avevano un caro molto grave, per poi sparire di nuovo non appena la situazione si era risolta, in bene o in male.

Dio diventa rilevante solo quando si ha bisogno del suo intervento, oppure quando si pensa di avere il diritto di fargli delle rimostranze.

Hai avuto anche tu questi pensieri? Ti sei mai trovato a dubitare che a Dio non importi minimamente di quello che stai vivendo? Che abbia veramente compassione? O che capisca davvero quello che TU stai passando?

“Compassione” viene dal latino “patire insieme”. È definita come “un sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; una partecipazione alle sofferenze altrui”.

Che Dio sia compassionevole non vuol dire che provi sentimenti di pietà per qualcuno di tanto in tanto, come facciamo forse noi.

Essere compassionevole fa parte del suo carattere. La compassione è un suo attributo eterno, immutabile. 

“Ma tu, Signore, sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande in bontà e in verità” (Salmo 86:15).

Dio non deve sforzarsi di avere compassione, come poteva essere per me con la giovane vedova – Egli è compassionevole! La sua compassione è perfetta, sempre pronta. Non servono le nostre lacrime per stimolare la sua tenerezza verso noi.

Ti ricordi quando Mosè stava scendendo dal monte Sinai dopo che aveva ricevuto le tavole della legge? Il racconto si trova in Esodo capitolo 32. Mentre lui era rimasto alla presenza di Dio per quaranta giorni, il popolo d’Israele, giù nella vallata, si era ben presto corrotto e sviato dagli ordini di Dio, si era fatto fare un vitello d’oro da adorare, e si era dato a festeggiamenti proibiti. 

Immagino la scena: Mosè che, scendendo piano quel ripido pendio della montagna, fa molta attenzione alle tavole della legge che Dio stesso aveva inciso. Ma quando scopre che il popolo d’Israele sta peccando contro Dio, si adira talmente tanto che getta contro le rocce quelle tavole sacre. 

Se Mosè aveva vissuto l’affronto del popolo contro Dio con tanta ira, cosa avremmo potuto aspettarci da Dio? Era Lui la parte offesa dal comportamento del popolo.

Più avanti, nel capito 34 del libro di Esodo, leggiamo che Dio diede a Mosè due nuove tavole della legge, e disse di se stesso così: “Il Signore! il Signore! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, che conserva la sua bontà fino alla millesima generazione, che perdona l’iniquità, la trasgressione e il peccato ma non terrà il colpevole per innocente; che punisce l’iniquità dei padri sopra i figli e sopra i figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione!”

Hai notato come si descrive? Dio conserva la sua bontà fino alla millesima generazione! La sua compassione si estende a persone che non la meritano affatto!

Se ti sei chiesto anche tu se Dio ti capisca davvero, considera che Egli è Dio ma noi siamo umani. Lui è così diverso da noi.

Le parole del Salmo 103 chiariscono ancora meglio che “Come un padre è pietoso verso i suoi figli, così è pietoso il SIGNORE verso quelli che lo temono. Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siamo polvere” (v. 13,14).

Dio, che ci ha creati, sa esattamente come siamo fatti. Conosce la fragilità umana! 

Forse gli altri non riusciranno a capirmi, a compatirmi, ma Dio è la sorgente della compassione vera, compassione informata sulla natura umana, sulla nostra condizione di peccatori, sulla nostra fragilità. 

Sa tutto di tutti, eppure sceglie di mostrare compassione verso coloro che lo temono, coloro che lo riconoscono come loro Dio. 

Sei un figlio di Dio? Egli ha compassione di te! Non perdere mai di vista questa importante verità. 

Visione limitata

Il problema è che in qualunque circostanza ci troviamo vediamo solo il presente, e al massimo possiamo temere il futuro. 

Dio però non è limitato come noi. 

Egli infatti, non solo conosce il futuro in ogni suo dettaglio, ma lo governa con attenta precisione.

La dimostrazione per eccellenza della compassione di Dio è che ha mandato il suo unigenito Figlio a morire per coloro che credono in Lui. 

L’incarnazione di Gesù e la sua morte sulla croce non sono state una reazione di Dio ai mali del mondo che lo hanno colto di sorpresa. Assolutamente no. Erano state pianificate da Dio prima della fondazione dell’universo. 

Isaia profetizzando di Gesù aveva scritto: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l’anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio; per consolare tutti quelli che sono afflitti” (61:1-3).

Il Signore Gesù, mentre era sulla terra mostrò immensa compassione verso i malati, le vedove e i parenti dei malati guarendoli e facendo loro del bene. Ma, sorprendentemente, più di ogni altro, mostrò genuina compassione per coloro che non erano spiritualmente suoi figlioli. Vedere uomini e donne smarriti come pecore procurava in Lui grande dispiacere.

Oggi, in chiesa, è penoso vedere persone che si considerano figli di Dio, che hanno cioè ricevuto il dono più grande della compassione di Dio avendo creduto in Cristo, ma che vivono come se a nessuno importasse di loro.

Come mai ci sono molti credenti che sono costantemente scontenti e senza la gioia del Signore?

La risposta è semplice purtroppo: è che non si fidano di Dio! Sembrano delle parole forti, ma pensiamoci un momento. 

L’autore della lettera agli Ebrei scrive: “Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, stiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Ebrei 4:14-16). 

Se è vero che Dio è compassionevole e ci comprende come dice questo passo, allora il nostro problema è che non ci fidiamo veramente di Lui.

Ma c’è anche da considerare un secondo aspetto. Nella società moderna dove a ogni esigenza esiste una soluzione istantanea, non abbiamo né la voglia né il tempo di aspettare il “momento opportuno”.  Il momento giusto dev’essere subito e forse anche subito è troppo lento ad arrivare! 

Siamo abituati a considerare ogni problema e circostanza negativa come qualcosa da evitare a tutti i costi! Dio invece ha scopi diversi dai nostri; Egli non è interessato necessariamente alla nostra comodità, ma alla nostra trasformazione: vuole renderci più simili a Cristo. 

È quello che la Bibbia chiama la santificazione dei credenti. 

Comincia al momento della nuova nascita per opera dello Spirito Santo, quando Dio ti separa dal mondo e cambia il tuo destino eterno. Ma è un progresso che dura tutta la vita mentre Dio, servendosi anche delle cose negative che accadono per sua concessione, trasforma il tuo essere nell’immagine di suo Figlio.

Un terzo motivo, collegato strettamente al precedente, è che pensiamo di sapere meglio di Dio cosa sia e in cosa debba consistere la compassione che ci aspettiamo da Lui. Pretendiamo quella, solo quella, perché qualsiasi altro modo in cui la mostri, per noi non è affatto compassione. Ma indovina un po’ chi ha ragione!

Tre risposte vere

Stai affrontando una situazione difficile? Sei scoraggiato perché Dio non sembra rispondere alle tue preghiere? Forse hai bisogno di rivalutare la tua fiducia in Lui. Forse hai bisogno di rivedere cosa sia e da chi proviene la vera compassione.

Tutti vorremmo capire il perché delle situazioni difficili che ci affliggono. Spesso reclamiamo una risposta eclatante, ma Dio ci ha già risposto nelle Scritture. Ci sono almeno tre risposte che sono sempre vere.

Abbiamo bisogno di essere trasformati. È qualcosa che Dio solo può fare. Servendosi di svariate situazioni ci fa maturare nella fede e nell’ubbidienza. 

“Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, sapendo che la prova della vostra fede produce costanza. E la costanza compia pienamente l’opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti” (Giacomo 1:2-4).

Abbiamo bisogno di smettere di vivere per le cose del mondo, con le sue attrazioni vuote, passeggere e ingannevoli. “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra” (Colossesi 3:1,2).

Abbiamo bisogno di imparare ad essere di aiuto, e a consolare gli altri. 

“Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione; perché, come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2 Corinzi 1:3,4).

Ci saranno anche altre risposte che troverai nelle Scritture che ti aiuteranno a riscoprire la compassione di Dio nella tua vita, ma non contraddiranno mai queste tre verità bibliche. 

Un’ultima considerazione

Ma se abbiamo peccato? È possibile che stiamo soffrendo perché Dio ci sta disciplinando per qualcosa che abbiamo fatto?

È certamente una possibilità su cui bisogna riflettere umilmente e con onestà. Infatti nella lettera agli Ebrei è scritto ancora: “e avete dimenticato l’esortazione rivolta a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore, e non ti perdere d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli»” (12:5,6).

La riprensione di Dio nella nostra vita ha lo scopo di riportarci a Lui. Nel momento che lo facciamo confessandogli i nostri peccati, la disciplina ha raggiunto il suo scopo, e finisce lì. Questo però non vuol dire automaticamente che non ci siano ripercussioni, anche dolorose, del nostro peccato sulla nostra vita. Talvolta le conseguenze di una ribellione possono durare finché vivremo.

Quando questo accade, potrebbe anche essere che, per il nostro buonismo, vogliamo mostrarci più misericordiosi di Dio. 

Cercare di ignorare, mitigare o negare le conseguenze del peccato non è necessariamente la cosa migliore per le persone coinvolte. È possibile che Dio si stia servendo di queste ripercussioni per produrre un ravvedimento genuino in chi ha peccato, e stia ancora lavorando in lui affinché si renda conto della gravità della sua disubbidienza.

Allo stesso tempo, non siamo noi che dobbiamo essere gli strumenti del giudizio di Dio rifiutando il nostro perdono a chi si ravvede. 

Gloria a Dio per la sua misericordia! Ne abbiamo tanto bisogno, non solo per noi stessi, ma per imparare a pregare per gli altri ed essere portatori di compassione. 

Infatti, Gesù, “vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La mèsse è grande, ma pochi sono gli operai. Pregate dunque il Signore della mèsse che mandi degli operai nella sua mèsse»” (Matteo 9:36-38). 

Noi siamo gli ambasciatori della compassione di Dio a un mondo che ha bisogno di conoscerla.

“Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi” (Colossesi 3:12,13).

Il mondo è pieno di persone che inaspettatamente si trovano a dover gestire eventi troppo devastanti per loro, come la giovane vedova e i suoi figli troppo piccoli per essere in grado di esprimere con una parola lo strazio dei loro cuori.

Che il Signore ci aiuti a non considerare loro come ostacoli alla nostra serenità, ma a cogliere queste opportunità per dichiarargli la compassione di Dio.  

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE ottobre 2019

Illusi! Cosa state pensando?

“Mio figlio è un bravo ragazzo, non ha mai fatto nulla di male!”  È il ritornello più ripetuto dai genitori di figli che hanno commesso un crimine. 

Uno di questi genitori è Ethan Elder che, come ha riportato Il Messaggero del 1 agosto, ha dichiarato: “Sono cresciuto in povertà, ho avuto fortuna più tardi nella vita. Ai miei figli ho insegnato l’importanza di condividere e dare. Entrambi sono divenuti due giovani adulti generosi e gentili.”

Ethan Elder è il padre del diciannovenne Finnegan Elder accusato di aver ucciso con undici coltellate alle spalle il carabiniere Mario Cerciello Rega. 

Se questa storia non sconcerta il pubblico, è perché ormai siamo abituati a tanti crimini inauditi. Il peccato dell’uomo sembra non conoscere limiti. 

Tutti i bambini nascono peccatori e i comportamenti sbagliati cominciano dalla nascita. Eppure troppi genitori adorano i propri rampolli a tal punto da non intervenire. Stanno allevando dei piccoli delinquenti che, se non diventano dei mostri, è solo per la grazia di Dio.

Succede nel mondo. Ma è particolarmente triste e fa anche rabbia che nelle famiglie dei credenti si sottovaluti quello che Dio dice nella Bibbia. 

È vero, ne abbiamo già parlato, anche più volte. Ma repetita iuvant.

Figlio mio, dammi il tuo cuore

Nel libro dei Proverbi è scritto: “La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l’allontanerà da lui” (Proverbi 22:15).

Non ci vuole un teologo né una laurea per afferrare il concetto.

Nel cuore del bambino, per quanto lui sia carino e piccolino, si nasconde la follia, e spesso neanche tanto bene. C’è solo una medicina che funziona contro l’incapacità del bambino di distinguere il bene dal male: la verga della correzione. 

La verga qui indica punizione che deve farsi sentire, essere ben percepita insomma, ma ci torneremo su alla fine dell'articolo.

Che tempi! Che costumi!

Vedo tanti bambini e ragazzini sempre più giovani incollati agli iPad e telefonini che li intrattengono. I genitori si illudono che vestirli griffati e pettinarli alla moda, o peggio ancora assecondarli in tutto e per tutto, sia sinonimo di buona educazione. Ciò però non fa altro che camuffare la follia insita nel cuore di questi piccoli. 

Tempo fa in spiaggia osservavo una scena che è durata una decina di minuti. Un bambino di sette o otto anni gridava parolacce e sputava sulla nonna che cercava di tenerlo buono. Era un continuo crescendo di insulti e grida. 

Ad un certo punto il “dolce fanciullo” ha preso una pala di plastica e ha colpito la nonna sul ginocchio. Lei, per difendersi, gli ha dato una botta sulla mano, al che il bambino, più per la sorpresa che per il dolore, si è messo a piangere e gridare. 

Sono intervenute due altre mamme cercando di calmarlo, ma lui ha cominciato a colpire anche loro. 

Per farlo smettere la nonna gli ha dato dei soldi per comprarsi un gelato, cosa che poi ha fatto. E mentre lo mangiava continuava a dire parolacce alla nonna. 

Dopo aver mangiato solo metà del gelato, ha buttato il resto e ha preteso altri soldi per andarsi a comprare altre cose. La nonna ha prontamente aperto la borsetta e ha fatto come le lui aveva chiesto. 

Così, alla fine, lui si è allontanato lasciando la nonna a massaggiarsi il ginocchio dolente colpito dal “bravo bambino!” 

Morale della storia: il bambino folle si era allontanato dalla nonna, ma la follia del bambino aveva solo messo radici più profonde.

Lezioni di civiltà

A volte provo pena per tutti quelli che, pur non essendo i genitori, devono esercitare una qualsiasi forma di autorità sui bambini. Gli insegnanti a scuola ne sanno qualcosa: in confronto alle generazioni passate di educatori, oggi si fa sempre più fatica a gestire gli alunni. Attualmente questi ragazzini pieni di follia sono obiettivamente più difficili da educare. È vero che molti insegnanti cercano di escogitare modi creativi di controllare le scolaresche, ma spesso è un lavoro senza speranza.

Ai tempi miei, se i genitori scoprivano che qualcuno di noi si comportava male a scuola, la punizione arrivava sicura e senza indugi. E quando i miei figli andavano a scuola c’era ancora quel senso di rispetto, anche se meno evidente, della figura del professore, che faceva sì che normalmente i genitori davanti ai comportamenti inaccettabili dei figli dessero ascolto agli insegnanti. Oggi sembrano schierarsi dalla parte del bambino prima ancora di scoprire il fatto vero, e senza dare peso alle difficoltà dell’insegnante. 

Morale della storia: molti insegnanti, nonostante la buona volontà, e mossi da un vero desiderio nonché da un reale bisogno dei bambini di essere educati, hanno le mani legate.

La Bibbia presenta tanti principi fondamentali su come allevare figli. È chiaro che chi non la conosce non li segue, ma è triste che tanti genitori credenti si facciano influenzare più dal modo di fare moderno che dalle sue verità.

I principi biblici sull’educazione non sono affatto legati alla cultura del tempo, ma alla natura del bambino, di cui Dio ha una conoscenza perfetta, il che fa di Lui anche l’autorità massima sull’argomento. 

Richard Baxter, un noto puritano del XVII secolo, aveva cominciato il suo ministero insegnando alla scuola elementare. Nel tempo poi è diventato un leader del movimento puritano. Quello che segue qui sotto è scritto da lui quasi 350 anni fa.

- - - - - 

Più giusto chiamarlo un diavolo che un genitore!

“...allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Efesini 6:4)

Genitori! Il vostro esempio e la vita sono un continuo, potente sermone che vostri figli vedono sempre!

Genitori! C’è un’eredità eterna di gioia che i vostri figli devono raggiungere – ed è in vista di essa che voi dovete allevarli. C’è una miseria senza fine a cui devono fuggire – ed è questo ciò che dovete insegnargli diligentemente. Se non insegnate loro a conoscere Dio e a servirlo, e come essere salvati e scampare alle fiamme dell’inferno, non gli insegnate nulla, anzi fate peggio di niente. È nelle vostre mani di fare loro la più grande gentilezza o la peggiore crudeltà che esista al mondo! Aiutateli a conoscere Dio e ad essere salvati, e fate di più per loro che se li aiutaste a diventare principi o principesse.

Se trascurate le loro anime e li allevate nell’ignoranza, mondanità, empietà e nel peccato, li tradite consegnadoli nelle mani del diavolo, il nemico delle loro anime, proprio come se li vendeste a lui. Li vendete per essere schiavi di Satana! Li tradite consegnandoli a uno che li imbroglierà e abuserà di loro in questa vita e li tormenterà per l’eternità. 

Se vedeste un uomo o una donna che osi nel suo cuore gettare il figlio in una fornace ardente, non pensereste che sarebbe più giusto chiamarlo diavolo piuttosto che genitore? Quanto più quando si tratta delle fiamme dell’inferno! 

Quali mostri disumani sareste allora, se leggendo nelle Scritture quale sia la via per l’inferno, e chi siano quelli che Dio consegnerà al diavolo per essere tormentati, allevaste lo stesso i vostri figli senza sforzarvi di salvarli da un destino simile!

Se li amate, mostratelo nelle cose da cui dipende il loro benessere eterno. Non dite che li amate, se poi li conducete all’inferno! E se non li amate, non siate così spietati nei loro confronti da dannarli! Non c’è peggiore cosa che possiate fare per dannarli che allevarli nell’ignoranza, incuria, mondanità, sensualità e empietà!

Non ci sono altre vie verso l’inferno. Eppure… Sareste forse capaci di allevare loro in questo tipo di vita e insistere che non desiderate la loro dannazione?

Ma se voi addestrate i vostri figli nell’empietà, dovreste ammettere che avete l’intenzione di dannarli! E non è forse vero che il diavolo è più scusabile di voi per aver agito con crudeltà verso i vostri figli, perché come loro genitori, la natura vi spinge ad amarli e a difenderli dalla miseria?

Lasciatemi parlare seriamente ai cuori di quei genitori disattenti ed empi che trascurano la santa educazione dei loro figli. Non siate così spietati verso chi avete portato al mondo! Abbiate pietà e soccorrete le anime che avete contaminate e rovinate! Abbiate pietà delle anime che dovranno perire nell’inferno se non si convertono!

Aiutate loro che hanno così tanti nemici che li assalgono, così tante tentazioni da affrontare, così tante difficoltà da superare e un giudizio tanto severo da subire!

Aiutate loro che sono tanto deboli e cosi facilmente ingannati e abbattuti!

Aiutateli prontamente, prima che il peccato li indurisca, e Satana si costruisca una fortezza nei loro cuori.

Non siate crudeli verso le loro anime!
Non vendeteli a Satana, a nessun prezzo!
Non traditeli all’inferno a causa della vostra empia negligenza!

E se uno di loro dovesse pur perire, che non sia a causa vostra, voi che avete il dovere di fare loro del bene.

La rovina delle anime dei vostri figli è più consona a Satana che a voi che siete i loro genitori!

Considerate quanto siano odiosi i genitori traditori delle anime: tradiscono i propri figli per farli diventare schiavi di Satana qui e tizzoni dell’inferno nell’eternità! Non unitevi al diavolo in questa orrida malvagità contro natura!

“Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno dei morti” (Proverbi 23:13,14).

—Richard Baxter

 - - - - - 

È un testo duro, senza giri di parole,  quello di Baxter, ma non gli si possono fare appunti. 

Dio, nella sua misericordia, protegge i figli dalle mancanze e incapacità dei genitori, e salva anche bambini che sono stati cresciuti nell’incuria e disattenzione, ma non per questo possiamo trascurare le nostre responsabilità.

In molte famiglie entrambi i genitori lavorano fuori casa e, sebbene questa possa essere una necessità, non è un buon motivo per abdicare al proprio ruolo di genitore educatore. 

Non spetta alla scuola curare le anime dei figli. 
I nonni o le babysitter non possono sostituire l’amore e la cura da parte dei genitori. 

E sebbene Dio indubbiamente si serva della cura e delle attenzioni di tanti bravi insegnanti di scuola domenicale e di ore felici per avere un impatto eterno nella vita di tanti bambini trascurati dalla famiglia, la scuola domenicale non può supplire alle mancanze di coloro ai quali Egli ha assegnato la responsabilità di accudire, allevare ed educare i figli.

Un nuovo inizio

A questo punto voglio incoraggiarti a non ancorarti alle scuse che forse ti vengono naturali o alle opinioni che non sono in linea con la Parola di Dio.

L’anno scolastico sta ricominciando ed è un buon momento per rivalutare le proprie priorità, e per esaminare con più attenzione quelle che sono forse già diventate cattive abitudini in famiglia.

Come marito e moglie, perché non prendete il tempo per leggere insieme il libro dei Proverbi? In esso c’è una miniera d’oro di principi e avvertimenti sull’educazione dei figli. Studiateli e discutete insieme come metterli in pratica nella vostra famiglia.

Come genitori, ridedicatevi al compito santo di curare le anime dei vostri figli. 

Padri, leggete Deuteronomio 6:1-9. Prendete il tempo per chiedervi come potete svolgere meglio (o cominciare a svolgere!) il vostro compito di padri. Senza più cercare scuse, trovate il modo di svolgerlo con diligenza e costanza, davanti al Signore, per il bene dei vostri figli.

Madri, trovate il tempo e chiedete al Signore le forze per aiutarvi a trasmettere ai vostri figli l’importanza di avere un cuore per gli insegnamenti morali necessari per il benessere spirituale. 

È un progetto a lungo termine: i cambiamenti non avvengono solo perché si fanno dei buoni propositi, ma sono il risultato di una pianificazione attenta del vostro tempo e delle vostre priorità.

“La verga e la riprensione danno saggezza, ma il ragazzo lasciato a se stesso fa vergogna a sua madre. Correggi tuo figlio; egli ti darà conforto e procurerà gioia al tuo cuore” (Proverbi 29:15,17).

E quando poi parleranno dei vostri figli, possa il vostro cuore gioire ed essere fiero di loro. 

Punire secondo Dio
  • Chi risparmia la verga odia suo figlio, ma chi lo ama, lo corregge per tempo. Proverbi 13:24
  • Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno dei morti. Proverbi 23:13,14
  • La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l’allontanerà da lui. Proverbi 22:15 
  • La verga e la riprensione danno saggezza; ma il ragazzo lasciato a se stesso, fa vergogna a sua madre. Proverbi 29:15
  • Anche Dio usa la disciplina coi suoi figli: “...e avete dimenticato l’esortazione rivolta a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore, e non ti perdere d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli»”. Ebrei 12:5,6

Giochi proibiti  

Quando i gemelli erano abbastanza grandi per camminare e circolare nella loro stanza, ma ancora troppo piccoli per usare il vasetto, usavano una quantità indescrivibile di pannolini. Allora i pannolini che si buttano non si usavano molto perché erano molto cari (ancora oggi sono un peso non indifferente sul bilancio famigliare...); perciò ogni giorno c’era da fare il bucato, stendere i pannolini e ripiegarli. Poi li mettevo in un cassetto nella stanza dei bambini.

Daniele, uno dei gemelli, un giorno decise di inventare un gioco nuovo e divertentissimo.

Aprì il cassetto, tirò fuori un pannolino, lo spiegò e lo buttò attraverso la stanza. Poi fece lo stesso col secondo, col terzo e così via, finché il cassetto non fu vuoto. 

Quel giorno era in casa mio marito. Aveva un lavoro da fare e si congratulava per il silenzio e la calma che regnavano in casa (mai fidarsi quando c’è troppo silenzio!!). 

Ad un tratto, sentì i bambini che ridevano come matti e andò a vedere. 

Sembrava che nella stanza fosse passato Attila, flagello di Dio.

“Ma che avete fatto?” chiese mio marito.

“Niè gioca molto bene” (Niè voleva dire Daniele, nel linguaggio dei bambini).

Papà si mise a spiegare con pazienza che i pannolini non sono un gioco, che devono stare nel cassetto, a fare la “nanna”. Perciò, prese il bambino, gli fece piegare alcuni pannolini, glieli fece riporre nel cassetto, la maggior parte la ripiegò lui e il cassetto fu chiuso con fare solenne.

“I pannolini ora fanno la nanna. Non sono un gioco. Nanna” ripeté mio marito.

“Nanna” acconsentì Daniele.

“Se i bambini giocano con i pannolini, papà deve fare...”

“Pum, pum” ripeterono in coro i gemelli.

“Capito?”

“Capito.”

Il giorno seguente avevamo un ospite a pranzo e i bambini erano in camera loro perché avevano già mangiato.

Di nuovo, un grande silenzio dalla camera dei bambini. Andai a vedere. Era di nuovo passato il turbine fra i pannolini. Oltre ai pannolini, erano volati anche magliette e bavaglini.

“Ci penso io” disse mio marito. Infatti, è una buona regola, se possibile, che le punizioni siano date dalla persona che ha emanato la legge. In quel caso, mio marito.

“Allora, che cosa è successo?”

“Niè, gioca. Pannolini nanna. Niè sveglia.”

“E cosa aveva detto papà?”

“Pannolini nanna.”

Era chiaro: Daniele aveva capito perfettamente che cosa avrebbe dovuto fare e aveva disubbidito. 

Perciò doveva essere punito.

“Ci ha provato ancora?” domanderete.

No. Non con i pannolini, per lo meno. Anzi, con un sorriso birbone, metteva la manina sulla maniglia del cassetto e diceva: “Pannolini nanna, Niè non sveglia!” 

—Tratto dal capitolo 5 del libro Figli piccoli, gioie grandi di Maria Teresa Standridge


Uno degli errori più pericolosi

Uno degli errori più pericolosi che un genitore possa fare è vietare, o trascurare per ignoranza, che i suoi figli fin da piccoli frequentino la chiesa e siano istruiti nella Parola di Dio.

Uno dei più grandi tradimenti del volere di Dio avviene quando una chiesa locale, o i suoi responsabili, scoraggiano i genitori che desiderano portare i loro figli alle riunioni, non provvedendo loro ogni agevolazione e aiuto perché possano curare e accudire i loro bambini nell’ambiente della chiesa.

Ricordo, molti anni fa, un’esperienza mia e di mia moglie, quando dei credenti, forse senza rendersene conto, hanno dimostrato il loro desiderio di allontanare i bambini dalla chiesa o dai locali che possiamo chiamare, senza falsa retorica, la “casa di Dio”. Si tratta dei locali che sono consacrati all’insegnamento della Parola di Dio, che si frequentano per conoscere la verità di Dio, per adorarlo e per avvicinarci spiritualmente a Lui. 

Eravamo in un paese straniero di cui non capivamo la lingua, e la domenica ci siamo impegnati a trovare una comunità evangelica sana che potevamo frequentare per godere la comunione con Dio e con altri credenti. Ovviamente abbiamo portato tutta la famiglia, i nostri quattro figli, fra i tre e i sette anni. Abbiamo cercato di cantare quanto possibile in una lingua sconosciuta, e abbiamo ascoltato il messaggio, senza capirci nulla. Alla fine siamo rimasti orgogliosi del comportamento dei nostri figli, decisamente ordinato e rispettoso. 

Finché una signora di una certa età non ci ha salutati in italiano e, poi, commentato con un tono di sufficienza: “Noi, i bambini piccoli, non li portiamo all’adunanza”. 

Solo allora ci siamo resi conto che, effettivamente, oltre ai nostri, altri bambini non ce n’erano! 

In un primo momento, istintivamente, ci siamo un po’ vergognati: avevamo infranto le regole! Ma la nostra seconda reazione è stata orgoglio e tranquillità di cuore: i nostri figli non avevano causato disturbo a nessuno. 

E nella vostra chiesa, come va? C’è chi si oppone alla presenza dei bambini? C’è chi critica i genitori che ce li portano? E, d’altra parte, siete sicuri di poter dire in tutta onestà che i vostri figli non abbiano causato, o non causino, disturbo a nessuno? 

Ammettiamo, per prima cosa, che i problemi possono esistere e, poi, vediamo come possono essere risolti con la soddisfazione di tutti e, soprattutto, per il bene dei figli, dei genitori, della chiesa e per la gloria di Dio.  

Certamente è possibile. Ci state? 

—Tratto dal libro I miei bambini in chiesa? Sì, ma... di Guglielmo Standridge

 

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE settembre 2019

Salta direttamente all'articolo:  
Un pizzico di sale 


Tra i credenti si possono distinguere due correnti di pensiero, apparentemente contrastanti, riguardo al ruolo e l’impegno di un cristiano nel suo progresso spirituale, che forse hai notato anche tu. 

Ci sono quelli che mettono molta enfasi sui doveri dell’essere seguaci di Cristo: credere è ubbidire, e amare Dio è osservare la sua Parola.

Assolutamente vero. Chiunque abbia conosciuto Cristo, lo sa.

E poi ci sono quelli che fanno notare che un albero di mele non deve sforzarsi e affannarsi ogni volta per produrre i suoi frutti. Sta semplicemente lì, e le sue mele crescono spontaneamente. Questo per dire che il credente non deve preoccuparsi troppo di quello che il Signore compie nella sua vita. Lui fa quello che vuole fare.

Potremmo definire i primi pietisti, in quanto sostengono che il credente deve assumere un ruolo attivo nella sua santificazione. I secondi sarebbero quietisti, per i quali l’idea di qualunque opera umana che contribuisca alla salvezza è eresia. 

È una divisione molto grossolana (anche perché nel pietismo e nel quietismo c’è molto più di questa divisione), ma opportuna per chiarire la confusione che a volte abbiamo su ciò che Dio si aspetta da noi.

Le cose che facciamo, sono perché è Dio che le fa in noi? O le facciamo, anche controvoglia, semplicemente perché Lui ce le comanda? 

Se faccio le cose per il senso d’obbligo, sono legalista… Se faccio solo quello che mi va (perché Dio non mi ha ancora dato la gioia di fare altro) sono pigro e egocentrico… 

È meglio darci da fare o riposare?

Per capire cosa Dio si aspetta da me, e se ci sia un equilibrio tra il pietismo e il quietismo, ho bisogno della Parola di Dio.

Prendiamo in esame una frase di Paolo, scritta ai credenti di Filippi. 

L’apostolo esorta: “Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore” (Filippesi 2:12).

Il verbo principale di questo versetto è adoperatevi. Paolo sta dicendo che ogni credente deve personalmente adoperarsi al compimento della sua salvezza. Per essere chiari, lui NON sta dicendo che la salvezza possa essere ottenuta, o dipenda in alcun modo dalle nostre opere. 

Lui parla dell’ubbidienza di chi è già nato di nuovo.

La rigenerazione che lo Spirito Santo opera in chi si converte, produce in lui la sete per il puro latte della Parola di Dio e un desiderio genuino di voler piacere al Signore. Il credente ama il suo Salvatore perché nel suo cuore sa quanto è stato perdonato. È un amore che si traduce in ubbidienza.

A volte, però, col passare degli anni, ci dimentichiamo della gravità delle nostre offese prima di essere convertiti. Cominciamo a crederci migliori di quello che siamo, ed è proprio questo l’atteggiamento che ci deruba di quella gioiosa gratitudine che ci porta a ubbidire. 

D’altra parte, è possibile sentirsi schiacciati già in partenza dai tanti imperativi della Parola di Dio. Il comportamento santo, degno del vangelo, che Dio si aspetta dai suoi figli, è uno standard talmente perfetto di giustizia e di purezza che nessuno ne è all’altezza. 

Eppure Dio ce lo richiede.

Bisogna ammettere che la nostra ubbidienza è sempre imperfetta, ma questo non ci dà il diritto di essere indulgenti verso noi stessi.

È ovvio che certi comportamenti non sono degni del vangelo. Tollerarli nella nostra vita sarebbe in netta contraddizione con la fede che professiamo. 

L’esortazione di Paolo ai credenti di Filippi era chiara: dovevano sforzarsi di vivere come Dio vuole. 

E lo dovevano fare con l’atteggiamento giusto, con timore e tremore nei confronti del Signore. 

Timore e tremore sono due parole che di rado associamo al nostro rapporto con il Signore. Preferiamo parole e concetti più soft, che rassicurano e non ci chiedono troppo. E questo ci porta a dimenticarci, ancora una volta, come eravamo e dove eravamo diretti senza il Signore.

Ma la riverenza e la paura di dispiacere al nostro Salvatore giocano a nostro favore, perché ci spingono a fare solo quello che è giusto, e quindi buono e benefico anche per noi stessi. 

Se Paolo, scrivendo ai filippesi, si fosse fermato qui, allora il senso di inadeguatezza ci schiaccerebbe come un macigno. 

Ma, grazie a Dio!, il passo prosegue e dice: “Infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo” (Filippesi 2:13).

Nel testo originale in greco, la frase è espressa con maggiore enfasi: è Dio stesso la forza motrice nella vita del credente. 

Quando i nostri figli o amici non credenti non si comportano bene, non dovremmo sorprenderci; come peccatori si comportano da peccatori. Ma da un credente ci si aspetta un modo di vivere e relazionarsi diverso, santo, perché Dio ha promesso di produrre nei suoi figli sia il volere che l’agire, secondo il suo disegno benevolo.

Anche se, per lo standard perfetto di Dio, è impossibile per l’uomo comportarsi in modo totalmente irreprensibile, una persona che si professa cristiana, ma non lo dimostra nella vita pratica, desta sospetto e preoccupazione, perché Dio ha promesso di darci sia la volontà che la capacità di compiere il suo volere. 

Piacere a Dio è antitetico ai nostri desideri naturali. Se ci abbandoniamo a seguire quelli, adoperarci al compimento della nostra salvezza diventa uno sforzo destinato a fallire! 

CATTIVA MEDICINA CONTROVOGLIA

Come fa in tutte le sue lettere, anche in questa indirizzata ai credenti di Filippi, Paolo non si limita solo a parlare della nostra responsabilità di adoperarci al compimento della nostra salvezza, attraverso l’opera che Dio produce in noi, dandoci l’energia e la capacità di farlo. Ci dà anche istruzioni molto pratiche da seguire. E noi, come figli ubbidienti al nostro Padre celeste, vogliamo onorarlo, nonostante sia difficile e ci sentiamo appesantiti dalla nostra inadeguatezza.

Io vivo, infatti, in una continua tensione tra la mia responsabilità e l’opera che Dio sta facendo in me. E spesso devo tornare a ricordarmi che il piano di Dio è benevolo nei confronti dei suoi figli!

Me ne dimentico quando mi faccio distrarre, o sopraffare, dalle circostanze avverse e dalle persone difficili. Mi dimentico, e mi lamento.

So di non essere il solo ad avere questo problema. 

Paolo scrive: “Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute, perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato” (Filippesi 2:14-16).

Cosa sta dicendo? Che dobbiamo andare avanti a tutti i costi, stringendo i denti?

Mi ricorda quello che mia mamma raccontava di quando aveva lavorato per un periodo all’orfanotrofio “Comandi”. 

Diceva che all’epoca, specialmente durante l’inverno quando si rischiava di ammalarsi d’influenza, c’era l’abitudine di prendere dell’olio di ricino. Il sapore era terribile, ma se aveva delle proprietà salutari allora... La sera, prima di andare a letto, tutti i bambini si dovevano mettere in fila, e a ognuno veniva dato un cucchiaio di quest’olio. E dopo esser stati imboccati dalla direttrice, dovevano anche ringraziarla! (Lo scopo nel far dire “grazie” era di assicurare che la cattiva medicina fosse stata ingoiata!) 

A qualcuno potrebbe dare l’impressione che, con tutti questi imperativi impossibili, Dio sia un po’ come la direttrice austera del “Comandi” che ci dà la medicina cattiva e si aspetta pure che le siamo riconoscenti. Ma non è così.

Nel versetto di prima, il Signore ci mette davanti alla responsabilità che abbiamo, all’atteggiamento con cui dovremmo portarla avanti e alla motivazione che dovrebbe spingerci a voler ubbidire.

Dice di fare ogni cosa senza lamentarci, è vero, ma in questo comando ci sono delle verità implicite meravigliose che possiamo scoprire.

L’ERRORE DEGLI EBREI

È umano sottovalutare che brontolare sia una cosa grave. Ci lamentiamo facilmente, pensando che sia solo un modo di esprimere la nostra insoddisfazione del momento. Che male fa? In fin dei conti, siamo maturi abbastanza per fare, comunque, il nostro dovere.

Però il Signore non considera la lamentela come uno sfogo innocuo, anzi la trova offensiva! 

In Esodo 17:1-7 è raccontato come il popolo di Israele si mise a protestare contro Mosè nel deserto. Si erano accampati in una terra aridissima e avevano sete, 

loro e tutto il bestiame. Temevano di morire. Sembrava un motivo legittimo per fare delle rimostranze.

Non mi sono mai trovato in una situazione del genere, ma immagino che avrei avuto motivo di lamentarmi anch’io.

Gli israeliti non erano nati di nuovo.

Per comunicare con Dio, passavano attraverso Mosè e Aaronne. Chissà se sapevano come pregare personalmente? Sicuramente non avevano le Sacre Scritture che spiegano le vie del Signore. 

Ma avevano visto le piaghe d’Egitto, erano passati per il Mar Rosso come sull’asciutto, e ogni giorno e ogni notte c’era la colonna soprannaturale di nuvola e di fuoco che li accompagnava, i loro vestiti non si logoravano, e giorno dopo giorno si nutrivano della manna miracolosa (Neemia 9:9-21).

Avrebbero dovuto sapere.

Avrebbero dovuto comprendere e credere. E aspettare.

Invece, protestarono e tentavano Dio dicendo: “Il SIGNORE è in mezzo a noi, sì o no?” (Esodo 17:7). 

Ogni volta che ci lamentiamo stiamo mettendo in discussione il ruolo di Dio nella nostra vita.

Fermati e rifletti sul fatto che Dio è pienamente coinvolto nella tua vita.

Ricorda tutte quelle volte in cui il Signore si è mostrato tuo soccorritore, e ringrazialo di nuovo. Non dimenticare nessuno dei suoi benefici (Salmo 103). Non angosciarti di nulla, ma in ogni cosa fai conoscere le tue richieste a Dio in preghiere con ringraziamenti, e la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà il tuo cuore e i tuoi pensieri in Cristo Gesù (Filippesi 4:6,7).

È Lui che governa tutto quello che ti accade, come governa anche ogni persona, ogni datore di lavoro, vicino, parente e fratello della chiesa. 

Le situazioni e le persone che ci circondano sono parte della nostra vita, proprio perché volute dal Signore, parte del suo disegno benevolo per noi, attentamente pianificato. La salute, le finanze e tutte le ansiose preoccupazioni di questa vita (Luca 21:34) non devono offuscare la nostra serenità.

Nel chiederci di non lamentarci, ci sta dicendo di non dimenticare che Lui è con noi in qualunque situazione stiamo attraversando. Non è estraneo alla sofferenza, non è insensibile al nostro dolore. 

Riesci a ricordarti l’ultima volta che ti sei lamentato? Non era cosa innocua come potresti pensare. Nessuno di quegli israeliti che protestarono contro Dio entrò nella terra promessa!

Dio non vuole solo che evitiamo di lamentarci, ma che facciamo anche le cose senza dispute. 

OPPORTUNITÀ STRAORDINARIE

Abbiamo parlato delle circostanze, ora affrontiamo il problema delle persone difficili! Spesso sono proprio le persone la causa della nostra scontentezza e, se glielo permettiamo, riescono a derubarci della gioia di servire il Signore e di portargli gloria.

Le dispute e i litigi portano alla critica. 

Quant’è facile criticare… 

La critica, l’insoddisfazione e la lamentela: le tre gemelle sempre a braccetto!

Fare ogni cosa senza dispute è il nostro obiettivo. Lo possiamo affrontare come un peso o come un privilegio. 

La scelta è nostra.

La premessa per non criticare o litigare è la consapevolezza che quelle persone difficili nella nostra vita sono lì per volere di Dio. Abbiamo la possibilità di essere degli strumenti nella loro vita. Come Dio sta operando in noi, vuole operare anche in loro!

Questo pensiero può trasformare il tuo peso in privilegio, e la tua frustrazione nella gioiosa speranza di vedere Dio lavorare nei cuori di quelle persone.

Il mio atteggiamento irreprensibile e integro in circostanze e con persone che normalmente mi porterebbero a lamentarmi e a criticare, testimonia dell’opera di Dio in me in mezzo a questo mondo storto e perverso. È un privilegio straordinario! Più che una responsabilità schiacciante è invece una vera opportunità! È lo Spirito Santo che vive dentro di me che produce in me il volere e l’agire. 

Ti è mai capitato di trovarti in piena notte in mezzo alla campagna o in montagna lontano dalle luci artificiali? La vista del cielo stellato è da mozzare il fiato. Una distesa infinita e strabiliante di stelle. 

E non ce n’è una brutta! Qualcuna più fioca, altre più brillanti, ma nessuna brutta.

Così siamo noi. Paolo dice che splendiamo come stelle in un mondo buio, triste e senza speranza. Abbiamo l’opportunità di essere visti come qualcosa di bello, eterno, utile. 

Ci sono credenti che si preoccupano di essere notati per quello che posseggono, per la posizione che hanno raggiunto, per il loro aspetto fisico. Non voglio offendere nessuno, ma ci saranno sempre altre persone più belle e prestanti di noi, che hanno più cose e hanno raggiunto posizioni più ragguardevoli delle nostre. Il nostro valore non è in queste cose. 

Ma se abbiamo fatto risplendere la Parola di vita, abbiamo fatto qualcosa che ha un valore eterno, perché la Parola ha il potere di attirare le persone a Gesù Cristo e trasformare le loro vite! 

Qui si sta parlando di qualcosa che va al di là dello “sparare i versetti” e postare meme evangelici sui social. Dobbiamo essere pronti a dare una risposta a coloro che, osservando la nostra vita, ci chiedono le ragioni della nostra fede.

Fermati un momento… Sei come una stella nella tua famiglia? Brilli come un astro al lavoro? I tuoi vicini di casa sono incuriositi dalla luce che emetti? E a te importa brillare? A Dio certamente si!

Lo standard di perfezione che il nostro Padre celeste richiede da noi è umanamente irraggiungibile. Il pietista che è in me non potrà mai arrivarci con i suoi sforzi. E, come quietista, difficilmente mi offrirò per essere uno strumento straordinario nelle mani di Dio per produrre frutti eterni in persone difficili. A meno che tutto il brano di Paolo in Filippesi 2:12-16 non diventi una realtà in me. 

E io prego che così sia. 


Aiutanti e Collaboratori  

“Ti possiamo aiutare, Mamma?” chiesero Davide, Daniele e Deborah.  

“Sì, potete mettere a posto la verdura della spesa.” Mamma diede ad ognuno un sacchetto di plastica. 

“Davide, tu metti gli zucchini nel sacchetto, Daniele le melanzane; e tu, Deborah, porta le patate nel cestino. Chiaro?” 

“E le cipolle?” 

“A quelle penseremo dopo.” 

I tre si misero a lavorare. Deborah si ostinava a portare troppe patate in una volta sola e così perdeva tempo a raccattare quelle che le cadevano, ma tutto andò bene per un po’. 

“Ai, ai” si mise a piangere Daniele, “queste uova viola pungono. Io non voglio lavorare con queste!” 

“Allora, metti le cipolle vicino alle patate.” 

“Va bene.” 

Però ora Daniele e Deborah avevano la stessa strada da fare: si scontravano, si e aiutavano, ridacchiavano e trovavano divertentissimo che la pelle delle cipolle (loro la chiamavano carta) venisse via e svolazzasse. 

Davide, sereno, lavorava sugli zucchini e riempiva lentamente il suo sacco. “Io faccio molto bene, vero, Mamma?” 

“Molto bene. Ma cerca di fare più presto.”

Il sacco era pieno: Davide lo posò a terra e quello si rovesciò. 

“Oh, sono tutti fuori di nuovo… Mamma, adesso ho male di pancia, perché sono troppo stanco. Non posso più lavorare.” 

“Ora li butto tutti fuori e faccio da me” pensò Mamma; ma poi non li volle scoraggiare. 

“Su, lavoriamo insieme, Daniele, tu tieni il sacco e io ci metto dentro le melanzane (pungevano davvero quelle “uova” se non si stava attenti…). Poi rimettiamo gli zucchini nel sacco, tiriamo su le pelli delle cipolle e che cosa c’è qui? Ah, le pesche e l’uva da mettere via…”

“Mamma, ci dai un po’ di uva perché ti abbiamo aiutata così bene?” 

Con un grappolino di uva i tre aiutanti uscirono dalla cucina. 

Nel nostro servizio per il Signore, non facciamo molto meglio. Ci scoraggiamo, lo lasciamo a metà, perdiamo tempo e pazienza... Dio potrebbe farlo tanto bene senza di noi; eppure, no: ci fa suoi “collaboratori” e la parte più difficile offre sempre di compierla Lui. E alla fine, per di più, ci darà anche un premio...

Maria Teresa Standridge ("Un pizzico di sale" pubblicato sulla VOCE nel novembre 1962)

 

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE luglio 2019

L’estate è il periodo ideale per visitare le grandi città ricche di storia e di cultura. Certe cattedrali incutono un senso di stupore e di riverenza per la loro maestosità architettonica. Quella luce particolare… quell’eco dei passi composti e del brusio dei turisti… Ogni dettaglio sembra fare appello all’animo religioso di chi vi entra.

I locali delle nostre chiese evangeliche, invece, possono sembrare molto modesti in confronto. Chi conosce la Bibbia sa che Dio “che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa” (Atti 17:24,25). 

In realtà, le uniche due strutture che Dio abbia mai ordinato di costruire come luoghi di culto non esistono più. E se esistessero, noi come non Ebrei, non avremmo molta speranza di potervi entrare. 

Gesù ha detto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto” (Matteo 4:10).

È un comandamento, ma anche il desiderio sia di Dio che del credente. 

Ma in cosa consiste l’adorazione? Se Dio desidera che io lo adori, come lo devo fare in pratica? È adorazione quello che si fa nei nostri culti? 

Dobbiamo seguire qualche tradizione, o siamo liberi di scegliere noi come, quando e dove farlo? Questa, in sostanza, era ciò una donna samaritana voleva sapere da Gesù.

Tu sai in che modo Dio vuole essere adorato? 

Di chi è la mano che baci?

La domanda della donna samaritana sull’adorazione tocca un argomento attuale ancora oggi. Qual è il modo giusto di adorare Dio? C’entra qualcosa la religione, una chiesa o un luogo preciso? Richiede un atteggiamento pio, o riti e liturgie particolari? Un atmosfera mistica e musiche che trasportino le emozioni? 

Lei era samaritana, e ai samaritani era vietato entrare nel tempio di Gerusalemme. Avevano un loro monte sacro dove andavano ad adorare il Dio degli Ebrei, un Dio che, in realtà, non conoscevano (Giovanni 4:20-22). Quel monte rappresentava qualcosa di tangibile nel loro rapporto, altrimenti astratto, con il Signore.

Ancora oggi molte persone si sentono più vicine a Dio in edifici e luoghi specifici, adatti per il raccoglimento. Ricercano un contesto, un ambiente che susciti in loro un giusto senso di solennità. 

La risposta di Gesù alla samaritana deve averla sorpresa non poco: “Credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre” (4:21). Diceva che non c’entra affatto il luogo dove uno adora Dio, ma il modo in cui lo fa. 

È una notizia che stravolge tante opinioni, e altrettanti preconcetti: “L’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità” (4:23,24).

Spirito e verità. Sono le parole chiave della risposta di Gesù. Adorare Dio nel modo che Egli vuole, è vincolato a due presupposti fondamentali: essere nati di nuovo e conoscere la verità. 

Dio è Spirito. Per godere la comunione con Lui bisogna rinascere spiritualmente. Gesù l’ha spiegato a Nicodemo, un uomo di fede che pensava che bastasse avere la religione giusta: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo” (Giovanni 3:5-7).

I samaritani adoravano Dio, ma non lo conoscevano (4:22). Si potrebbe dire che lo adoravano come se lo immaginavano. 

Miliardi di persone fanno lo stesso oggi. 

Il dizionario Treccani definisce il verbo adorare come rendere culto, inchinarsi, amare teneramente e con grande trasporto, avere grande passione per qualcosa, o profonda ammirazione per qualcuno, apprezzare enormemente.

Come posso amare teneramente e avere una grande passione per qualcuno che non conosco? Pretendere di nutrire una profonda ammirazione verso uno sconosciuto è praticamente impossibile! 

Ma, se non è adorare Dio quello che faccio senza conoscerlo, che cos’è allora?

Generazioni alla deriva

La Bibbia afferma che prima di conoscere Dio – prima cioè di diventare suo figlio attraverso la fede in Gesù Cristo – di fatto mi è impossibile adorarlo. La realtà è che sto adorando tutt’altro.

L’apostolo Paolo spiega, per sua esperienza personale: “Dio ha vivificato anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli. Nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d’ira, come gli altri” (Efesini 2:1-3).

Ecco la verità nuda e cruda dalla parola di Dio: ogni uomo e donna che non è stato vivificato da Dio adora le idee, le religioni e le opinioni mondane, non divine. Generazione dopo generazione l’umanità segue il comportamento e l’andazzo del mondo. 

Adora Satana e adora se stesso.

Può sentire un grande trasporto religioso, ma se viene meno nel praticare misericordia e giustizia, dimostra di non aver conosciuto Dio (Osea 4:1,2). 

Qui non stiamo dicendo che non ci siano tante brave persone, sincere, altruiste e impegnate per le cause giuste. Stiamo dicendo che se mancano i due presupposti della vera adorazione – la nascita dallo Spirito di Dio e l’amore per la verità – non siamo gli adoratori che Dio cerca.

E fin quando uno adora qualcun altro, e non il vero Dio, sta servendo il padrone sbagliato. E come ha detto Gesù, nessuno può servire due padroni, perché amerà l’uno e odierà l’altro, o viceversa. 

Diritto esclusivo

Ovviamente, un non credente può assistere al culto insieme ai veri credenti e cantare le stesse canzoni, o gli inni che cantiamo noi, e forse anche pregare. Anzi, tutti sono più che benvenuti a venire e ad ascoltare la predicazione del vangelo con la speranza che, anche loro, possano diventare figli di Dio. Ma l’adorazione è qualcosa che solo un figlio di Dio può offrirgli. 

La vera adorazione comincia il giorno in cui una persona si converte attraverso l’opera di trasformazione dello Spirito Santo. Lo Spirito ci convince di peccato e di giustizia, e presenta Gesù Cristo come l’unico Salvatore che può condurci a Dio per essere perdonati. Da quel momento in poi, l’adorazione è uno stile di vita, una consapevolezza della presenza di Dio e volontà di vivere per il Signore. 

La trasformazione che lo Spirito attua nel credente è radicale: da persone che non hanno mai ringraziato Dio, né l’hanno glorificato, ma hanno adorato la creatura invece del creatore, diventiamo persone vivificate e capaci di adorare il vero e unico Dio. Nati dallo Spirito per adorare nello spirito.

Per adorare Dio, bisogna conoscerlo. Egli si è rivelato nella sua parola, la Sacra Bibbia, il mezzo stabilito da Lui per sapere chi è, cosa fa e cosa desidera da noi. 

Un culto inutile

Le parole chiave della risposta di Gesù alla samaritana erano: in spirito e in verità. Abbiamo visto che solo chi è nato spiritualmente può adorare Dio in spirito. Ma il problema è che pure un credente può adorare in modo vano. 

Dio aveva rimproverato questo peccato a Israele, e Gesù, citando le parole del Padre, denunciò l’ipocrisia dei religiosi del suo tempo: “Ben profetizzò Isaia di voi quando disse: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini»” (Matteo 15:8,9).

Per Dio è stato sempre una questione di cuore, di affetti, di priorità. 

L’adorazione non ha tanto a che fare con quello che si dice mentre si adora, ma con quello che si è dentro. 

Infatti, l’apostolo Paolo ha scritto queste parole: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà” (Romani 12:1,2).

L’adorazione è uno stile di vita. 

Il culto spirituale, gradito a Dio, è presentare i nostri corpi ogni giorno in sacrificio, morti a noi stessi ma viventi per il nostro Signore. 

Pensare di adorare con la bocca, senza essere pronti a sacrificare la nostra vita in modo completo e radicale, è adorare invano. È inutile. È mentire.

Nel Nuovo Testamento, la parola greca usata più comunemente per indicare l’atto dell’adorazione, significa letteralmente “inchinarsi” e “baciare la mano”. Tenendo questo in mente, i versetti in Romani 12 sul presentarsi a Dio come sacrifici viventi, assumono la giusta prospettiva di sobrietà e serietà. Quando adoriamo Dio non stiamo davanti a qualcuno che sia pari a noi. 

È vero che Dio ha messo lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: “Abbà, Padre” (Galati 4:6), ma questo è stato reso possibile solo per l’atroce morte di Gesù al posto nostro. 

Dobbiamo riconoscere chi abbiamo davanti, e capire che il nostro rispetto incondizionato, il servizio e la nostra sottomissione completa sono dovuti a Lui. La vera adorazione è caratterizzata dal timore di Dio (Malachia 1:6).

Troppo spesso nei nostri incontri quello che è vissuto come adorazione non è molto diverso dal tentativo di evocare un’atmosfera piacevole che ci faccia sentire rassicurati e coccolati. Sicuramente non assomiglia all’atteggiamento che avevano Mosè, Isaia, Ezechiele, Daniele, Pietro, Paolo e tanti altri uomini di Dio davanti alla sua maestà.

 “Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. 
“Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava. L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. 
“Allora io dissi: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!» 
“Ma uno dei serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle dall’altare. Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato». 
“Poi udii la voce del Signore che diceva: “Chi manderò? E chi andrà per noi?»  Allora io risposi: «Eccomi, manda me!»” (Isaia 6:1-8)

 Ecco l’esempio di quella adorazione che dovrebbe far parte della nostra vita. 

L’uomo che si avvicina a Dio in riverenza, riconosce che Egli è immensamente santo, e non può fare a meno di vedersi come peccatore che ha bisogno dell’opera continua della grazia di Dio nella sua vita. Con spirito umile, consapevole di non meritare niente, è pronto a servire.

Questo non può accadere solo la domenica al culto.

L’adorazione deve essere vissuta dal lunedì alla domenica, di settimana in settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Deve migliorare e crescere giorno dopo giorno. E un giorno, nell’eternità alla presenza di Dio, sarà gloriosa, perfetta e senza fine.

 “Chi non temerà, o Signore, e chi non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo; e tutte le nazioni verranno e adoreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi sono stati manifestati” (Apocalisse 15:4).

Adoratori ricaricati

Per non essere solo un trattato teologico sull’adorazione (argomento troppo vasto per un articolo breve come questo), vediamo come si esprime in pratica l’adorazione come stile di vita. 

È chiaro che ogni aspetto della fede biblica va vissuto tanto in famiglia, quanto al lavoro, nel quartiere dove abitiamo, nella società, ma soprattutto nella chiesa. 

È quello che l’autore della lettera agli Ebrei affermava quando ha scritto: “Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome. Non dimenticate poi di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace” (Ebrei 13:15,16).

La nostra voce esprime l’adorazione del cuore, i gesti confermano la sua genuinità.

Chi ci conosce, sa se stiamo adorando o “ipocritando”!

Il culto che offriamo a Dio la domenica è adorazione solo se è l’espressione onesta di quello che abbiamo messo in pratica durante la settimana.

Lo scrittore dell’epistola agli Ebrei dice ancora: “Avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse. Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci all’amore e alle buone opere, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il giorno” (10:22-25).

In tutta onestà dobbiamo ammettere che non siamo adoratori costanti. Abbiamo prove e difficoltà che ci ostacolano, ma più di ogni altra cosa è proprio la nostra vecchia natura che ci frena, e abbiamo bisogno del nostro tempo insieme a tutta la chiesa la domenica, proprio per ricaricarci e spronarci.

I nostri incontri regolari come credenti in Cristo sono essenziali nel piano di Dio per la nostra crescita spirituale. Perciò ogni momento del culto è importante e contribuisce alla nostra adorazione collettiva. Tu contribuisci al mio progresso nella fede, come io al tuo. 

Allora sii preparato quando arrivi. Il tuo cuore sia ben disposto. Non fare tardi il sabato sera per non arrivare mezzo addormentato: non è utile per una degna adorazione di Dio. 

Arriva in orario. Anzi, arriva prima che cominci il culto. Se prevedi traffico o che avrai difficoltà a trovare parcheggio, mettilo in conto, e parti prima. La puntualità non è solo segno di buona educazione, ma dimostra anche la tua voglia di adorare  insieme ai tuoi fratelli e sorelle. Arrivare in ritardo distrae gli altri, e ti fa perdere una parte importante del culto.

C’è un inno che dice: “È vano il cantare, è indegno il pregare, se altrove è la mente, se muto è l’amor!” Con poche parole esprime un concetto fondamentale. 

Anche con la musica adoriamo Dio. In alcune chiese la musica è diventata più importante delle parole. È giusto che sia fatta nel miglior modo possibile, degno del nostro Creatore, ma la musica deve essere funzionale allo scopo per cui ci si riunisce. E la musica che si fa, per essere eccellente, deve essere consona alle parole che si cantano. 

L’adorazione non ha a che fare con noi, ma con Dio. Stiamo parlando di Lui, dobbiamo farlo con il dovuto rispetto, e non per divertirci.

I canti nel culto, che siano scelti in anticipo da chi presiede o proposti dalla congregazione, hanno la loro ragione d’essere solo nella misura in cui, esprimendo verità bibliche, aiuteranno i credenti ad adorare a viva voce. Non è il karaoke, dove ognuno canta la sua canzone preferita. È il tempo in cui i credenti innalzano la loro voce insieme per riflettere su chi è Dio, cosa fa per noi, e per lodarlo e ringraziarlo. 

Se non sai cantare, se ti vergogni della tua voce, canta sottovoce o ascolta soltanto, e pensa nel tuo cuore alle parole cantate. Un tempo così non è mai perso!

La preghiera durante il culto è un momento importante in cui tutta la chiesa unita parla al suo Signore. Ascoltare le preghiere, e dire amen, è un’espressione dell’adorazione comunitaria. Non è la stessa cosa che la preghiera privata, per conto proprio. Qui si è un corpo unito, qui quello che si dice in preghiera riguarda tutti i presenti. Per questo è importante che chi prega lo faccia ad alta voce, in modo che gli altri possano comprendere, partecipare ed esserne incoraggiati. 

Anche contribuire all’offerta è parte dell’adorazione. Non è qualcosa che debba sorprenderci o coglierci impreparati. All’ammontare del dono bisogna pensare già a casa. Non va quantificato guidati dall’impulso del momento. 

L’offerta è adorazione, prima di tutto perché significa riconoscere che tutto quello che abbiamo viene da Dio. È anche un segno di gratitudine e di dipendenza da Dio. 

È un modo pratico di partecipare attivamente al progresso del vangelo. Ecco perché non deve essere solo una reazione emotiva a un appello, o qualcosa che facciamo per abitudine, o perché ci sentiamo in dovere di farlo.

Il fulcro dell’adorazione collettiva è chiaramente l’esposizione della Parola di Dio. Perciò è fondamentale che chi predica sia ben preparato, abbia studiato il testo biblico di cui parlerà, e abbia vissuto durante la settimana quello che insegnerà la domenica. Il suo messaggio deve essere così chiaro che chi l’ascolta sappia come adorare meglio, durante la settimana, il Dio del cielo e della terra. 

La cena del Signore è anch’essa una espressione di adorazione, un momento meraviglioso in cui ricordiamo quello che ha fatto. Celebrandola insieme affermiamo davanti a tutti su quale base si fonda la nostra fede: sulla sola opera di Cristo che per la sua grazia ha fatto sì che siamo riconciliati con Dio, e possiamo adorarlo in spirito e verità. 

È anche un richiamo per esaminarci, ognuno per conto proprio, e confessare a Dio  il nostro peccato, abbandonandolo.

L’adorazione come stile di vita cambia il tuo modo di pensare alla chiesa. Troverai voglia e piacere di essere puntuale per partecipare ai canti, alla preghiera, all’ascolto del messaggio, all’offerta e alla cena del Signore, perché dopo aver vissuto la settimana adorando Dio potrai ancora contribuire alla crescita degli altri. 

L’adorazione non è casuale, ma pensata, e prodotta da Dio in noi. 

Non più a Gerusalemme, nè in Samaria. 

La vera adorazione è uno stile di vita quotidiano, perché se non hai adorato Dio in spirito e verità durante la settimana, non basteranno le musiche, l’atmosfera e gli espedienti più suggestivi a evocare in te una vera adorazione in chiesa!

  

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

La VOCE giugno 2019

È nella natura umana pensare che il “nostro” modo di ragionare e di fare le cose sia quello giusto. Da quando ci siamo convertiti a Cristo, abbiamo imparato e adottato il modo di vivere la fede della nostra chiesa locale, in cui siamo cresciuti e maturati. 

Ci è familiare il modo in cui si svolge il culto: così si è sempre fatto, e così si farà.

Ma che succederebbe, se una domenica mattina l’Apostolo Paolo in persona entrasse nella nostra chiesa? Proprio lui, che prima avrebbe ucciso persone come noi. Lui, che dopo la sua conversione, portava sulla sua pelle le cicatrici per il vangelo.

Cosa penserebbe osservando come ci stiamo preparando per il culto? 

Canterebbe anche lui i nostri coretti preferiti, con contenuti superficiali? O preferirebbe gli inni classici in un italiano arcaico? Troverebbe gli strumenti e gli arrangiamenti appropriati?

Si identificherebbe con le nostre preghiere? 
Sarebbe d’accordo con il messaggio predicato?

Ai tempi suoi nessuno aveva una Bibbia da portare alle riunioni, tanto meno un tablet o il telefonino con l’app per leggerla. Le Sacre Scritture erano un lusso che pochi potevano permettersi.

Molto è cambiato da allora, anche in meglio, ma certe cose non dovrebbero essere affatto diverse. 
Dio certamente non è cambiato. Ma i credenti?

Le chiese ai tempi di Paolo erano appena nate, Gesù era risalito in cielo da poco tempo. C’erano ancora dei credenti convertiti durante la Pentecoste, prima che cominciassero le persecuzioni. 
Molti avevano perso tutto, fuggendo in altre città. Le prove che dovettero affrontare non erano certo i disturbi psicoemotivi per le normali difficoltà della vita. 

Cosa direbbe l’Apostolo Paolo alla nostra assemblea la prossima domenica?

"Troppa vanità, amici miei!"

I credenti del primo secolo sarebbero sbalorditi di quanto è diversa la vita adesso: macchine, aerei, grattacieli, palazzi di vetro, plastica e altri materiali nuovi, cibi sintetici, medicine…  I figli vanno tutti a scuola, le mogli fanno carriera, non si lavora più tutto il giorno…  

Progresso in ogni campo.
Troverebbero tantissime novità “sotto il sole” di cui meravigliarsi. 
Eppure – lo afferma la Bibbia – nulla è cambiato dai tempi loro. 

 

Vanità delle vanità, dice l’Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità. Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? 
Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. 
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. 
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere e l’orecchio non è mai stanco di udire. 
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole.  C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo»? Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto. 
Non rimane memoria delle cose d’altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi. 
– Ecclesiaste 1:2-11

 

Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, le cose sono migliorate. Ma l’uomo stesso, nella sua essenza, non è cambiato affatto.

Gli stessi desideri e bisogni continuano a farla da padrone nel cuore umano, spingendoci a rincorrere cose futili. 

Salomone, per la singolare saggezza che Dio gli aveva dato, sapeva bene che tutto quello che gli stava intorno era un vapore. Purtroppo saperlo non è sufficiente. E così anche lui era stato sedotto e travolto dal desiderio di possedere, solo per scoprire dalla sua esperienza quello che avrebbe dovuto già sapere: tutto è vanità!

Se l’Apostolo Paolo potesse visitare le nostre chiese oggi, forse anche lui confermerebbe che c’è troppa vanità nel moderno mondo evangelico. 

Non lo direbbe con arroganza, lui che aveva rincorsa la vanità come tutti gli altri (Efesini 2:1-3).
Lo direbbe con la voce spezzata. 

Si siederebbe in mezzo a noi e, guardandoci negli occhi, direbbe con le lacrime: “Troppa vanità, amici miei! State vivendo troppo per il presente e poco per il futuro.”

In Atti 20 c’è un suo discorso in cui ripercorre il suo lavoro come anziano-pastore della chiesa di Efeso. Sono parole che esprimono tutta la sua premura, l’attenzione e un amore sincero per la chiesa. C’è la grande sollecitudine di aiutare ogni credente a scoprire e a perseguire i veri valori eterni della vita.

Noi, credenti del terzo millennio, cosa stiamo rincorrendo? Chi ci insegna a vivere con una prospettiva giusta?

Nelle prime chiese c’era un gruppo di credenti che l’aveva capito.

La chiesa di Tessalonica godeva della reputazione di essere approvata da Dio. La loro conversione a Cristo aveva avuto non solo un forte impatto su loro stessi, ma anche un effetto onda su vasta scala. Ecco come ne parlava Paolo: 

“Infatti il nostro vangelo non vi è stato annunciato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione; infatti sapete come ci siamo comportati fra voi, per il vostro bene. 
Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo, tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. 
Infatti da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne; perché essi stessi raccontano quale sia stata la nostra venuta fra voi, e come vi siete convertiti dagl’idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall’ira imminente” (1 Tessalonicesi 1:5-10).

La loro trasformazione era stata notevole. Non avevano fatto, come spesso accade oggi, una mera professione di fede solo a parole, una preghiera alla fine di una riunione e tutto finisce lì. 

Il loro modo di vivere era cambiato drasticamente. Tutti ne parlavano.

Qual è, allora, la differenza? Come mai questo tipo di cambiamento autentico spesso fa fatica a manifestarsi nelle nostre chiese?

I tessalonicesi non erano supereroi della fede. Ma quello che hanno fatto era imitare Paolo il quale, lungi dal vivere una finta spiritualità, si riconosceva il più grande dei peccatori. 

Con rammarico genuino, Paolo si rendeva conto che certe volte faceva cose che non avrebbe voluto fare, e che, invece, in altri momenti non faceva quello che voleva (Romani 7:21-25). Non era perfetto. 

Ma Paolo, e i tessalonicesi, si distinguevano da molti altri perché avevano abbracciato il lavoro dello Spirito Santo in loro. Avevano dato retta alla correzione di Dio, che mirava a convincerli, ad aiutarli a comprendere la sua volontà, e a dargli la forza di compierla. 

Non supercredenti, ma obbedienti a Dio. 

Erano cambiati, erano diventati degli esempi, e la loro fede si vedeva. 

Questa drastica trasformazione era diventata argomento di conversazione tra i credenti di tutta la regione.

La fede dei tessalonicesi era caratterizzata da tre azioni distinte:
- avevano lasciato la vecchia vita, 
- servivano il Signore con fedeltà 
- e vivevano in funzione del ritorno di Cristo. 

Per dirlo in altre parole, avevano rinunciato a rincorrere le vanità, come facevano in passato, per vivere il presente con una prospettiva futura.

La loro conversione non era stata facile, e la vita non gli aveva risparmiato difficoltà, ma la loro preoccupazione era vivere per cose che hanno un valore eterno.

E loro oggi sono un esempio per noi, che siamo facilmente distratti da mille attrazioni inutili. 

Se Paolo visitasse il nostro culto, molto probabilmente non interverrebbe sulle cose esteriori che non vanno. Le noterebbe senz’altro, perché denunciano qualcosa di più grave che non va. Ma farebbe massima attenzione alla sostanza, all’insegnamento, all’atteggiamento e allo scopo in ogni cosa che si fa. Ci inviterebbe a fermarci e a valutare la nostra vita, per capire se stiamo vivendo per il presente o per il futuro. 

E, onestamente, potrebbe essere difficile capire cosa significhi vivere per l’eternità. Se si è intrappolati nel presente che, con tutti i suoi tentacoli, avvolge e stringe da ogni parte, saremo incapaci di occuparci del bene eterno, sia nostro che di chi ci sta vicino.

Diventa tutto più chiaro, quando consideriamo le parole di Gesù.

“Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà.  Che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua? O che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?” (Matteo 16:24,25).

“Gesù parlò loro di nuovo, dicendo: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»” (Giovanni 8:12 ).

“E disse loro: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, lasciate subito le reti, lo seguirono” (Matteo 4:19,20). 

“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente»” (Matteo 28:19,20).

La chiesa ha il solenne compito di fare di ogni credente un discepolo di Cristo. Non per essere un bravo membro della comunità. Non per portare avanti i programmi della chiesa come si è sempre fatto. Non per perpetuare un’opera evangelica o una denominazione.

Discepoli. Discepoli che seguono il Maestro. Che vivono con una prospettiva eterna. Che capiscono che la vita è breve e che il mondo passa, e che solo il frutto che Dio produce in noi e attraverso noi è eterno.

Da questa prospettiva tutte quelle cose che consumano il nostro tempo e le nostre energie appariranno senza senso se non addirittura dannose. 

Questa consapevolezza di essere discepoli è ciò che la chiesa deve continuare a trasmettere nell’insegnamento biblico, nelle preghiere ad alta voce, nei canti e in ogni altra attività. 

Ovviamente è solo lo Spirito Santo che può produrre una vera maturità spirituale in noi, ma se la Parola di Dio non è predicata, cantata e vissuta con fedeltà, chi ci ascolta e osserva come fa ad essere sollecitato dallo Spirito?

Paolo aveva conosciuto molti credenti pronti a morire per la loro fede. Tanti di loro sono stati uccisi. Troverebbe la stessa prontezza in noi? Saremmo pronti a dare la vita per il vangelo?

La nostra priorità non può e non deve essere quello di inseguire ancora le vanità della vita. Rinunciare a se stessi vuol dire rinunciare tutto quello che per un non credente è priorità assoluta: possedere cose solo per il gusto di soddisfare se stessi, apparire per sembrare importanti e realizzati, avere una posizione per essere riconosciuti e sentirsi appagati.

Cos’è un cristiano se non uno che, per seguire Cristo e fargli piacere in ogni cosa, rinuncia al peccato e vive per attirare altri alla salvezza? 

“Okay”, dirai, “è tutto vero, e ci credo. Ma, in sostanza, cosa dovrebbe cambiare nella mia vita?” 

Tanto per cominciare, chiediamoci come stiamo vivendo le nostre relazioni, quali siano le nostre mete, quali le nostre priorità. Esaminiamo con onestà come e perché facciamo il nostro lavoro, cosa compriamo, cosa teniamo nel nostro armadio… 

Troppo radicale? Prova a invitare Paolo a casa tua a guardare da vicino le tue scelte! 

E più che Paolo, che non verrà né in chiesa né a casa, considera il Signore Gesù. Lui è sempre presente, osserva ogni cosa e scruta la nostra mente e il nostro cuore. A lui non possiamo nascondere nulla! 

Ma per aiutarci a rivalutare la nostra vita, facciamo qualche esempio pratico di tutto quello in cui possiamo senz’altro migliorare.

 

COMINCIANDO DAI SINGLE, perché lo siamo stati tutti, chi per pochi anni, chi per più a lungo, ecco alcune indicazioni.

Paolo ha detto che per un credente essere single ha dei vantaggi. 

È una condizione privilegiata per coloro che vogliono vivere per le cose eterne. Non devono preoccuparsi di piacere al marito o alla moglie, e sono quindi più liberi di dedicarsi a servire il Signore (1 Corinzi 7: 32-35).

Un credente single, però, se non ha una prospettiva eterna per la sua vita, rischia di chiudersi in se stesso per via delle responsabilità e dei problemi che si trova a dover affrontare da solo. La solitudine può farsi sentire e i tentacoli del vivere solo per il presente sono lì, pronti ad avvilupparlo e a isolarlo sempre di più.

Ma se ti pesa non essere sposato, non è il momento di arrendersi e continuare a credere che nessuno ti capisca. Dio capisce i single. È lui che ha permesso la condizione in cui ti trovi e la vuole usare per la sua gloria.

Può darsi che Dio ti stia preparando per una vita da sposato, ma nel frattempo sei nella condizione perfetta per servirlo come un discepolo senza legami! Pianifica il tuo presente e il tuo futuro, considerando che la tua priorità è essere un pescatore di uomini, un discepolatore, un servitore.

 

SE SEI SPOSATO, cosa vuol dire essere un marito o una moglie che vive per ciò che è eterno? 

Comincia con la consapevolezza che la vita di coppia richiede impegno e costanza. Bisogna darsi da fare e lavorare sodo su se stessi per essere sicuri che il matrimonio rispecchi la descrizione che Dio ha ispirato in Efesini 5. 

Il comportamento del marito deve riflettere quell’amore capace di donarsi completamente, lo stesso che Cristo ha per la chiesa. L’atteggiamento della moglie invece deve esprimere la gioiosa sottomissione della chiesa a Cristo. 

In un mondo dove il matrimonio viene preso sempre più sottogamba e disprezzato, la condotta santa dei coniugi credenti è un esempio abbagliante di questa prospettiva eterna. 

Se sei un marito, hai il sacro compito, che Dio ti ha affidato, di essere un esempio di Cristo per la famiglia, ma hai anche la responsabilità di aiutare tua moglie a diventare anche lei più simile all’immagine di Cristo. Il modo in cui la tratti e ne parli dovrebbe sorprendere positivamente coloro che vi osservano. 

Se sei una moglie, la tua collaborazione con tuo marito e la tua gioiosa sottomissione a lui dovrebbero attirare altri al Signore. In un mondo dove la sottomissione è una parolaccia, una donna che cura di più il suo cuore piuttosto che il suo look, sarà una luce irresistibile. 

E visto che il matrimonio biblico è un’immagine del rapporto di Cristo con la chiesa, è l’intenzione di Dio che la famiglia cristiana sia anche un richiamo a diventare seguaci di Cristo. 

Una coppia unita nell’amore e negli intenti è efficace per raggiungere un mondo che necessita del meraviglioso messaggio del vangelo. La loro è una casa ospitale, aperta, accogliente e invitante che rispecchia valori eterni.

 

E I FIGLI? È tragico vedere quanti figli di credenti abbandonino la fede molto presto. In passato poteva succedere che smettevano di farsi vedere in chiesa intorno ai 18 anni. Oggi tanti genitori si arrendono prima, sentendosi incapaci di trasmettere ai propri figli l’importanza della fede in Cristo.

Si sa, ogni ipocrisia, ogni fede finta è presto smascherata in casa. 

Per anni i figli hanno osservato il modo in cui i genitori si sono trattati in privato, l’atteggiamento con cui partecipano alla vita della chiesa e come si rapportano agli altri. 

Non gli è sfuggito con quanta facilità la vita cristiana prendeva il secondo posto rispetto al lavoro e alle attività in generale. I figli hanno imparato, senza che i genitori glielo abbiano mai detto a parole, che la scuola, lo sport, la musica e tante attività erano più importanti della vita spirituale. 

La mancanza di coerenza prima, e  della correzione poi, con conseguenze amorevolmente giuste per le disubbidienze, hanno eroso ogni traccia di insegnamento del vangelo nei figli. 

Se ami tuo figlio, non lasciare la tua responsabilità di inculcargli valori eterni solo agli insegnanti della scuola domenicale. Il tuo lavoro non è più importante della vita eterna di tuo figlio. 

 

FINO A QUANDO? Essere discepoli non finisce mai! Vivere per ciò che eterno comincia nel giorno in cui ci convertiamo a Cristo e finirà il giorno in cui il Signore ci prenderà con sé. 

Non saremo mai perfetti, non riusciremo sempre a fare la cosa giusta, ma il fatto che sia difficile non può essere il motivo per cui smettiamo di impegnarci. 

Troppo radicale? Spero che non lo pensi sul serio. L’Apostolo Paolo cosa ti direbbe? Ma ancora più: cosa direbbe il Signore? 

  

  • L’argomento di questo numero ti è piaciuto?
    Vuoi avere gratuitamente altre copie da distribuire?
    Telefona allo 06-700.25.59

 

Sottoscrivi questo feed RSS